5 - Bere
Ciao amorine! Vi ricordo che prima di questo capitolo ho aggiornato anche il capitolo 4, sempre oggi, nel caso in cui Wattpad abbia avuto problemi con le notifiche degli aggiornamenti.
Recuperatelo prima di leggere questo.
Vi amo! 🖤❤️
Layla
L'accampamento circense non è mai stato così caotico come stamattina. Non si tratta solo di una mia impressione, ma di un dato di fatto: con la fusione delle compagnie, siamo passati da diciannove artisti a trentuno. E questo senza contare chi viene occasionalmente a darci una mano.
Oggi, infatti, gli addetti ai lavori si muovono intorno a noi, preparando l'attrezzatura per gli spettacoli che inizieranno a breve. Il nuovo tendone non è ancora stato montato, ma, a giudicare dai teli arrotolati che giacciono sul terreno polveroso, sarà a strisce rosse e bianche, con qualche ghirigoro nero e dorato. Appartiene al Powell Circus. Niente male, tutto sommato. Certo, un po' pacchiano, ma pazienza. Io so adattarmi anche alle brutture.
I camper, disposti in cerchio, hanno le porte spalancate. Alcuni fanno colazione direttamente sull'erba, altri sulle sedie pieghevoli. Sottili fili di fumo si alzano dai fornelli all'aperto. Nelle atmosfere riecheggia il suono romantico e malinconico di una chitarra, suonata dal nostro trapezista Ernest, che accompagna il risveglio.
«Se di pulizia vogliamo parlare, quelli del Powell Circus hanno vissuto con il puzzo di piscio di tigre fino all'altro giorno» sbraita Ollie come un fiume in piena, camminando con aria guardinga al mio fianco e a quello di – breve distacco pubblicitario per rigurgitare – Lorenzo. «Tenevano quelle povere bestie nelle gabbie e, con ogni probabilità, in precarie condizioni di salute. Roba da protesta da parte degli animalisti. Ma loro sono gli inglesini gni-gni gne-gne, i coronati, gli intoccabili di questo gran pisipisi!»
«Oliver» lo richiama il mio ex dopo uno sbuffo estenuato, inchiodando i piedi al terreno colmo di erbacce, mentre un rivolo di sole gli illumina il viso tempestato da una miriade di nei. Il suo arresto repentino smorza anche il mio passo e quello del mio migliore amico. «Hai del cerone.»
«Dove? Io? Dove?» Ollie sobbalza e inizia a punzecchiarsi le guance con le dita.
«Considerando che il nostro ultimo spettacolo è avvenuto quattro giorni fa...» congettura il demonio, allargando le narici. «Sócc'mel*, non ti lavi da giorni!»
Ollie riesce, a tentoni, a individuare il punto che inorridisce Lorenzo. È proprio lì, ben annidato sull'arco di cupido, tra la barbetta tinta di platino come i capelli e le cicatrici acneiche che negli anni non sono mai sparite.
«E va bene, ve lo dico: dal mio lavandino esce merda» ci confessa con un tono più basso. «Mosche, lombrichi e chiazzettine bianche simili al liquido seminale. Se devo entrarci in contatto e ritornare nello scroto di papà, be', allora preferisco prendermi la dermatite neglecta da scarsa igiene personale.»
«Sì, è coerente.» Lorenzo annuisce. «È per questo che sei scappato dal Wisconsin. Tuo padre ti voleva prete, giusto?»
No. Non posso credere che abbia rivangato questa storia.
«La tua delicatezza è sempre su livelli egregiamente esponenziali, complimenti» intervengo, dando in pasto al vento la mia intonazione stizzita.
«E tutto per quel bacio dato al ragazzetto con il tutù. Bastava dire a tuo padre che eri una delicata fanciulla sin dall'inizio, no?» ma spara ancora a zero sul mio migliore amico, riprendendo il cammino verso il suo camper con un sogghigno sarcastico.
Ollie si acciglia seguendolo, così come faccio io. «Ma la tua cos'è, Belzebù? Una derisione bella e buona?»
