44 - Sparire
Lorenzo
Custodisco il cofanetto nella tracolla che mi pende su un fianco, mentre attraverso la piccola galleria che dal foyer conduce all'ingresso della pista. Le chiavi tintinnano leggere nella mia mano, accompagnate dal trillante timore di fare un errore o commettere un passo falso. So esattamente dove troverò Melinda stamattina, e infatti la vedo: seduta da sola su uno dei seggiolini vicino alla pista. Ho ideato un piano preciso per consegnare il mio regalo alla bimbetta, e solo la direttrice potrebbe contribuire alla sua riuscita.
«Buongiorno. La disturbo?» dico sottovoce, fermandomi a pochi metri dalla gradinata.
Si strofina via una sorta di apatia nascosta sotto il fondotinta e mi concede un briciolo di attenzione. Non sembra affatto in forma e io... ne traggo un sottile piacere. Sì, mi conforta vedere gli altri soffrire perché mi ricorda che c'è chi potrebbe stare peggio di me.
«Fuori sta per arrivare una bufera di neve. Il meteo dice che non sarà meno violenta della scorsa. Visto che Scarlett è a scuola e Oliver è indisposto, mi chiedevo se...»
«Davis? Cos'ha?» mi interrompe, aggrottando la fronte.
Vorrei dirti una sindrome da immunodeficienza grave con un'infezione letale in corso, ma purtroppo si fanno attendere.
«Mal di denti. Bocca insanguinata, cose del genere.»
Si passa una mano tra i capelli ben acconciati come a cercare di placare l'ansia. «Non sarebbe il caso di chiamare un medico?»
«Layla se ne è già occupata, glielo assicuro.» Mentre parlo, ruoto le chiavi tra le dita passandole dall'indice al medio con una certa dimestichezza. «Ernest mi ha lasciato il furgone. Potrei andare io a prendere Scarlett dopo le lezioni, così non rischierebbe di prendere freddo o salire sui mezzi pubblici.»
Per un attimo i nostri occhi si incrociano. I suoi esprimono una titubanza palpabile e credo che i miei non siano da meno. Non riesco a mostrarmi deciso. Melinda è pur sempre sua madre.
Per non tradirmi con un'espressione sbagliata, mi costringo a fissare ciò che muovo tra le dita. Devo fare in modo che la mia proposta, così azzardata, non lasci trasparire nulla. Deve sembrare solo altruismo. Un semplice atto di cortesia, dettato dalla consuetudine di ciò che siamo: una famiglia itinerante.
Purtroppo, non riesco a trovare altri modi per avvicinarmi a Scarlett in queste ultime ore. Qui, in Russia, con un hotel e delle dépendance di mezzo, e con Bass che ora sembra quasi ermetico, è più difficile di quanto immaginassi.
«È un gesto che apprezzo, ma non voglio scomodarti. Potrebbe andarci mio figlio. Hai provato a chiedere a Bastian?» mi chiede, inclinando leggermente la testa mentre incrocia le braccia sul petto.
«Bass non ha un furgone. Per farlo, dovrebbe andarci a piedi.» Mentre pronuncio queste parole, smetto di muovere le chiavi. «Ma dov'è? Stamattina non era neppure al risveglio muscolare.»
«Si è concesso un giorno di totale riposo. Ha avuto una notte insonne.»
Anche lui è fuori uso. Sempre malaticcio. Comincio a pensare che sia affetto da qualche patologia. Perfetto.
«E allora insisto. Voglio aiutarvi.»
A questo punto si arrende, e un sorriso stretto le attraversa il volto. Sblocca persino le braccia, rilassandosi. «D'accordo. Ti ringrazio, Fabbri.»
Ricambio con un sorriso simile, uno di quelli di circostanza che nasconde in realtà la soddisfazione per essermi assicurato un po' di tempo con Scarlett senza dovermi affannare.
Le auguro un buon proseguimento di giornata e mi dirigo verso l'uscita, pregustando quegli occhietti curiosi e stupiti rivolti verso di me, che si muovono tra il candore della neve e il grigiore della città.
«Fabbri.» Melinda mi richiama, costringendomi a fermarmi.
Maledizione, che abbia cambiato idea?
Mi volto, il cuore accelera un po' mentre lei si alza in piedi e si avvicina sculettando sui suoi tacchi alti.
«Posso farti una domanda?»
No. «Certo.»
«Lo ammetto: sei venuto a parlarmi in un momento difficile» mi confessa, ora senza nessuna volontà di apparire troppo composta: le spalle, solitamente erette, cedono verso il basso, come se portassero il fardello di tutte le sue afflizioni. «Dopo aver vissuto dolori insormontabili, come si può ancora aprirsi all'idea di raggiungere la felicità?»
