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Parte 1.

Vivere in un paese grande e potente come la California ha i suoi innumerevoli vantaggi. Gli sbocchi sono maggiori, è più facile farsi conoscere e raggiungere il proprio obbiettivo. Per me che avevo sempre sognato essere uno scrittore di storie e canzoni era l'ideale.
Ma talvolta, questa grandezza tende a stancare. E questo è ciò che è successo a me quando avevo a malapena 21 anni. Un giovane Harry che non aveva ancora capito cosa voleva farne della sua vita.

Mi consideravano un pazzo. "Come fai ad essere stanco di una città come la tua?" mi dicevano in continuazione.
Ho sempre risposto "voglio viaggiare", ed in parte era vero. Ma non era esattamente tutta la verità.
La verità è che volevo conoscere, più che viaggiare. Allontanarmi da tutta quella banalità che era diventata San Francisco con tutti i suoi grandi palazzi, industrie e imponenti monumenti in ogni suo angolo, e vedere qualcos'altro.

Per questo, legai i miei lunghi capelli ricci in una coda, mi misi uno zaino in spalla e partii.

Non avevo neanche programmato qualcosa. Non sapevo quale sarebbe stata la mia prima meta, nè la seconda, nè nessun'altra. Mi sarei lasciato guidare dalle emozioni e sarei andato ovunque mi avrebbe portato il mio istinto.

Ho visitato alcuni dei luoghi più belli del mondo: le benestanti condizioni economiche dei miei genitori mi hanno aiutato molto, ad essere sincero.
Dalla complessità della Torre Eiffel, alla particolare cultura di China Town, fino anche alla raffinatezza orientale del Taj Mahal.

Ma tutto questo mi sembrava ancora troppo poco.

Mi sembrava in ogni momento di non essermi spostato neanche di un passo da San Francisco, circondato da alcune tra le cose migliori che l'umanità avesse mai costruito. Tuttavia, ancora insoddisfatto e del tutto demoralizzato, ero pronto a ritornare da dove ero partito.

Poi, proprio lì in India successe qualcosa. Avevo appena finito di analizzare in ogni piccolo dettaglio una delle Sette bellezze del mondo, cercando qualcosa che mi appagasse e mi facesse sentire completo, senza neanche sapere effettivamente di cosa fossi alla ricerca. Sapevo solo che non l'avevo trovato.

Decisi perciò di allontanarmi e lì vicino trovai un negozio di souvenir.
Prendere qualcosa ai miei genitori prima di ritornare con la coda tra le gambe, perché no?

Entrai e cominciai a guardarmi intorno finché una ragazza si avvicinò a me. Era molto bella, con la pelle scura, lunghi capelli castani e occhi grigi come una giornata tempestosa. Aveva un piccolo neo al lato destro superiore della bocca e un piercing le illuminava il naso piccolo e all'insù. Indossava un lungo abito rosa pallido che somigliava più ad una tunica, ricamata in alcune zone d'oro creando dei piccoli eleganti fiori e disegni tribali. In più, il viso e i capelli erano incorniciati da un cerchietto che si allungava in un velo trasparente non troppo lungo che richiamava il colore del vestito. Non le copriva il viso, le copriva in parte i capelli ed era semplicemente un fattore estetico che rievocava i suoi tratti chiaramente orientali.
Capii presto che fosse forse la commessa, e con molta gentilezza mi chiese se avessi bisogno d'aiuto. Mi stupii della dimestichezza che dimostrò nel padroneggiare l'inglese, sebbene non fosse chiaramente la sua lingua madre.

«No grazie, sto solo dando un'occhiata».

«D'accordo, ma non c'è qualcosa che cerchi in particolare?» mi rispose.

Rimasi spiazzato a quella domanda. Il mio cuore fece una capriola.

Avrei voluto dirle che sì, c'era qualcosa che cercavo ma non sapevo ancora cosa fosse, che avrei voluto tanto scoprirlo perché non mi ero mai sentito così perso in tutta la mia vita e avrei fatto qualunque cosa per trovarlo. Ma semplicemente rimasi in silenzio, non sapendo come dare una risposta comune e nascondere tutto ciò.