«Dipende: sei ancora sensibile e violento come lo eri a Düsseldorf?» gli chiede. Il semplice ricordo di quel giorno in Germania scatena un brivido lungo la mia schiena. Le mie viscere sembrano attorcigliarsi.
«Certo che sì! Ringrazia che non abbia un'ascia in mano» risponde, allargando le braccia come sopraffatto. «E ora, per antipatia, mi ricordi mio padre. Grazie, Belzebù. Grazie mille.»
«A differenza tua, io non sono sensibile, e neppure mi offendo.»
Ollie tace, cercando di sorvolare sull'attacco gratuito. Fa bene. In fondo, non ha senso alimentare la discussione o sporcarsi le mani di sangue per lui. Lorenzo vale meno di un centesimo, e il suo sport preferito è proprio questo: torturare il prossimo in maniera molto subdola, fino a vederlo stramazzare al suolo.
Lo fa perché ne trae soddisfazione.
Ha tirato in ballo i traumi adolescenziali di Ollie soltanto per cominciare bene la sua giornata.
Povero amico mio.
Solo a ripensare alle sue disavventure negli Stati Uniti, sento espandersi dentro di me un lago di desolazione.
Per lui casa sono sempre state le cene natalizie a Milwaukee, consumate davanti a quantità esagerate di Egg Nog, in compagnia delle sue otto sorelle, di cui ogni tanto sente la mancanza, anche se non lo ammetterà mai. Ma partire con il circo, inseguendo nuove e rocambolesche opportunità, è stata la soluzione a un problema che porta il nome di Jonathan Davis.
Chi è?
Suo padre, per l'appunto, l'uomo che non ha mai saputo accettare il suo sacrilego orientamento sessuale.
Sacrilego, già.
Come può esserlo qualsiasi cosa che fa storcere il naso ai bigotti.
Scatenare allegria per mezzo di numeri goffi, fasciato in un costume multicolore, funge da ossimoro al suo animo, spesso intriso di rancore e percorso da un'ostinata insoddisfazione.
Ecco cos'è per lui un numero circense: un accenno di illusoria speranza. Gli fa credere che la vita non sia bastarda del tutto, e che può essere presa in giro con qualche giochetto puerile, anche solo per brevi istanti.
Torna a crogiolarsi nel suo dolore quando, spenti i fari che illuminano la pista, si pone sempre lo stesso quesito: il pubblico ride grazie al pagliaccio, ma a chi importa se durante il giorno quello stesso pagliaccio abbia riso?
La verità è che Ollie riceve meno considerazione rispetto a Sbrodolo, l'animale da palcoscenico con il naso rosso. Durante quest'anno, poi, ancora meno del meno. Qualcosa di orrendo e nefasto, infatti, si sta abbattendo ancora sul Fleurs. Il nostro è un circo maledetto.
«Ho raccolto delle margherite per Namira. Tra poco vado a trovarla» ci fa sapere Ollie. «Volete venire?»
«No. Preferisco guardare lui.» Lorenzo segna con il mento qualcuno che staziona davanti a uno dei van più lussuosi. «Lo vedi quello lì, Oliver?»
«Chi?» Infittisce la vista. In seguito, si rivitalizza. «Oh! Quella fattispecie di Apollo Sauroctono con qualche annetto in più? Arcibuffa, eccome! Un armadio a cinque ante al posto del torace, mascella dura che se ci poggi una mano ti trasformi anche tu in un pezzo di marmo. Chi non lo vedrebbe? Solo un cieco.»
«Un cieco?» ripete Lorenzo, forse sentendosi colpito nella coscienza. Batte le ciglia scure e poi torna al discorso precedente. «In futuro, quella fattispecie di Apollo Sauroctono abbandonerà le piste e i materassi, indosserà farfallino e bretelle, e ci osserverà esibirci da decrepiti, con ancora le clave tra le dita rugose e le biciclette dalle ruote sproporzionate sotto le natiche secche.»
«Oooh-oh!» fischietta Ollie, languido, come se volesse fare il filo a qualcuno. «Quindi quell'uomo è il nostro uomo?»
«È lui, sì.»
