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50 - Raccontare


Oliver

Mancano poche ore alla Vigilia di Natale e mi ritrovo disteso sul divano che domina il salotto dei Powell, con il vecchio computer di Coniglietto – che, prima o poi, dovrò uccidere – a riscaldarmi le gambe. Le dita scorrono rapide sulla tastiera, sopra il ronzio incessante della ventola che gira. Continuo a ridere e a brontolare, a brontolare e a ridere, troppe volte perché riesca a contarle.

Scarlett, dopo aver girato un video per TikTok che tenterà di far andare virale, ha finalmente deciso di sedersi attorno al tavolo per studiare. Ogni tanto solleva lo sguardo dai libri, attratta dal continuo alternarsi dei miei stati d'animo. Neppure Scorbuto, che si agita vivacemente nella sua ciotola da colazione, riesce a distoglierla da questa occupazione.

«Mi spaventi» esordisce dopo un mio ennesimo risolino sguaiato.

«Io? Por qué?»

«Perché la tua risata è degna di It» spiega, posando la matita al centro delle pagine. «E poi, scusami, ti avevo invitato affinché mi aiutassi a studiare il russo, e invece sei lì a poltrire e a parlarmi in spagnolo. Ti sembra normale?»

«Ma che vuoi che ne sappia, Melanzana! Le lingue slave non fanno per me. Quando entro in un negozio, mi faccio capire agitando il colbacco» mi difendo, tracciandomi sulla fronte la forma del sontuoso copricapo. «La verità è che sono qui solo perché mi piace farti compagnia, e perché posso usare questo coso di tuo fratello di nascosto.» Accarezzo il monitor del portatile come fosse un monile preziosissimerrimo. Giuro che un giorno investirò dei soldi per acquistare un computer tutto mio. Ma non è questo il giorno. «Non glielo dirai, vero?»

«A cosa ti serve?» La curiosità la spinge ad alzarsi per avvicinarsi a me. «Fai delle ricerche?»

«Chatto su un sito di incontri. Sto conoscendo un tizio che vive oltre il lungofiume della Moscova, a Tverskoe. Per fortuna sa l'inglese.»

«Oh, ma dai! Racconta!» Saltella fino alla sponda del divano e mi prega, ancor più euforica, di farle spazio. «Che tipo è? Ti piace?»

Metto in standby il computer, chiudo il monitor e lo poso sull'addome, schiacciandomi poi contro lo schienale. Scarlett si tuffa completamente, rimanendo come me supina. Insieme iniziamo a osservare il solaio, con le travi di legno che si incrociano e la polvere che danza nei raggi di luce grigia che trapelano dalle finestre.

«Sì, sembra a posto e ci vedremo presto. Spero non abbia il pisipisi piccolo come un fagiolino. Come ben sai, le piccolezze mi perseguitano.»

«Anch'io sono piccola, ma ti sono ugualmente simpatica» mi fa notare, mentre i boccoli dei suoi capelli mi finiscono in bocca. Mi esprimo in un verso di disgusto e li sposto subito.

Sollevo leggermente il collo per lanciarle un'occhiataccia. «Hai intenzione di perseguitarmi?»

Ride genuina. «Posso farlo?»

«No» replico. «Ritornando al discorso precedente, lui fa l'ascensorista, e questa particolarità mi intriga un sacco. Voglio dire, è uno che sa come far "alzare" i carichi.»

«E come si chiama?»

«AliosciaAX93.»

Sbatte le ciglia a più riprese, manifestando perplessità. «Questo è il suo nickname, va bene. Ma il vero nome? Qual è?»

«Alioscia.»

«Okay, divertente, davvero!» Ride ancora, emettendo un grugnito simile a quello di un porcellino. «Tira fuori il nome, dai.»

«Alioscia» insisto. «È un nome strano, ma comunissimo da queste parti.»

«Sembra la marca di un dado granulare. E ora, a pensarci, mi viene da vomitare.»

«Vomiti spesso. Non sarai mica incinta?» ipotizzo di getto.

La sua risata si attutisce e sgrana le palpebre. «Io? Ma c-che ti salta in mente? Quelle cose non le faccio. O almeno non ancora.»

Sì, sì. Come no.

«Fai bene a non sbottonarti con me, perché potrei andare in giro a spifferare i tuoi segreti a chiunque.»

Si chiude in una bolla di silenzio.

«E comunque, brodo o meno, se mio padre sapesse di questa conoscenza, morirebbe tre volte.» Segno il numero flettendo il pollice, l'indice e il medio, che vibrerò uno per volta mentre continuerò a parlare. «Uno: non approva le storie nate fuori dai banchi di una chiesa; due: non approva le storie nate fuori dai banchi di una chiesa, tra persone di paesi diversi; tre: non approva le storie nate fuori dai banchi di una chiesa, tra persone di paesi diversi e dello stesso sesso.»

