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47 - Allontanare


Layla

Non avrei mai pensato che poche parole potessero distruggere completamente l'immagine che avevo di una persona. È stato come rendermi conto che tutto ciò che credevo solido e reale non fosse altro che un miraggio evanescente, forse una creazione della mia mente disperata, troppo affamata di sogni per cogliere la più cruda delle verità.

Ho adorato un'idea, non un uomo.

E il dolore non sta solo in questo, ma in ciò che mi viene ora sottratto con la forza: la capacità di confidare ancora nell'autenticità del prossimo.

San Basilio diventa l'unica nota viva in un paesaggio di considerazioni oscure: Bass ama un'altra e io, sciocca, mi sono permessa di infatuarmi di lui.

Infatuazione. Sì.
O forse qualcosa di più.

Lo evinco dal mio petto che si ritrae, come se il cuore si fosse improvvisamente frantumato e non riempisse più il suo spazio. Mi sfioro il torace, le dita scorrono lungo la cerniera del parka e mi chiedo se riuscirò mai a ripararlo.

Bass, nel frattempo, non mi guarda più. Fissa il marciapiede con le mani infilate nelle tasche del giaccone, forse alla ricerca di un modo per alleviare la ferita che mi ha inflitto. Ma non lo troverà, può starne certo. Io, ora, ho solo bisogno di ulteriori conferme e qualche spiegazione.

«Quindi hai una... una compagna.» Anch'io mi blocco su un punto qualsiasi della città, pur di non guardarlo.

«Sì.»

«E lei è nel nostro circo o... ?»

«Q-questo non p-posso dirtelo, mi dispiace.»

Il labbro inferiore inizia a tremarmi, un preludio al pianto che sto cercando di trattenere. Se non me ne vado adesso, la mia vulnerabilità mi travolgerà. Dannazione.

Alzo lo sguardo verso il cielo di neve, cercando di mandare indietro le lacrime. «E su questo bacio, Bass? Cosa puoi dirmi? Solo un attimo fa, con le labbra, ci stavamo toccando l'anima.»

«Sì, è v-vero.»

La sua ammissione mi devasta ulteriormente. Ora non posso non dirottare i miei occhi su di lui. «Confermi, allora!»


«Sì che confermo» sbotta, con una sicurezza che quasi mi spaventa. Le sue pupille tornano a incendiare le mie, mentre compie qualche passo per avvicinarsi a me. Un brivido percorre la mia colonna vertebrale e la salivazione si azzera. «Ti ho sfiorato d-dentro, prima. L'ho fatto con la punta della lingua, e tu l'hai fatto con la tua. Un'unione rara. Come p-posso non confermare? Sarei un cazzo di i-ipocrita.»

Le sue sillabe veloci si abbattono sulle mie guance con la stessa ferocia di un uragano.

«E alla tua ragazza? Alla sua anima non ci pensi?» Mi copro la bocca, come se volessi fermare la rabbia che provo in questo istante. Ma fallisco, perché mi arrabbio comunque. «Dio! Ma che razza di persona sei?»

«Una della p-peggior specie, a quanto pare.» L'intonazione si rende incerta, mentre fa spallucce. «Uno che... che...» Si blocca, prende un respiro profondo. «Diamine, non riesco neanche a trovare le parole per o-o-offendermi. So solo una fottuta cosa, Layla, ascoltami.»

«Avanti, ti ascolto.»

La sua mandibola si affila nei pochi secondi che passiamo senza comunicare. «Anche se nella mia vita c'è un'altra, quando sono con t-te non vedo altro. C'è fumo o-ovunque, e tu, soltanto tu, che emergi luminosa. Sempre.»

È una confessione che mi sottrae l'aria. «E... e... come te lo spieghi?»

«Tu? Come la s-spiegheresti questa strana forma di cecità?» ribatte.

