7 - Predire
Layla
Da gitana a diva circense: questa è stata la scalata al successo di Namira Serrano Garcìa, la mia migliore amica.
Rimasta orfana da bambina, divenne figlia della sola Siviglia, città-simbolo per il sincretismo tra kalé e payos. Affidata alle cure di un cugino, apprese da lui i segreti del mimo, grazie ai quali riuscì, all'epoca, a guadagnare qualche peseta lungo la sempre affollata Avenida de la Constitución, contribuendo così alle spese della famiglia.
Col tempo imparò a coltivare e sfruttare al meglio l'immaginazione, a far parlare il corpo senza adoperare la voce e a trasmettere emozioni attraverso le mani, che non riuscivano mai a restare inoperose. Spesso, sui marciapiedi andalusi, le usava per accompagnare persino melodiosi flamenchi, suonando un tamburello.
Da ragazzina dipendeva da quello strumento, dono d'amore che sua madre le aveva fatto durante la Feria de Abril, quando aveva appena sei anni. Ancora oggi per lei è una reliquia che custodisce dolci ricordi d'infanzia.
Comprese le innumerevoli capacità artistiche, irresistibile fu l'invito ad abbracciare il futuro che l'attendeva e che lei stessa aveva saputo predire. Patron Gérard Dubois la notò mentre si esibiva accanto a un cestino per le offerte e le propose di unirsi al circo. Con il consenso dei familiari, accettò di viaggiare di tanto in tanto per l'Europa, consapevole che sul carrozzone del Fleurs avrebbe costruito una carriera gloriosa.
Come tutte le donne della sua famiglia, anche Namira può vantare di essere portatrice di divinazione paranormale. Coglie destini spesso infausti, spesso felici e, per affinare al massimo questo dono, ha studiato da autodidatta psicologia analitica e le tecniche olistiche, senza trascurare il potere energetico delle pietre e la tanto misterica astrologia.
Con l'arrivo al circo, le sue premonizioni sono diventate celebri: frequenti e spesso attendibili, si realizzano in tempi brevi. Per molti sono solo coincidenze, per altri autentiche profezie. Io ci credo. Non può essere altrimenti, dopo quanto è accaduto nella mia vita.
Qui a Lione, però, con l'unione delle due attività, non ha ancora avuto occasione di mostrare agli inglesi le sue straordinarie doti. Purtroppo, ha perso quel carisma che una volta la contraddistingueva e forse ormai è troppo tardi per recuperarlo.
Dio, piango solo al pensiero.
Sono nel suo camper e la guardo riposare, distesa sul letto, coperta da un lenzuolo di flanella che nasconde le sue infermità. Trovarla in questo stato mi sfiletta il cuore: ha la fronte imperlata di sudore, gli occhi serrati.
A mio parere, non desidera altro che morire, se non altro per porre fine alla sua sofferenza.
Si lamenta.
Il dolore dev'essere come spilli acuminati che le perforano la pelle, ormai secca e aderente a ossa tanto sporgenti da sembrare sul punto di fuoriuscire dalla carne.
In questo campo minato di organi e nervi, la vincitrice è una crudele forma di leucemia promielocitica.
Ha scoperto di essere malata solo pochi mesi fa, in seguito a un banale mal di schiena, e da quel momento la situazione è precipitata in maniera irreversibile.
In questo istante un urlo selvaggio di Ollie mi ricorda che stavamo litigando, per fortuna.
«Con te non si può più parlare! Sei diventata dolce come il wasabi, fragolina mia. Ho reso chiaro il concetto?» Siede su una pila instabile di scatole di scarpe, accostato al letto di Namira. In netto contrasto al tono sgradevole, le schiocca un bacio delicato sulle nocche di una mano, nella speranza che il suo affetto possa donarle un po' di salute.
«E tu? Sai cosa saresti potuto essere?» mi sovrappongo con un aspro tono di voce. «Un maestro di karate, un costruttore di incredibili castelli di sabbia, o magari un gelataio!» Cerco di distrarmi dalla triste visione di Namira e inizio a camminare nervosamente nella piccola area abitativa. Litigare con Oliver è preferibile. D'altronde, dopo il terzo grado di Melinda Powell, ho un conto in sospeso con lui. «Il gelato, sì. A te piace il gelato: burro d'arachidi e caramello salato. Gelati di ogni tipo da preparare nella tua costosissima gelatiera da diecimila euro. E invece no, Ollie. Dovevi firmare quel dannato contratto con l'Intelligence, diventare una spia e raccontare a Melinda che bevo come una spugna!»