«Da quanto tempo non lo vedi?»

«Dieci anni» rispondo frettolosamente. Poi mi gratto un sopracciglio, rendendomi conto che, in modo del tutto naturale, sto rivelando a Scarlett il peso di una battaglia personale.

Ora sono indeciso su cosa essere: Oliver o Sbrodolo? Arcibuffa. Ripudiare le vesti da pagliaccio per abbracciare il covo di livore che rappresento, forse, potrebbe annoiarla a morte. O spaventarla.

Che faccio?

«Non ti è più capitato di tornare in Wisconsin?»

«No.»

«Anch'io non vedo zia Clarice da tempo. È la sorella di mia madre, ma lei la odia.» Si lascia sfuggire un respiro affaticato. «È magico essere una circense, fintanto che ti limiti a cercare la magia sotto il tendone. Ma i piccoli bagliori di incanto si trovano anche al di fuori, e a volte questo mondo perde il suo fascino. Non lo sopporti.»

«Sono le croci e i dolori della vita errante» commento. «Ma non è stato il circo a separarmi da mio padre. Sono stato io a impormelo. Mi sarei macchiato di patricidio se fossi rimasto a Milwaukee, e volevo una vita da libero.»

«E dimmi, Oliver.» Ruota il viso verso di me, avvicinandosi forse anche troppo. Fa scivolare i suoi occhietti cerulei su ogni punto del mio volto, fino a fissarli nelle mie pupille. «È per lui che fatichi a ridere di gusto?»

«Hai notato che non rido spesso?»

«Lo dicevi a Layla, qualche giorno fa, dopo lo spettacolo.»

Ma... ha origliato quella conversazione?
Quella in cui Fragolina mi disse che doveva stare alla larga da Bass?

A quanto pare sì, e l'attenzione che ha mostrato nei confronti delle mie parole mi sconvolge, perché è raro che qualcuno dia peso a ciò che dico o a ciò che mi riguarda nell'intimo.

«Come hai fatto a diventare un clown?»

«Risponderti significherebbe guardare indietro. E io voglio dimenticare» mormoro.

«Non devi» ribatte e un nuovo sorriso inizia a sbocciare sulle sue labbra. «Il tuo passato impreziosisce il tuo presente. Devi essergli grato. Ti ha reso ciò che sei ora.»

Bimba della generazione Z, ma con l'attitudine di una mental coach navigata. Scarlett potrebbe sembrare più grande se non indossasse un chocker con gli orsacchiotti di plastica e un bracciale pieno di charm Disney dal tintinnio assordante.

Portando con me il computer, mi giro su un lato e appoggio la testa sopra un palmo. «Va bene, okay. Ti mostro la mia seconda faccia, ma limitati a starmi vicino, senza farmi domande. Se mi farai perdere il filo del discorso, rischierò di piangere e di annegarci, nelle lacrime.»

«Non farò altro che ascoltarti, Oliver. Puoi fidarti.»




Tra Milwaukee e Riccione
Dieci anni fa

In quel periodo, mentre Barack Obama ricopriva la carica di presidente degli Stati Uniti, il mio fascino giovanile era paragonabile a quello di un semidio – più interessato alle mazze dei giganti che ai pertugi delle amazzoni – , tanto che nutrivo l'intenzione di iscrivermi a un concorso di bellezza e diventare famoso.

Aspettavo solo l'occasione giusta, lavorando dieci ore al giorno in una tavola calda del centro. Milwaukee Plaza Diner: in quel posto brillavo di una luce speciale e tutti mi dicevano che avevo un talento particolare nel gestire il contatto con i clienti.

Posso dirlo?
Avevano ragione.

Tuttavia, servire caffè e farcire bagel all'infinito si rivelava più stancante di quanto si potesse immaginare, e la mia schiena, a fine turno, accusava dolori acuti.

Considerando che frequentavo sia il corso di teatro che la scuola di danza, e che nel weekend facevo anche lavori extra come baby sitter, be', non avevo un attimo di pace. Ma non potevo fare diversamente, visto che la mia vita aveva preso una piega un po' infelice.

Quando avevo solo tredici anni, papà scoprì che mi piacevano i maschi e mi trascinò dal parroco della città, chiedendogli di impartirmi un catechismo speciale. Padre Lewis acconsentì, così iniziai ad andare in canonica tre volte a settimana: il lunedì, il mercoledì e il venerdì, alle cinque del pomeriggio.