Sembra che si stia quasi arrendendo a se stesso e alla sua incapacità di dare risposte compiute. Ma ha detto "cecità", un'espressione che mi punge lo stomaco come uno dei tanti aliti di vento gelido di questa notte. Mi ricorda quella mancanza sensoriale che rendeva mio figlio speciale e quei suoi occhietti che non ci sono più.

Non poteva usare un altro termine?
Dio santo...

Quello che mi è appena successo non lo meritavo, ma forse me lo sono cercata. Avrei dovuto stare attenta; avrei dovuto proteggermi dalle prese in giro. Vivo da anni con l'anima segnata. Sono una donna infelice. Cosa credevo
di fare? Cogliere un brillio di speranza tra i fili spinati della mia desolazione? Trovare una via d'uscita?

Non c'è mai una via d'uscita per te, Layla, e non ci sarà mai. Solo sofferenze e delusioni profonde, che si aggrappano alla pelle e non ti lasciano andare.

«Perché appare quel fumo?» torno a chiedergli. «Dammi un solo motivo.»

Lui piega la testa su un lato. I suoi capelli biondo miele, lisci e setosi, si lasciano accarezzare dal vento, scoprendogli la fronte. «È quello che s-sto cercando. Lo troverò, lo g-giuro.»

«Sei confuso, quindi. Uno di quegli uomini insoddisfatti e frustrati che per provare a stare meglio iniziano a ficcare il proprio arnese in milioni di buchi disponibili» concludo, accusatoria.

«Io? I buchi d-disponibili?» si segna con l'indice, le labbra che si piegano in giù. «E dove sono questi milioni di buchi d-ddisponibili? Non li voglio, non li cerco.»

«Dettagli.»

«Non sono così.»

«Non mi importa!» ribatto. «Io, però, sono sicura: sei e devi rimanere solo il mio capo, colui che passa le giornate a volare. Gira in lungo e in largo sul soffitto del nostro circo, allora. Fallo senza preoccuparti per me, perché da oggi è finita. Non voglio più raggiungere le tue altezze, non fanno per me i centomila piedi.» Indico la strada sotto di noi, una striscia di asfalto ricoperta da una patina ghiacciata. «Io mi prendo il terreno sporco! Quello è il mio posto!»

«Non è così! Tu p-puoi spiccare un volo assurdo e puoi farlo perché sei ribelle e leggera, m-molto più di me.» Tenta di ghermirmi il polso e io mi ritraggo di scatto, disgustata, scuotendo la testa. La sua mano resta sospesa nel vuoto, ma la mia ritrosia non gli impedisce di parlare. «Io, in realtà, non meriterei n-nemmeno la tua considerazione.» La sua voce si incrina. «Perché sei troppo vasta per il mio poco. I-infinita per i miei tanti limiti. Non so neanche perché mi guardi.»

Perché, Bass?
Te lo stai chiedendo veramente?


«Perché mi piacevi, dannazione!» esplodo in singhiozzi che mi tagliano la gola. «Mi piaceva guardarti! Mi piaceva considerarti! Mi piaceva come mi facevi sentire!»

«Scusami! Sono u-un coglione! Sono un cazzo di coglione» replica alla stessa intensità, e le sue iridi smeraldine si lucidano. «Non v-voglio vederti piangere. Mi spezzi.» Avanza di un ulteriore passo. Ora c'è solo una esigua corrente di vento a dividerci. «Mi spezzi, piccola. Hai capito?»


«Smettila di chiamarmi così» mugugno affranta, retrocedendo ancora per sfuggire alla sua mano, al suo corpo, al suo maledetto contatto. «Smettila, ti prego.» La frase mi muore dietro il palato, ma la consapevolezza di quanto ho detto lampeggia dentro di me: non voglio essere una piccola ragazza che frigna. Ora voglio solo consumarmi nei vizi, distruggermi e spegnermi per non sentire più niente.