E forse non ce ne fu bisogno, perché lei mi sorrise ampiamente, rivelando un altro brillantino sul canino che le illuminava il sorriso ancor più. E in quel sorriso mi sentii capito, come se quella sconosciuta avesse colto perfettamente ciò che avrei voluto dire.

«Forse ho quello che fa per te, ti va di seguirmi?» riprese a parlare.

E in un attimo mi ritrovai fuori dal negozio, seguendo Layla - così si chiamava - non so dove.
Ci eravamo presentati nel frattempo, lei mi aveva raccontato di essere una studentessa di lingue e che la sua famiglia era in buoni condizioni economiche ma che lavorava in quel negozio per pagarsi gli studi ed essere indipendente dalla sua famiglia. Mi spiegò che per lei la famiglia contava più di qualunque altra cosa e che per questo aveva deciso di costruirsi il futuro con le proprie mani così come aveva fatto suo padre, seguendo e accogliendo tutti i valori che le erano stati insegnati.
Io le raccontai invece del perché mi trovavo lì, così lontano dall'America, dalla mia casa, alla ricerca di qualcosa sconosciuto. Ed esattamente come avevo percepito al negozio, lei lo aveva già letto in me.

Mi ritrovai stranamente a sorridere senza ragione quando notai nel suo occhio destro una piccola voglia marrone chiaro accanto all'iride. Non riuscivo a spiegarmi il perché ma vidi in quella macchiolina qualcosa in più rispetto a ciò che avevo visto al Taj Mahal. Era impensabile, eppure era così, e ne ero piacevolmente sorpreso.

Dopo dieci minuti di piacevole passeggiata e chiacchierata ci ritrovammo in una zona completamente diversa da dove ci trovavamo prima.
Eravamo circondati da persone di tutte le età e un intenso rumore di parole che però non riuscivo a distinguere per via della lingua.

«Siamo al mercato» disse tutto d'un tratto.

La guardai ad occhi spalancati e poi tornai a guardarmi intorno, e solo ora ricollegai tutto.
Camminando ancora un po' ci trovammo in una stretta strada, ai cui lati c'erano bancarelle di tutti i tipi e tantissime persone che giravano tra quelle stesse bancarelle.

Sorrisi impercettibilmente e ricominciammo a camminare tra quella realtà così diversa da ciò che avevo visto fino a quel momento.
La grandezza, il Taj Mahal, il lusso, la raffinatezza.
Adesso mi trovavo invece nella quotidianità del paese, in ciò che la gente fa giorno per giorno, l'aria che si respira. Aria pura, genuina. Era tutto così semplice eppure così speciale.

E fu in quel momento che mi resi conto che probabilmente era la prima volta che facevo una cosa del genere in uno dei tanti paesi in cui ero stato in quegli anni.
La mentalità legata alla maestosità di ciò che avevo vissuto a San Francisco per tutta la mia vita aveva condizionato le mie scelte e le mie destinazioni, e non mi ero accorto che ciò da cui avevo tentato di allontanarmi era in realtà lo stesso in cui mi imbattevo in tutti gli altri posti.
Non volevo allontanarmi semplicemente dalla solennità di San Francisco, volevo allontanarmi da tutto ciò che fosse troppo. E quello che cercavo era esattamente quello, le piccolezze, la genuinità, i posti sconosciuti ma ugualmente belli, e con quel tocco in più.

Non ero mai stato nel posto sbagliato, neanche quando mi sentivo così fuori posto a casa mia, era solamente il punto di vista da cui lo guardavo ad essere sbagliato.

Ero alla ricerca delle piccolezze, volevo conoscere le bellezze più sconosciute, volevo vedere cose che pochi al mondo hanno visto. Le imperfezioni, forse i luoghi poco curati e abbandonati a sè stessi.