Lui?
Lui, chi?
Lo scruto anch'io, ma proprio in questo esatto momento il tipo si gira di spalle. Ha una scimmietta ancorata alla caviglia e sta conversando con una donna dalla pelle ambrata e dai capelli ricci e scuri.
La mia attenzione si sposta ora su un punto più lontano: un'altra donna in completo gessato mi fa segno di avvicinarmi a lei. Mi mordicchio una pellicina del labbro, chiedendomi cosa voglia.
Ollie, intanto, alza un dito. «Ho una domanda.»
«Sarebbe altruista da parte tua non scaricarmi addosso i tuoi grattacapi» risponde Lorenzo.
Ma lui ignora la richiesta e prosegue. «Se noi abbiamo tolto gli animali agli inglesi, loro ci toglieranno il fuoco?»
Il mio ex riflette un momento prima di dare il suo responso. «Suppongo di sì, a meno che Melinda Powell non abbia fatto pace con il passato e sia diventata un'amica delle fiamme.»
«Ci toglieranno Layla, allora» deduce Oliver, con un velo di rammarico nella voce.
Quella donna, intanto, gesticola con sempre più concitazione. Forse è il caso di raggiungerla per capire come posso aiutarla. Che sia lei Melinda?
Sì, era lei, maledizione.
E sta per farmi a fettine tra le scocche di una roulotte.
Una birra Desperados. Due. Tre. Sei.
Il tavolino, usato come scrivania, accoglie i tonfi acuti di ogni vetro. La mia nuova direttrice posa anche l'ultima bottiglia accanto alle altre, creando una lunga muraglia.
Mi guardo intorno con circospezione, in bocca non ho più saliva. Non so, questo posto dai mobili corrosi che loro chiamano "ufficio" mi incute timore. Sembra la stanza delle torture.
Melinda incrocia le braccia sotto il seno florido e, a giudicare dall'espressione a cavallo tra disgusto e preoccupazione, di sicuro sta rimpiangendo i suoi migliori giorni al Powell Circus.
«Puoi dirmelo, non farti problemi. Se ti pagano per sponsorizzare la Brasserie Fischer avresti tutto il mio appoggio» esordisce in tono educato, reprimendo l'impulso di strigliarmi visto che non ci conosciamo.
«Non sono una promoter, signora» rispondo a filo di voce, standomene impalata come un soldatino oltre la scrivania.
«Okay» sfiata, portando parte di un ciuffo mogano dietro l'incavo dell'orecchio dal cui lobo pende una perla. Inizia a camminare e aggira il tavolo, accorciando così le distanze tra di noi. Aiuto, ora mi ammazza. «Ieri sera, questo intruglio di malto e tequila è stato trovato fuori dal tuo camper. Non ti dico chi ha fatto la spia, voglio evitare becere combutte, però te lo chiedo: che ci facevano queste bottiglie lì?»
«Le ho bevute, signora» affermo senza mezzi termini, e il gelo pare cristallizzare il suo sguardo, oltre che ogni angolo della vettura. Ci fissiamo negli occhi a lungo, accompagnate dai ticchettii delle lancette del suo costoso Cartier.
«E-e quindi... le hai bevute» balbetta, interdetta. «Tutte?»
«Tutte quante, sì.» Annuisco. «Io, da sola.»
Ormai non posso far altro che confessare la verità anziché aggirarla e sprecare le mie energie vivendo di effimeri alibi.
Sì, bevo alcol.
Ne bevo molto.
Perché sono crollata due anni fa, divenendo una cazzo di nullità a cui non si può porre rimedio. Non sarò più la migliore versione di me.
Lasciatemi in pace, okay?
Melinda respira a fondo e inizia a osservare il panorama mattutino che le viene proposto fuori dal finestrino. Cerca forse di comprendere cosa far prevalere e, quindi, come agire di conseguenza.
In effetti, se mi metto nei suoi panni, mi rendo conto che la situazione non è facile: sono stata un'artista di un circo dapprima competitore, ora un'impiegata che lavora sotto il suo nome.