Desidero fumare, bere.
E poi ancora bere, e poi ancora fumare, fino a diventare una donna irriconoscibile.

«Quello che è accaduto stanotte, te lo prometto, non accadrà più» continuo, portando un piede indietro.

«Layla...»

«Ollie ti chiederà che fine abbia fatto. Inventati una scusa.»


«Stai qui, per f-favore.» La sua supplica è quasi disperata.

«Tu non comandi sulla mia vita, 'fanculo!» mi scaglio contro, velenosa, mentre mi volto e comincio a camminare.

L'hotel è l'unica via di fuga che vedo, ed è lì che sto tornando, da sola.

Non sento l'eco dei suoi passi. Fa bene a non seguirmi. Sto quasi sperando che lui svanisca e che lo faccia per sempre.

È soltanto un egoista guidato dai suoi istinti più beceri, che graffia e ferisce chi entra nel suo spazio. E io non voglio persone così vicino a me. Non dopo Lorenzo.

Arrivo in albergo in un batter d'occhio. Giro la chiave nella serratura e mi trascino dentro con passi barcollanti. Accendo la luce: la stanza è vuota. Claudine e Alizée non ci sono ed è meglio così. Non riuscirei a dare spiegazioni sul mio stato, né vorrei ricevere conforto.
Anelo solo il silenzio.

Sono ancora permeata dal suo dannato odore, quel profumo fresco e al contempo speziato che mi lacera i polmoni e mi punisce come una condanna.

Un mugolio stonato sfugge dalle mie labbra mentre mi dirigo verso il mini frigo, dove mi aspetta una bottiglia di birra doppio malto.

La prendo senza pensarci e la stappo al bordo del tavolo, smaniando solo di berla.

Il liquido amaro scivola giù, colando agli angoli della bocca, bruciando le papille gustative e l'esofago. Spero che possa lavare via tutto: il ricordo del suo tocco morbido, il dolcissimo sapore della sua lingua e le sue beffarde omissioni.


Nuove lacrime colano dai miei occhi. Mi rigano le guance e il mento senza concedermi tregua. In ogni goccia si deposita sempre la stessa convinzione: Bass è stato solo un abbaglio e io una bambolina con cui potersi divertire.

L'odore rancido dell'alcol si mescola al puzzo acre degli incantesimi spezzati, e io, contusa fino al midollo, crollo con le ginocchia sul pavimento, sprofondando nel baratro della mia afflizione.

«Stronzo» mi lascio sfuggire in un sibilo asmatico.

Continuo a bere, ma lo stomaco vuoto, ormai corroso, brucia, implorandomi di fermarmi.
Lo ignoro.

Anche stanotte la bottiglia non sarà risparmiata. La scolerò per intero, perché preferisco avvertire il dolore lancinante di qualsiasi organo che non sia il cuore già a pezzi. Quest'ultimo sta gridando dal suo solito mortaio di sfortuna, stanco di essere schiacciato sotto il pestello di un destino crudele.

Stronzo, lui.
Ma maledetta, io.

Ho una seconda bottiglia nel frigo.
La prendo. La stappo. La bevo.

L'ebbrezza mi inonda, portandomi ad avvertire una sonnolenza pesante. Non riesco nemmeno a raggiungere il letto. Così mi accascio qui, sul pavimento, consapevole che domani nulla sarà diverso.

Resto in pista insieme all'intera compagnia, inchinandomi davanti ai moscoviti per i saluti finali dello spettacolo, mentre dentro di me si agita una tempesta di assilli. Sento ancora l'untuosità della paraffina sulle labbra, che si sposa perfettamente con l'idea insistente che solo la solitudine mi risparmierebbe ogni complicazione umana.

E invece brava la scema che sei, Layla.
Sei riapprodata nel club delle masochiste, attratta da un perfetto caso da manuale di psichiatria. Complimenti.