Le sue parole mi stanno facendo perdere tempo. Ma non posso andarmene senza averle offerto una risposta densa di introspezione e filosofia in grado di soddisfarla. È pur sempre il mio capo, almeno finché Dubois non raggiungerà il Regno dei cieli. Mi prendo un attimo in più per riflettere.
«Bell'interrogativo, direttrice. La felicità, così come la intendono in molti, è un concetto astratto, un obiettivo puramente irrealistico.»
«Sostieni che non esista?»
«Concordo con quanto affermava Kierkegaard: è la più grande e profonda delle illusioni. Ci illudiamo di poterla raggiungere, considerandola un traguardo da conquistare, ma in realtà una sua parvenza si manifesta soltanto nel viaggio che intraprendiamo per avvicinarci a essa. Nulla di più.»
«Avevi un figlio. Non lo consideri un apostrofo felice?»
Chi?
Cos'è che avevo io?
Fisso Melinda con uno sguardo impassibile, ma dietro si agita un sottile senso di avversione. Mi costringe a ricordare qualcosa che desidero dimenticare, a rivivere un incubo che cerco di annientare. Non voglio affrontare questo argomento. Non voglio rivangare ciò che sono stato: il padre di un bambino mai voluto, mai accettato, mai compreso.
«È stato un accento grave e acuto allo stesso tempo» dico.
«Dovresti tornare con Layla» mi consiglia sbrigativa. «Siamo molto amiche adesso e mi ha confidato che sei l'unica persona per cui prova affetto.»
È una menzogna.
Layla non pronuncerebbe mai tali parole.
Nutro dubbi sul legame che stanno tessendo. Non sono così affiatate come vogliono farci credere, perché chi prova del bene sincero per la mia ex non verrebbe mai da me a suggerirmi di riprovarci.
«Tra di noi non ha mai funzionato, e non è ciò che voglio, al momento.»
«Ti ha fatto del male?» chiede, ma non le rispondo. Il silenzio divampa e si prolunga per alcuni secondi. «Vedi, Fabbri, si narra che un tale si avvicinò a Buddha e gli sputò in faccia senza neppure parlargli.» La sua voce assume una modulazione solenne. «Un suo discepolo, testimone dell'infamia, gli chiese il permesso di ripagarlo con la stessa moneta, ma lui gli disse di acquietarsi. Poi Buddha si avvicinò all'iniquo e, incredibilmente, lo ringraziò.»
«Perché?»
«Perché gli permise di capire che non serbava rancore. Il torto subito non aveva generato in lui alcuna collera» mi spiega, battendo più volte le ciglia nere. «La propria pace interiore annulla qualsiasi tentativo di vendetta e di logorare l'altro. Acquietati, smetti di fare la guerra alla Urbonaitė e sposala.»
Le sue parole risuonano nella mia mente, piantando in me i semi di una riflessione profonda: cerco di immaginare come sarebbe la mia vita se decidessi di abbandonare il risentimento, abbracciando la riconciliazione. Di certo, sperimenterei una nuova forma di quiescenza. Ma Layla no. Layla non la sposerei neanche se fosse l'ultima donna sulla terra.
A bordo del furgone giro la chiave, pronto a dirigermi verso colei che ultimamente mi rappacifica con il mondo: Scarlett. Non ho idea di cosa discuteremo né se si rallegrerà per il fatto che mi sia sostituito a Oliver o a Ernest. Eppure, questa serie di incognite accende in me una rara vitalità.
Parcheggio nei pressi dell'edificio scolastico e scendo dal veicolo, chiudendo in fretta lo sportello. Il suono aspro della campanella si mescola al tintinnio delle chiavi, che di nuovo ruotano sui miei guanti di pile. Lo spiazzo delimitato dai cancelli pullula di studenti dai volti sconosciuti. Li osservo, cercando di fare incetta di immagini, divorandoli e superandoli uno dopo l'altro. Dov'è quello che appartiene alla mia ineccepibile infrazione morale?
Finalmente lo scorgo, sorpreso e gioioso, venirmi incontro.
«Giuro, non ti aspettavo! Dov'è Ollie?» mi chiede la bimbetta.
«Ti dispiace che ci sia io?» domando affabilmente, protendendo le braccia verso di lei. «Passami lo zaino, non voglio che ti affatichi la schiena.»
Scarlett stringe con più risolutezza gli spallacci che aderiscono verticalmente al suo seno. «Non preoccuparti, sono abbastanza forte da portarlo senza che mi tiri indietro.»
La neve comincia a danzare sinuosa e alcuni fiocchi si posano delicatamente sulle sue guance di velluto. L'espressione pura che mi rivolge mi fa provare un'emozione piacevole, simile a quella che si avverte di fronte ai tramonti d'estate, gustati dalle banchine dei porti. Quei panorami mozzafiato sgorgano da ogni centimetro del suo roseo incarnato e li fotografo con gli occhi, desideroso di conservarli negli album della mia mente.