«Splendida Mira» la interpella, dopo aver emesso un sospiro di esasperazione, tenendo sulla bocca il pollice rammollito della nostra amica. «Tu, che sei immacolata come la Vergine Maria, compi il tuo primo miracolo in vita: dona a Layla un becco da papera. Fallo subito, riderei fino alla morte.»
«Era inevitabile che tu fossi una spia, dovevo prefigurarlo: non ti è mai piaciuto davvero fare il clown» continuo a blaterare.
«Ti ricordo che ho studiato danza classica e recitazione per anni» ribatte, sciorinando il suo curriculum, da borioso qual è. «Potrei spaccarmi di piroette al centro di questa stanza anche adesso, ma non lo faccio perché sono buono come un Twinkies e preferisco non farti sfigurare.»
«Ma che c'entra! E poi, scusami tanto ma...» Freno il passo, gettandogli addosso un'occhiata assassina. «Sentivi davvero forte la necessità di confabulare con la nostra nuova direttrice?»
«Ma chi ti dice che sia stato io?»
«Chi lo dice? Lo dico io e lo dicono tutti. Hai una stella sulla Walk Of Fame a causa della tua bocca larga!»
«Okay, e va bene: sono stato io» ammette, finalmente. «E l'ho fatto perché sono stanco.» Posa il palmo di Namira sul materasso e si alza in piedi per raggiungermi fin sotto il mento. Sul suo volto si legge una dura aria di sfida.
Scoppio in un breve e sbeffeggiante ghigno. «Ora sei tu quello stanco?»
«Stanco di assistere alla tua decomposizione, sì.» Si pettina alcuni ciuffi platino con le dita e li porta dietro la testa. «Da quando Andri...»
«No!» lo ammonisco, premendogli l'indice sulle labbra con fare minaccioso. «Lui non devi nominarlo! Non devi nominarlo mai!» strillo, ai limiti di una crisi isterica.
Iracondi, si scrutiamo a pochi centimetri di distanza, ma le iridi cervine di Ollie si lucidano quasi subito. So cosa lo ammazza. Cosa lo fa piangere. È la sofferenza senza soluzioni che unge ogni mio antro interiore e che, inevitabilmente, percepisce su di sé, sebbene a un'intensità diversa.
Fluttuo in un luttuoso tunnel da cui non voglio uscire. Ancora non l'hai capito, Ollie?
Non preoccuparti per me.
Stanne fuori.
Hai una vita davanti.
Vivi, allora, perché te lo devi.
E perché me lo devi.
Prenditi la felicità. Anche la mia.
«Se non posso farlo io, sarà la signora Powell a impedirti di bere.»
«Perché mi fai questo?» gli domando.
«Perché l'alcol ti porterà in una tomba, e io non voglio, okay? Non voglio vederti lì dentro.»
La voce gli muore in gola. Mi leviga il volto, delineando con i polpastrelli le rughe che, per la magrezza, ormai mi invecchiavano prima del tempo. È spento. Poroso. Neppure me lo idrato con creme e cremine. Chiunque penserebbe che sia una viltà, a fronte dei miei fiorenti venticinque anni tutti da vivere.
Ollie... non stare più male per me.
Sono io che ho scelto il mio destino.
Lasciami invecchiare, sfiorire. Appassire.
Non merito il tuo dolore. Non ti merito neanche come amico.
«Io-io...» mugolo, distogliendo lo sguardo, colpita profondamente dal suo dolore. Non ho il coraggio di replicare con sincerità, di dirgli che non voglio combattere contro gli scheletri del mio passato. Sono una loro simile, non un'avversaria. Da quando il mio bambino ha raggiunto gli angioletti, sono solo il frammento di una pietra preziosa. Non potrò mai più tornare a incastonarmi in un gioiello.
«Ascolta, volevo nasconderti tutto, ma oltre al buchetto del mio culettonsis, come hai detto tu, ho anche la boccuccia dilatata» riprende a parlare, con gli occhi vuoti e il viso abbattuto. «Non so mantenere i segreti né fare sorprese, quindi ti dico che troverai un pacco fuori dal tuo camper. È un regalo per te, su cui ho lavorato per mesi.»
«Per me?» chiedo, allargando le palpebre.
«Per farti ridere. Nel mio piccolo.»
Legame riportato sui binari della pace, litigio cancellato: avvolgo Ollie tra le braccia, pentendomi di aver alzato la voce. Lui è così paziente, così coraggioso a volermi bene nonostante i miei difetti e la mia incapacità di qualificarmi come persona.
«Perdonami, Ollie.»
Mi bacia uno zigomo, accarezzandomi il girovita. «Basta, Fragolina, è finita. E la fine, per te, significa inizio. Devi azzerarti, hai capito? Azzerati.»
«Vola.» Namira si accavalla, aprendo gli occhi il più possibile.