Cantavamo, pregavamo, leggevamo i testi di Agostino d'Ippona, Tommaso d'Aquino e, naturalmente, il classicone: la Bibbia.

Ancora oggi ricordo a memoria le parabole e i versetti corrispondenti. Pentateuco, parusia, Deuteronomio e Nabucodonosor erano le parole che odiavo di più, dopo sodomia.

Eppure, mi reputavo un osso davvero duro: più tentavano di cristianizzarmi e portarmi a essere eterosessuale, più volevo pomiciare con quattro ragazzi nello stesso istante.

Per tutta l'adolescenza, non ho fatto altro che desiderare di crescere e di finire la scuola, per poi trovare un lavoro e avere un appartamento in città. Credevo che, facendo ciò, le cose sarebbero migliorate, ma non è andata esattamente così.

Dopo aver abbandonato il tetto familiare, mio padre non si arrese a lasciarmi in pace. Quasi ogni giorno passava dal diner, ordinava un caffè e si sedeva a uno dei tavoli vicino al vetro. Non parlava. Non si avvicinava. Sorseggiava e mi puntava con lo sguardo mentre lavoravo, come a volermi controllare.

Un giorno crollai.

Implorai il mio titolare di cacciarlo per me, ma lui si rifiutò, così mi tolsi il grembiule e me ne andai a metà turno, furioso.

Sì, mi licenziai, succhiandomi da solo il veleno che quella biscia continuava a iniettarmi nelle vene, sperando di non incrociare mai più i suoi occhi.

Non volevo più averlo intorno a me né ricordare il passato e ogni frase che lo riguardava, come quando mi diceva che, essendo omosessuale, potevo essere reputato come uno dei migliori figli di Satana.

A volte, in salotto, erano volati persino ceffoni durante i suoi scatti d'ira, e mai trovai conforto in mia madre, una donna troppo debole per affrontare il sozzume che lo abitava e che mi addolorava.

Ma la soluzione non era stata neanche quella di licenziami. Eh, no.

Una sera portai il mio ragazzo del tempo, Brian, a mangiare una pizza al taglio in un locale spartano, l'unico che potevo permettermi per via del mio stato di disoccupazione, la scuola di danza, il corso di recitazione e l'affitto da pagare.

L'appuntamento stava procedendo per il meglio: ci scambiavamo sorrisi e battute, godendoci quel momento romantico e semplice insieme. Ma all'improvviso notai Jonathan al tavolino accanto, che mi osservava con uno sguardo di condanna.

Non ci vidi più.
Decisi di affrontarlo, intimandolo a uscire dal locale al mio fianco, e... fu storia.

Gli chiesi perché mi ossessionasse, e lui, invece di giustificarsi parlando, che so, della mancanza che sentiva di me, rispose che stava solo cercando di accertarsi che non stessi facendo guai in grado di far sparlare il quartiere.

Dietro le sue azioni c'erano sempre il bigottismo, l'ostinata convinzione che fossi avvolto dal peccato e la paura che avessi contratto l'HIV. Con quale coraggio avrebbe varcato le porte della parrocchia, poi?

A quel punto, scoppiai come una bomba a orologeria, rinnegando fede e divinità. Imprecai tra le lacrime, offendendolo e offendendoLo con le peggiori blasfemie.

Papà confermò quanto si vergognasse di me, tirandomi in faccia l'ennesimo pugno carico di disprezzo. Per la prima volta ricambiai, slogandogli forse la mandibola.

«Basta!» urlai, come un forsennato.

Ci fissammo per brevi attimi, annientati dalla violenza ricevuta e inflitta. Mai dimenticherò la sentenza che mi lanciò prima di darsela a gambe: «Un giorno capirai i tuoi errori».

Passai il giorno successivo a convincermi che avrei dovuto trasferirmi in un altro stato, magari in Illinois.

Il secondo giorno a considerare l'idea che persino vivere in Canada non sarebbe stato male.

Il terzo giorno a rilevare la mia salvezza da un annuncio che trovai per caso: l'ambitissimo Cirque des Fleurs cercava nuovi artisti in tutto il mondo da implementare nei loro spettacoli.

Incosciente, recuperai qualsiasi documento e mi catapultai in Europa. Sperai di sentirmi accettato, accolto, in un ambiente dove, perché no, potessi spiccare. In fondo, ero un ballerino e un attore. Quanto tempo ci avrei messo a prendere dimestichezza con le arti circensi?

«Dunque, Oliver Davis, per quale ruolo ti presenti?» mi chiese quell'uomo a forma di palla che era il buon Gérard Dubois. Eravamo nella sua roulotte in Romagna, seduti attorno a un tavolo ricoperto di volantini del Conad, alcuni dei quali sfogliati dalle sue dita cicciotte. A quel tempo aveva più capelli, neri come quando fai la cacca dopo un'abbondante cena a base di carne di maiale.