Adesso, a distanza di quasi un giorno dalla mia sbornia, riesco a pensare con maggiore lucidità: ho commesso l'errore di non ascoltare il mio sesto senso, perché i segnali da infedele c'erano eccome, soprattutto quell'incostanza che caratterizzava gran parte dei comportamenti di Bass nei giorni e nei mesi scorsi.

Se l'avessi saputo prima, giuro, avrei preso le dovute distanze da lui.

Ma figuriamoci! Non sono mai stata una "sfascia-coppie", quindi fermare sul nascere quelle infinite manovre per attirarlo a me sarebbe divenuta la mia regola. Nessuna provocazione, nessun bacio intriso di imperiosa voluttuosità.


Quel bacio... ora lo rinnego.
Che orrore.

Mi sento quasi marchiata a fuoco da una colpa che ho commesso contro me stessa e contro terzi, anche se so di non essere davvero imputabile.

Che colpa ho, dopo tutto, se mi sono lasciata sopraffare dall'impeto di una situazione così intrigante?

Che colpa ho, se è stato proprio lui a spingermi a infrangere le rigide regole della formalità tra capo e dipendente?

Quegli sguardi ipnotici, le nostre passeggiate, la notte trascorsa nella mia camera e infine quella simulazione di fellatio praticata sul suo pollice alla festa di ieri sera mi hanno condotta, quasi naturalmente, a oltrepassare i limiti.

L'ho baciato perché credevo stessimo condividendo qualcosa. Peccato che, in realtà, non stessimo condividendo alcunché. Sono semplicemente caduta in un tranello scoperto troppo tardi, dove un "noi" non è mai esistito. E fa male.

Gli ho detto persino di stare con me, quasi con un tono implorante. Io e quel vergognoso vizietto di collocare sull'Olimpo chiunque mi dia un minimo di considerazione...

Ma Bass non è affatto un Apollo fuori poema e io sono stata stupida a pensare che potesse essere interessato alla mia indole secca e lugubre. Lui è estremamente attraente per non essere già di qualcun'altra: una donna più sensuale, ammorbidita da curve sinuose, con cui poter uscire a cena senza che innalzi noiosi paletti sul cibo. In sintesi, una donna priva di rogne e tragedie a suo carico.

Ma allora... perché mi ha baciata in quella maniera così spietata e ingorda?

E perché, dopo il bacio, mi ha detto molto altro?

Frasi profuse.
Frasi rischiose.

Sebastian Edgar Powell, il capitano dei bravi ragazzi, è un cristallo dalle innumerevoli sfaccettature, alcune delle quali torbide e demoralizzanti. Un'acqua cheta, stemperata nelle ambiguità delle sue stesse contraddizioni. Avrei tanto voluto non incontrarlo.

Sì, lo confermo: stare da sola è meno difficile, e desidero tornare a quella condizione disillusa e priva di aspettative in cui sognare non è consentito. L'assenza di nuovi legami mi permetterebbe di vivere il mio ultimo residuo d'esistenza nell'apatia più totale, senza motivazioni, senza scopi. È l'unico stato psicologico che torno a bramare, per poter fare ciò che mi riesce meglio: pentirmi di essere nata.

Devo solo compiere dei passi indietro.

Gli occhi gonfi sono la conseguenza di ore di pianto. Li sento pizzicare di più al contatto con il profilo del viso di Bass, nascosto sotto gli strati di trucco. Osservo le genuflessioni aggraziate che concede al pubblico sotto il tendone fisso, mentre la voglia di urlare che non sia il cherubino che tutti credono mi solletica le corde vocali. La signora sulla sessantina seduta in prima fila, quella lì con una giacca in lanetta color cremisi sulle spalle, sembra volerlo sapere. Glielo dico?