Decisi che non sarei ancora a casa, non era ancora il momento.
Presi comunque un pensiero ai miei genitori, ma piuttosto che prenderlo in un costoso negozio di souvenir lo comprai lì, perché è lì che era rappresentato davvero il paese. Perché era lì che avevo capito ciò di cui avevo bisogno.

Ero io, mi ero limitato al grande. Avevo visto la Tour Eiffel, quando il mio cuore cercava la sabbia sotto i piedi sulle rive del Senna.
E il mio cuore l'aveva capito con la voglia nell'occhio di Layla, mentre a me la consapevolezza era arrivata con quelle piccole stradine indiane.

Il giorno dopo partii, tornai in Francia dove mi godetti il silenzio della periferia. E alla Francia seguì il Giappone, dove stetti più tempo di tutti fino a quel momento, poi Gerusalemme, Tunisia, Paraguay, Canada e tantissime altre.

Avevo acquisito delle grandissimi consapevolezze, sapevo cosa volevo e mi sentivo molto più soddisfatto. E in particolare ero certo di una cosa: non sapevo se l'avrei mai rivista, non lo so neanche adesso, ma non avrei ringraziato mai abbastanza Layla.

Ero poi volato in Italia, dove amai le lunghe passeggiate sul lago di Como, le stradine e i vicoli di Messina, la cultura di Matera.

E adesso ero in Campania, Sorrento per essere precisi. Forse uno dei luoghi migliori che avessi mai visitato.

Il golfo di Sorrento è un paradiso terrestre, senza nessun tipo di iperbole o esagerazioni. È un posto incredibile, e di notte è assolutamente magico.
E fu proprio una notte che successe una delle cose che mi cambiò per sempre la vita.

Amavo, appunto, di notte, affittare una barca da un vecchio uomo del posto che nella vita era un pensionato, e per guadagnare qualche soldo extra affittava appunto la sua barca ai turisti. Gli piaceva fare dei regali a sua moglie, dai più piccoli come una poesia ai più costosi come una bella collana, ed era così che gli piaceva donarglieli.
Ero lì da almeno due settimane - e a dirla tutta non avevo nessuna intenzione di andarmene - e avevo usato la barca per navigare effettivamente solo una volta. Più che altro, amavo sdraiarmici per guardare il cielo, farmi sopraffare dai vivi rumori del paesello vicino e lasciarmi cullare dalle onde del mare.

Quella notte ero sulla barca vicino alla riva, c'era la luna piena e si rifletteva in un mare elegante vestito di blu sotto un cielo tappezzato di stelle.
Sporsi la mano fuori dalla barca e la immersi lentamente nell'acqua luccicante. Tirava un forte vento che faceva sì che i miei capelli ricci svolazzassero a caso sulla mia testa finendomi sul viso, così chiusi gli occhi e mi lasciai andare a quel mare di sensazioni.

Poi tra il silenzio scorsi un leggero suono, un canto. Era dolce e angelico, ma non riuscivo a capire da dove venisse. Aprii gli occhi e mi cominciai a guardare intorno in qualche modo attratto da quel suono.
Capii presto che era il canto di qualcuno che si rivolgeva alla Luna, alla notte, al mare e in qualche modo a me che ero solo in mezzo a tutto ciò.

Scesi dalla barca e cominciai a seguirla, e mi resi conto che proveniva da un terrazzo al primo piano di un vecchio palazzo che affacciava esattamente sul golfo, e da lì si vedeva perfettamente la barca del buon vecchio Don Antonio. Una voce maschile, seppure con qualche tono che somigliava talvolta alla delicatezza di una donna, acuta e rilassante, ma non vedevo nessuno.

Pian piano la voce si fece sempre più intensa, come se il mare volesse chiamarla e racchiuderla nelle sue onde, tenendola per sè. Era una semplice melodia che poi si trasformò in un vero e proprio canto, con le strofe in dialetto.
Avevo studiato l'italiano dopo essermene appassionato a seguito di un viaggio a Venezia con mio padre, quando avevo 10 anni, ed ero piuttosto bravo. Il dialetto napoletano mi aveva sempre appassionato per il suo dolce e soave suono, ma non sempre riuscivo a capirlo.
Quello però lo avevo capito, era un'invocazione all'amore, enunciava i sentimenti solidi e profondi per qualcuno che si erano addentrati fin infondo al suo cuore e al suo sangue.