«Non so, in quale ambito circense vi sentite delle schiappe?» risposi, con la schiettezza tipica dei miei anni imberbi, sperando di non averlo offeso. Macché. Quello sorrise sotto i baffi e la risata che ne seguì scatenò una violenta tosse secca tipica di chi fuma, proprio come la mia.

«Sai stare sul trapezio? Alcuni dei nostri hanno lasciato il gruppo. L'età, purtroppo, non risparmia nessuno» riprese, respirando a fatica nel suo panciotto abbottonato sull'addome, che sembrava fungere da laccio emostatico per il grasso sottocutaneo.

«Mmh...» Ci pensai, mentre i miei occhi fecero da spola, prima a destra e poi a sinistra. «A nove anni scendevo dagli scivoli con la lingua sulla rampa. Fa curriculum?»

Ridacchiò ancora, quel birbantone, dandomi una piacevole consapevolezza: ero realmente simpatico. «E cos'altro hai fatto nella tua vita, oltre a frequentare il parco giochi?»

«Spesso ho scambiato Katrina per Rubyna e Rubyna per Paulina. Sa', ho ben otto sorelle, tutte più grandi, tutte con il seno abbondante, e una madre appassionata di nomi che potessero rimpicciolirle un po'. C'è anche Roxellina, quella che non si sposerà mai, poi Vanillyna, e persino l'antipatica con l'ossessione per i go-kart: Carmelyna.»

«Sarei curioso di sapere i nomi delle altre due.»

«Evelina e Gwendalina. Gwen è quella dissoluta che si spoglia ai concerti. Quando litighiamo, mi minaccia dicendomi che mi toglierà il muco nasale con i tizzoni del camino.» Increspai la faccia in una smorfia di dolore. «Brutalissima.»


«La sai una cosa, Davis?» sputacchiò applaudendo, ammazzato dal divertimento. «Sai far ridere la gente!»

Mi chiese se sapessi recitare e cantare, e quella domanda mi fece infiammare.

Mimai un microfono chiudendo le mani in pugni stretti e, con un po' di gioia e fantasia – e forse anche un po' di cortisolo in circolo che appesantiva i miei surreni – gli feci credere di essere una popstar. Intonai il motivo principale del musical a cui avevo partecipato anni prima come Giuda Iscariota, eseguendo un mash-up con "Jesus Christ, you are my life" del Giubileo del 2000 con Papa Wojtyła. Il risultato fu sorprendente e Dubois mi consegnò i vivaci abiti di Sbrodolo.

Evito spesso di guardarmi indietro, perché ricordare il melmoso disprezzo di chi ha anteposto Dio al mio io mi distrugge.

Preferisco guardare avanti, perché è consolante pensare che, attraverso le mie esibizioni irriverenti, riesca a donare ai bambini una breve parentesi di allegra magia. Quanta silenziosa felicità leggo negli occhi dei grandi che osservano i loro piccoli sganasciarsi sulle gradinate.

Anche papà mi portava al circo.
Anch'io ridevo a crepapelle.
Anche lui era felice.
Ma era una vita fa.

Ogni sera spero che, in futuro, quei bambini non debbano mai soffrire come ho sofferto io.

Desidero che siano compresi, accettati, sempre liberi di esprimersi come meglio credono. Perché gli oltraggi di un padre e di una madre sono come virgole d'inchiostro indelebile sul foglio della crescita di un figlio. Le candeline che spegniamo ogni anno non cancellano i danni causati dai continui paragoni con "il figlio di", dall'invalidamento delle emozioni, dalla mancanza d'affetto, dalla manipolazione e dagli abusi di ogni tipo inflitti da una famiglia disfunzionale.

L'infanzia è una fase delicata, bisogna averne cura. Se tutti lo comprendessero, avremmo adulti più sereni.

Agli altri appaio come un comico sempre sul pezzo, impeccabile. Sembra che tutto, al di là della mia caricatura, proceda per il verso giusto. Difficile distinguere i mostri che mi divorano. Con loro combatto di notte, quando la pelle odora di struccante Garnier. Negli incubi, mi lascio stritolare dai miei incidenti di percorso. E da altre cose.

Non so se ci sarà mai una soluzione per me. Ma so qual è la realtà, Scarlett: so far ridere la gente, ma quella stessa gente spesso fa piangere.

E il mondo, sai cos'è?
Solo mondo.

Cambiarlo in maniera definitiva mi sembra una delle più grandi utopie esistenti.

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