In breve, Melinda afferra un microfono portatile, dipingendosi sul volto un'espressione liliale. Gli applausi della platea iniziano a scemare, e finalmente può parlare. «Signori e signore, vi rubo solo qualche altro minuto della vostra preziosa attenzione. Mi preme offrire un omaggio.» Ruota il busto verso destra, allungando il braccio in direzione del figliastro. «Rinnovo qui, in pista, gli auguri di buon compleanno a uno dei migliori performer aerei che abbiamo in compagnia. Bastian, questa notte è tua.»

Sì, proprio tua, stronzo.

Unendomi agli altri, ostento un applauso disinvolto, mentre un occhio di bue lo illumina lungo il suo tragitto. Ora anche la camminata mi sembra da stronzo.

Bass posiziona le mani tremanti sul petto nudo e, chiudendole a mo' di preghiera, ringrazia tutti i presenti. La sala si riempie della melodia di una canzoncina augurale che inizia a intonargli il pubblico. Melinda gli cede il microfono, ma lui non lo usa. Lo tiene appoggiato su un quadricipite, lasciando che il suo sorriso timido comunichi per lui, eloquente più di qualsiasi parola. Tuttavia, quell'espressione di comodo svanisce quando, concluso il momento celebrativo, si scontra con il mio sguardo.

C'è gelo tra noi, condito da un po' del suo disagio e un po' – un bel po' – del mio astio.

Durante il nostro congedo, mentre l'allegra musichetta della fisarmonica di Corinna si espande per la pista, lo osservo muoversi con una fretta che lo distingue da tutti gli altri. Si fa strada tra gli artisti, raggiungendo il sipario in un battibaleno. Sospetto che, una volta arrivata nel backstage, non lo troverò.

E infatti non lo trovo.

Ti sei volatilizzato.
Bravo.
Altrimenti ti avrei ucciso a suon di gomitate sul naso.

«Percepisco il richiamo di una sciagura» interviene Ollie, fermandomi dopo aver oltrepassato il sipario. Il vociare del pubblico, intento ad abbandonare la struttura, sovrasta la sua timbrica, così alza il tono per farsi sentire. «Sei triste stasera. Non che sia una novità, ma oggi puzzi anche.»

«E di che puzzo? Non sento niente» rispondo, cercando di minimizzare la situazione.

«Birra, vodka e liquori che si fondono in un bel ménage à trois. Claudine e Alizée mi hanno detto di averti trovata svenuta sul pavimento della vostra stanza, ieri notte. Puoi spiegarmi cosa è successo?»

Le mie spalle si abbassano mentre affondo gli incisivi nel labbro inferiore. È inutile continuare a mentire di fronte al mio personale "archeologo di sentimenti". Ollie si impegna sempre a fondo a scavare nei miei malesseri e quindi merita una spiegazione, anche se sintetica.

«Indovina chi è inciampata negli stessi errori?» cantileno con un sorriso sciocco.

Si gratta il mento. «Qualcosa mi dice che ieri notte non sei scappata da Dubois per aiutarlo con le sue apnee notturne, vero? Bass mi ha detto una bugia?»

«Devo stargli alla larga, Ollie.»

«E no! Non ci siamo!» Indurisce i tratti del volto, neppure il protuberante naso rosso riesce a addolcirli. Il cerone si crepa tra le rughe della fronte.

«Lascialo stare, non andare a picchiarlo. Altrimenti vi vedrò costretta a strapparti il "pisipisi" a morsi.»

«Ma ti ha fatto del male?»

Sospiro. «Il male mi avvolge da sempre. Devo accettarlo. Ridi al posto mio, almeno tu.»

«Be', la mia vita non è esattamente fantasmagorica: fatico a ridere davvero» risponde lui, poco prima che anch'io mi smaterializzi dal backstage.



Bass

Pesto un grumo di neve con ira, sperando di sprofondarci dentro, di congelare e di fermare il tormento che mi attanaglia le viscere.