Oliver ed io esprimiamo esclamazioni di sorpresa mentre il nostro più grande punto di riferimento ci presta attenzione, in una pausa dai consueti torpori del cancro.
Ci allontaniamo dal contatto che ci ha riconciliati e ci fiondiamo ai lati del suo letto, sistemandoci ai rispettivi fianchi.
In fretta, apriamo le braccia per stringerla con fervore. Durante queste settimane di degenerazione totale, avrà probabilmente ascoltato i nostri litigi dal letto. Spero che li abbia percepiti come una scherzosa sinfonia, o una piccola distrazione.
Tenta di metterci meglio a fuoco.
«Lo avverto» ci sussurra e poi espira a fondo. «Perirà e tu dovrai prendertene cura.»
Signore. Cos'è?
Un'altra delle sue premonizioni?
Smorzo la mia risata, sbarro gli occhi e li direziono verso quelli di Ollie. Le sue tempie si contraggono. Anche lui è attraversato dal triste lampo di una nera maledizione.
«Chi, amica mia, chi?» la interrogo, sfiorandole la fronte umida. «Chi perirà?»
«Parli di me? O di lei?» si aggiunge Ollie, ripetendosi più volte con una certa velocità senza neppure deglutire.
«Il tamburello, Layla. Suonalo per me. Ora» ma farfuglia lei, ricacciando ansiti brevi.
Annuisco a fatica. Ho il sentore che da oggi dovrò custodire un abbozzo oracolare che non comprenderò facilmente.
Mi fermo nei pressi di una ruota del mio camper. È qui che trovo il regalo impacchettato da Ollie.
Lo raccolgo e subito entro in casa.
Voglio capire di cosa si tratta. Al tatto è morbido, e ci metto poco a intuire che si tratti di un capo d'abbigliamento.
Lo scarto in un attimo.
Di lana, a trama larga, il maglione non è visivamente perfetto, ma l'affetto con cui è stato confezionato basta a renderlo speciale.
È un po' rosso, un po' giallo, persino verde foresta, un'accozzaglia coloristica che ricorda i suoi scherzosi tutoni da Sbrodolo.
Di fronte a un lungo specchio da parete, mi privo della maglietta in viscosa e rimango per alcuni attimi a smarrirmi nella mia proiezione.
Mi focalizzo sul ventre ora troppo piatto, ma che in passato, Dio, ha raccontato milioni di storie diverse. Emozionanti. Pigmentate di vivaci sfumature.
Mi guardo anche i seni invisibili, non più prosperosi e grondanti di latte come nel periodo più bello della mia vita. Sono irriconoscibile, ma è giusto così. Me lo merito.
Ricopro le spalle con questo tessuto talmente caldo che, in aggiunta al suo pizzicore, mi infuoca la cute. Tuttavia, la sensazione si mantiene per poco perché qualcosa mi porta a stranirmi. Alzo le braccia in apertura alare. Sì, è evidente. Il maglione, oltre a sembrarmi grande, presenta anche un altro grosso difetto: Ollie ha dimenticato di scucirlo all'altezza dei polsi e, pertanto, le mani risultano bloccate nelle maniche.
«Eh no» parlo a voce alta, osservando ancora la mia stessa proiezione riflessa. Agito le braccia, al pari di un farfalla di lana. «Così non posso volare.»
Sono incline a credere che Ollie l'abbia creata appositamente così. Poco fa, infatti, mi ha detto che mi avrebbe fatto ridere, anche se non riesco neppure a sorridere. Non è colpa della sua ironia, ma della mia costante incapacità di provare qualcosa che si avvicini alla spensieratezza, o alla semplice contentezza.
Apprezzo comunque il suo intento. Non lo indosserò, è ovvio. E non lo farò neanche scucire. Lo conserverò sull'unica mensola rimasta mezza vuota, tra i miei effetti personali. Fa parte di una specie di armadio in metallo zincato, ed è privo di ante. Mi ci avvicino. Nella parte inferiore giace qualcosa di preciso.
Santo cielo, quella maglietta.
La fisso, ipnotizzata, sentendo uno strappo all'altezza del cuore.
È così piccola...
Così celeste...
Ancora desidero che torni al mio bambino.
A interrompere i miei ricordi dolorosi è Ollie, che appare trafelato sulla soglia della porta che ho lasciato socchiusa. Mi raggiunge nella dinette con il labbro inferiore tremante, forse reduce da un pianto che lo ha spezzato.
«Che succede?» chiedo, con la voce che emerge come un debole rantolo.
Tentenna un po' prima di rispondere. «Ora anche lei è lì su, Layla. In cielo.»
Namira. No.
Anche lei mi ha lasciato per sempre?
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