Le ho appena detto di essere un'ubriacona, quindi una rogna assoluta per lei. Cacciarmi sarebbe la soluzione più opportuna, ma non credo lo farà. Lo evinco da come mi guarda adesso. Si agita un barlume di pena nei suoi occhi cerulei. Nulla di nuovo, per me, che sono abituata alla compassione del prossimo.
Spesso, colleghi e amici mi dicono che per la mia altezza dovrei mangiare di più. Anche mamma me lo dice durante le nostre videochiamate.
Per loro sono troppo magra.
Troppo pallida.
Troppo malata.
Credono che sverrò da un momento all'altro.
Una solfa inutile e odiosa che tento di farmi scivolare addosso. Lo so, i giudizi sono espressi a fin di bene. Ma a che serve quel bene se non ne provo neppure un briciolo per me stessa?
«Come ti chiami?» mi chiede, destandomi dal torpore dei pensieri.
«Layla.» Chino il viso e mi guardo le punte delle Converse sporche di terriccio. «Layla Urbonaitė.»
«E sei russa, Layla?»
«Vilnius, signora» la correggo.
«Ti capita spesso di ricorrere all'alcol?»
«Qualche volta.»
«Il tuo capo? Patron Dubois? Lo sa?»
Abbozzo una negazione, scuotendo le tempie da una parte all'altra assieme alla mia crocchia sfatta.
«Non sei più all'interno della tua compagnia» mi dice. «Ora fai parte di un gruppo ben più grande e ne devi tener conto. Le regole le dettiamo anche noi e tu dovrai attenerti. Non ammetto sbronze qui dentro. Voi siete già folli da manicomio, ci manca solo l'ebrezza.»
«Comprendo il discorso. Non berrò più, se è questo che vuole.» Bugia. Una bugia che costruisco perché mi sono rotta le palle di stare qui.
Sospira, portando le braccia in una posizione più sciolta, lungo il busto. «D'accordo, va bene.»
«Posso solo sapere chi è venuto da lei a spifferarle il mio errore?»
Increspa la bocca carnosa. «Hai molti amici tra i tuoi colleghi?»
«Qualcuno.»
«Quindi non sarai felice di sapere che è stato quel qualcuno.»
Oddio.
No... Lui?
Per forza!
Un fremito di collera scuote i miei nervi. Posso calmarmi solo andando a cantargliene quattro. Spia del cazzo!
Melinda mi indica la porta. «E ora vai e cerca di sorridere un po' di più. Noi circensi sorridiamo sempre, anche con il niente.»
Non è vero. È una massima altamente riduttiva. Il vuoto e il dolore sono concessi anche a chi, per contratto, non deve mostrarsi triste. Il lavoro è lavoro. La vita è la vita.
Mi dirigo verso la porta, ma, prima di aprirla e oltrepassarla, mi rendo conto che non posso frenare il flusso delle mie parole. Ho bisogno di aprire bocca, di rispondere come sono solita fare. Perché se qualcosa non mi va a genio, avverto sempre l'impulso irrefrenabile di dire la mia.
Recupero il contatto con le sue pupille. Lei, sentendosi osservata, passa da una postura rilassata a una più attenta.
«Signora Powell, ha mai visto un grande rogo spegnersi d'improvviso?»
«Fuoco? Be'...»
«Quel rogo in me si è spento, è tutto buio ed è difficile gioire, anche se sono una circense. Non mi chieda di sorridere al di fuori dello show, perché non lo so fare più.» Piego la testa su un lato. «La ringrazio. Buona giornata.»
Vado via, scendendo il gradino e facendo traballare l'intera roulotte. Alzo la testa e osservo il cielo terso, aggrappandomi a ciò che interpreto come casa. Sì. La volta celeste è il mio unico nido caloroso, così come quegli occhietti di bambino lì radicati e di cui ho una disperata nostalgia. Annaspo in tutti i miei giorni, agisco e penso in una condizione di precaria sussistenza.
Dio, mi senti?
Non mi importa di vivere.
Io voglio solo morire.
———
Spazio autrice
Sócc'mel*: accidenti in bolognese
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