Le sue parole di due notti fa, dopo il bacio, si ripetono senza sosta nella mia mente: io che mi sollevo in volo, lei che si prende il terreno sporco. Quando invece dovrei essere io a rimanere qui, con la faccia schiacciata contro il più sudicio degli asfalti, a pentirmi di tutti i miei cazzo di peccati.

Io appartengo al basso.
Non lei, che è una perla inestimabile, la più preziosa di tutte.


Quella sera l'avrei seguita per scusarmi ancora, fino a farmi sanguinare le corde vocali, ma la ragione mi ha imposto di non cercare un contatto immediato, perché così avrei solo peggiorato le cose.

In realtà, temendo che qualche malintenzionato sbucasse dal nulla e la molestasse, l'ho seguita da lontano. L'ho fatto subito dopo aver inventato una scusa con Oliver, così come lei mi aveva ordinato.

Durante quel tragitto ho realizzato che il bacio più bello della mia vita l'ho ricevuto a trentadue anni, da una donna devastante.
Forse, prima di allora, non avevo mai baciato davvero. Forse, prima di allora, non avevo mai sperimentato il lato meraviglioso della devastazione.

Appoggio gli avambracci sulle cosce, seduto nel cortile delle dépendance. Il clima è polare, e le mie mani, screpolate, pulsano di dolore come se il freddo stesse cercando di penetrarmi fino ai nervi.

Il sole non è ancora sorto e, come al solito, non ho chiuso occhio. Qui a Mosca potrei contare sulle dita di un monco le notti in cui ho dormito bene. Il letto mi soffocava e avevo bisogno di scappare, di muovermi, di sentire l'aria fresca sul viso e cercare una parvenza di pace.

Non posso più vivere così.
Devo regolare i conti.

Non posso abbandonarmi tra le braccia di Melinda, godendo al contempo della vicinanza di Layla. Sarebbe assurdo anche solo pensarlo. Potrei tollerare entrambe le cose solo se le mie intenzioni non fossero contaminate dal desiderio che provo per Layla.
Ma così non è.

Anzi, è l'esatto opposto: il contatto delle nostre labbra ha attivato una serie di meccanismi automatici che ora mi spingono a necessitare di altro.

Desidero quella piccolina pazzamente.

La desidero anche adesso.
La desidero nonostante i conflitti, i nostri muri di silenzio.
La desidero più di prima.

Quelle lacrime notturne, poi, versate solo per me... come posso tralasciarle?
È un'immagine che mi corrode lentamente.

Spero che abbia smesso di distruggersi così, perché altrimenti non riuscirei a sopportarlo. La preferisco di gran lunga incazzata e maledicente come mi è sembrata ieri sera allo spettacolo; la preferisco una folle omicida, anche se questo significherebbe morire sotto le sue mani.

Uccidimi, Layla.
Dalla mia bocca fiorirebbe solo un grazie.
Spirando, ti chiederò ancora scusa, e quando il mio corpo non avrà più forza per farlo, sarà il mio spirito dall'oltretomba a implorare il tuo perdono.

«Bastian.»
La voce inconfondibile di Melinda guasta bruscamente il flusso dei miei pensieri.

Alzo lo sguardo di scatto e la vedo avvicinarsi dalla porta dell'hotel. Chiude il cappotto sopra il pigiama in maglina e si ferma accanto a me. Sbuffo. Avrebbe fatto meglio a non venire. In questo momento non voglio vederla, né stare con lei. Eppure, si siede sulla panchina di granito, sfiorandomi la schiena con una dolcezza che contrasta il gelo dell'alba timida e viola che inizia a farsi strada nel cielo.


«È presto. Che ci fai qui?» mi chiede quasi preoccupata, e io mi stringo nelle spalle, evitando di incrociare i suoi occhi. «Che hai?»

Che ho?
Un'infedeltà a portata di baci e lingue con tanto di erezione, che, se messa a nudo, potrebbe scatenare uno scontro furioso, per non dire una guerra sotto il tendone.