Poi vidi qualcuno. A quella terrazza si affacciò un uomo, o forse un ragazzo, a prima vista un po' più grande di me, ma dagli occhi azzurro cielo vivaci come quelli di un bambino. Aveva i capelli lisci che gli ricadevano sulla fronte, di color castano chiaro rischiarati dalla luce della luna.
Era lui che stava cantando, e sembrava un angelo a tutti gli effetti.

Ammaliato dalla sua voce rimasi lì ad ascoltarlo per un tempo che non saprei definire, forse minuti, o forse ore. Lui non abbassò lo sguardo neanche una volta, non si accorse minimamente di me.

Con una lieve sfumatura smise di cantare, e solo in quel momento guardò in basso, puntando i suoi occhi lucidi esattamente sui miei. Verde nel blu e blu nel verde per la prima volta e potrei giurare di non essermi mai così a posto con me stesso come in quel momento.

«Stavi ascoltando?» parlò. Non sembrava contento di questo, aveva un'aria seria, ma a dirla tutta non mi sembrava neanche tanto infastidito.

«Uhm.. sì, ecco, io..» balbettai.

«Ti è piaciuto?» chiese d'un tratto.

A quel punto sorrisi. «Sì, molto, sei bravissimo».

Lui ricambiò il sorriso e tornò a puntare lo sguardo verso l'orizzonte.

«Non sei di qua, non è così?»

Rispetto a quando cantava la sua cadenza napoletana era molto più marcata nelle sue parole.

«No, vengo dall'America.» risposi onestamente.

«E come ti sei ritrovato qua a Sorrento?»

«Ero alla ricerca di qualcosa».

Dopo che ebbi pronunciato queste parole il suo sguardo di sposto su di me.

«Una donna?» chiese con un sorrisetto sghembo.

«Cosa? Oh, no! Non cercavo una donna».

A dir la verità non ci pensavo neppure ad impegnarmi con qualcuno. Non avevo ancora pienamente trovato me stesso, quindi come avrei potuto stare accanto a qualcun altro? Non sarei riuscito a dare tutto me stesso.

«Quindi cosa cercavi?» insistette.

Sospirai per un secondo. Non sapevo neanche io cosa fosse, sapevo solo che ero sul punto di trovarla e  farlo mi avrebbe fatto conoscere maggiormente me stesso. Forse era il senso che volevo dare alla mia vita, forse era qualcosa di più o forse qualcosa di meno.

«Un po' pace» mi limitai a dire.

«L'America non ti piace?» spostò il suo sguardo su di me.

Ridacchiai. «Non molto, a dirla tutta. Troppo chiassosa, c'è sempre un sacco di rumore e corrono tutti. Non so neanche dove vadano tutti così di corsa. Questo posto invece.. è incredibile!» e dicendo queste parole per la prima volta riuscii a distogliere lo sguardo da lui, per puntarlo verso il mare.

Mi sembrò di sentirlo ridacchiare. «Hai ragione, lo è».

«Cosa stavi cantando?» domandai.

«Non lo so, una vecchia canzone di un vecchio cantante, non me lo ricordo».

Annuii, ma non ero sicuro che mi avesse visto.

Rimanemmo a lungo in silenzio, lui a guardare il mare, io a guardare lui.

Sperai che ricominciasse a cantare, ma non lo fece.

Poi mi disse che sarebbe rientrato, e io senza rendermi conto che era quasi l'alba tornai al mio hotel.

La sua dolce melodia mi risuonava in testa, i suoi occhi erano fissi sulle mie palpebre chiuse quando inquieto non riuscivo a dormire, e un pensiero che non riuscivo ad ignorare: non sapevo neanche il suo nome.

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