«Ce le abbiamo ancora quelle caramelle alla melatonina?» divago con un bisbiglio rauco, portando il mio sguardo su di lei. «Non riesco più a dormire.»

«Sì, ma quelle non ti serviranno a combattere quell'ansia che ti fa sempre tremare. Ti servo io. Solo io» mugola, modellando le labbra in un sorriso sensuale. «Poco fa, come sempre, mi sono lasciata pervadere dall'idea di raggiungere il tuo letto. Che darei per passare insieme a te tutte le notti che ci rimangono.»

Guardo il cortile silenzioso che si estende tra le dépendance, rendendomi conto che le sue parole non stanno suscitando in me alcuna emozione. Nessun entusiasmo. Niente.
È grave. Gravissimo.

«Dimmi che te ne sei accorto» insiste, accarezzandomi con cura i ciuffi che il vento mi spinge sulle ciglia. «Dimmi che stai notando i miei passi in avanti. Non ti ho chiesto nulla della festa di due sere fa, e sai una cosa? Non voglio sapere, non mi interessa. Voglio aggrapparmi alle sicurezze che mi dai.»

Deglutisco il nulla, stupito da questo raro atto di fiducia. Due lacrime le si annidano agli angoli delle palpebre e in esse rivedo quel sentimento esorbitante che Melinda dice di provare per me.

Ma io?
Cosa provo io?
Cosa sono io?

«Tu voli, Bastian, è nella tua natura. E se voglio continuare ad averti accanto, so che non devo tarparti le ali. Mi fiderò del tuo volo allora, da oggi e per sempre.»

Sporge il torace e mi regala un bacio su una tempia. Io resto immobile, a riceverlo senza opporre resistenza. Ecco cosa sono, la piccolina ha ragione: un bastardo traditore in piena regola. Proprio come mio padre.

«La Urbonaitė è solo una povera ragazza. Provo quasi compassione per lei. Saprà farsi da parte, ne sono certa.»

Peccato che quella che tu definisci come una povera ragazza è diventata il mio chiodo fisso, Mel.

E quanto cazzo mi manca.

So che stamattina Layla ha un incontro formativo con uno dei più grandi mangiafuoco di Mosca. Lo so perché è un incontro pensato e sovvenzionato da me. E io sono stanco di evitarla. Non voglio più evitarla.
Anche se dovrei.

Poche ore dopo, infatti, quando un pallido sole inizia a riscaldare la città, mi dirigo verso l'edificio del circo. Trovo Layla da sola, a ridosso della pista, distesa su tre sedili con le cuffie dell'iPod nelle orecchie. Il suo incontro è già finito, e io rimango fermo all'ingresso, indeciso se interromperla subito o meno. Indossa un maglioncino di lana intrecciata. Un jeans a zampa. Le codine basse, ai lati della testa, le conferiscono un'aria da bambina. Dondola la testa al ritmo della musica, seguendo un beat deciso. AC/DC, ne sono certo.

Non piange e questo mi rincuora da matti.

Potrei rimanere qui per ore a godere di questa splendida visione intrisa di rock, ma credo di cominciare ad avvertire il bisogno impellente di avvicinarmi; di dirle che ci sono anche se il mio terzo nome è "MerdosoRifiutoRadioattivo" tutto attaccato; di farle comprendere che vivere senza la sua voce è orrendo, e che, anche se non dovesse perdonarmi, mi preoccuperò sempre per lei, fino alla fine dei miei giorni.

Perché io sono fatto così, e perché a volte sembro fatto per lei.

Rilasso i nervi del collo, prendo un respiro profondo ed entro. Attraverso la pista con il passo cadenzato, le mani nelle tasche dei pantaloni. Il giaccone di jeans a rendermi riconoscibile anche a un miglio di distanza, lo sciarpone di lana beige a coprirmi bocca e naso.

Layla si solleva muovendo le spalle in maniera energica, ma quando i suoi occhi incontrano i miei, si irrigidisce di colpo. Un leggero rossore le colora il viso, partendo dalle guance e salendo fino alle orecchie.

Gesù, io non sono da meno.
Mi trema lo stomaco.

Avanzo sempre di più, mentre lei si toglie le cuffiette, con la fronte aggrottata in un'espressione perplessa. È chiaro: si starà chiedendo cosa ci faccio qui. E in effetti me lo chiederei anch'io. Perché io di solito da lei scappo. E oggi invece, oggi... vorrei stracciarle quel maglione, toccarla dappertutto e divorarmela di baci, di nuovo.

«Questa v-volta non ci riesco» le dico per rompere il ghiaccio, facendo spallucce.


«A far che, stronzo

Ah, la piccolina è partita proprio così.
Bella carica.


«A rispettare le nostre c-classiche distanze di sicurezza da ordine restrittivo.»

Sgrana leggermente gli occhi e si morde un labbro.

«Tu?» le chiedo, dopo qualche attimo di silenzio. «Come stai vivendo questa serie di severe d-disposizioni emanate dai g-giudici dei giudici, nonché dal signor Powell e dalla signorina...» Ingoio il vuoto. Merda. Ma perché il lituano è così difficile? «... U?»

«Bene. Sai com'è, con gli stronzi risulta tutto più semplice.» Ma getta lo sguardo verso i suoi piedi, e io capisco.

«Le bugie ti attraggono t-tanto quanto il fuoco, vedo.»

Non risponde.
E io comprendo la situazione ancora meglio.

«Europa e America, questo p-pensiamo di essere. E ci illudiamo c-che per salvarci basti l'oceano Atlantico.»

«Puoi essere anche Antartide, se vuoi» ribatte, fucilandomi da sotto le ciglia mentre inizia a pizzicarsi le punte di una codina. Quanto è deliziosa. Tremendamente adorabile. «O ci puoi andare. Sarebbe meglio.»

Assottiglio gli occhi. «E s-ssse Antartide volesse rimanere?»

«Sarebbe un'azione un po' stronza da parte sua.»

«Lo s-stronzo più stronzo di t-tutti gli stronzi si può avvicinare un po' di più?» Ammicco con un cenno di mento alle gradinate. «Potrei a-avere delle cose da dirti.»

Si gratta il collo, in evidente difficoltà. «Bass... no.»

Più mi respinge e più voglio baciarla.


«Intendila così, come una p-piccola resa» controbatto. «Una pausa dagli errori, un i-intervallo in cui parliamo, ci mandiamo a quel paese e poi torniamo a parlare.»

Mi fissa cupa per un istante. Poi, il suo lungo sospiro mi fa capire che il crollo delle sue prese di posizione è vicino. «Bass...»

«Ti do il p-permesso di mordermi» mi invento.


«Morderti?»

Eccola qui, la prima crepa: le scappa un risolino lento, involontario, a immaginarsi come una vampira.

«Guarda che mi offro davvero!» Tiro la sciarpa verso la base della gola e sfoggio la giugulare. «Quantomeno, s-scaricheresti un po' di r-rabbia.»

«Ti faresti male.» Accompagnarmi nell'ironia è, a tutti gli effetti, una seconda crepa. «I miei canini sono affilati.»

Sorrido. «E che mi importa! Tanto p-prima o poi dovrò finire in una tomba, no? Morire d-dissanguato con le tue l-labbra al collo sarebbe la morte migliore per me.»

Terza crepa: ride un po' di più. «Bass, sul serio. Ti conviene andartene. È meglio per entrambi.»

«Dovrei a-andarmene, sì. Ma non voglio.» Torno serio, ricoprendomi il collo. «Sono v-venuto qui per te. Solo per te.»

Mille crepe, uno scricchiolio incessante.

E anche oggi, nell'incoscienza e nell'incoerenza, accorciamo ogni nostra distanza.

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