«La tua schiena è più importante della mia: sei tu quella che si attorciglia tra i tessuti, non io» insisto. Scarlett sembra riflettere su questo e alla fine cede, porgendomi lo zaino.
«Grazie.»
Camminiamo lungo l'innevata Tverskaja, affollata di passanti dediti allo shopping.
Sono stato io a proporle di fare due passi prima di raggiungere il furgone, ma le cose sembrano non andare come sperato: la nostra passeggiata, che avrei voluto costellata di chiacchiere, si trasforma in una silenziosa traversata.
Non sono abituato a intrattenere conversazioni, ma sento l'esigenza di rompere questa incomunicabilità. Ogni minuto trascorso con Scarlett deve essere vissuto nella sua totalità, senza che diventi uno spreco.
«Senti freddo?»
«In realtà, ho la maglia termica. Sto bene» mi risponde, dopo aver emesso un sospiro di fatica.
«E allora mi chiedo chi ti abbia rubato la parola» riprendo, infilando la testa nel cappuccio del giubbotto per proteggermi dal nevischio che inizia a inumidire la mia fluente capigliatura.
«Un mostro cattivo» scherza, riempiendo i suoi occhi di brio per un attimo. «Si chiama mal di testa.»
A queste parole rallento l'andatura e una goccia di amarezza si insinua in me. «Vuoi che ti porti in hotel?»
Scarlett si guarda intorno e intravede una panchina vuota davanti a un chioschetto di bibite calde. «E se ci sedessimo?»
Mai una proposta mi è sembrata più allettante.
Le offro subito una bevanda, degli sochnik e le comprerei anche frammenti di cielo e di nuvole se solo lo desiderasse. Penso al regalo costoso che conservo nella tracolla e spero che possa alleviare la sua emicrania.
«Ci volevano gli zuccheri, sì» ammette, trangugiando gli ultimi pezzi di dolcetto, mentre io, sorridendole assuefatto, osservo come la punta del suo naso alla francese si stia arrossando per il freddo.
«Immagino che questa festa ti piaccia» commento in seguito, appoggiandomi alla spalliera in pietra della panchina. Ammicco agli alberi di Natale che circondano la piazzetta, i cui rami sempreverdi brillano dei tipici lustri della festività.
«Non troppo. Fa sentire la mancanza di chi non c'è» risponde con un filo di malinconia.
«Io, invece, non ho mai fatto regali. Mi sono sempre rifiutato di alimentare lo sterile consumismo che caratterizza queste occasioni» confesso.
«Non è un male.» Per liberarsi dalle briciole di pasta sfoglia, si passa le mani sulla mantella a scacchi. «Hai risparmiato tanti soldi.»
«Fino a oggi: ho risparmiato per anni i soldi che ho speso in un solo giorno» le rivelo.
Mi guarda. «Che vuoi dire?»
Dalla mia tracolla estraggo il cofanetto della gioielleria. Appena il pacchetto passa nelle sue mani, Scarlett corruga la fronte. «Ma si tratta di un gioiello, vero? È il regalo di Natale per Layla? Vuoi riconquistarla?»
«È il regalo pensato per chi adesso lo sta reggendo tra le dita» rispondo, distogliendo con imbarazzo lo sguardo da lei per posarlo sull'uomo corpulento che prepara le bevande al chiosco.
«Cavolo... È... è per me?»
«È per te.»
«E posso aprirlo?»
«Puoi aprirlo.»
La osservo di sfuggita mentre apre il cofanetto. La sua bocca si trasforma in una "o" di stupore alla vista del contenuto: una collana raffinata, composta da un elegante filo d'oro bianco che sorregge un magnifico diamante a goccia, incastonato con maestria. Brilla più della neve accumulata ai bordi dei marciapiedi.
Di colpo chiude l'involucro. «Avrai speso moltissimo, mi sento in colpa.»
«Non devi. Lo volevo.»
«Perché un regalo?» Una ruga di preoccupazione si instrada tra le sue sopracciglia. «Perché, visto che non ne hai mai fatti a nessuno?»
«Perché...» inizio a dire. «Perché tu sei un regalo. Un regalo per me.»
«Io?» Incredula, si indica.
«Lo è la tua amicizia» specifico.
«Ma è un dono costoso e io non posso accettarlo» replica, porgendomi il cofanetto.
La fermo, non permettendole di restituirlo.
«È vero, potevo spendere di meno, ma vuoi sapere il motivo di tanto dispendio economico? È prezioso perché tu sei preziosa. Necessiti di gioielli che si equivalgano ai carati della tua anima.»
Scarlett deglutisce nervosa e il regalo rimane tra di noi, come se fosse il nostro punto di confine. Torna ad avvicinarlo a me, io torno ad avvicinarlo a lei. La mia forza si scontra con la sua forza, ma in seguito le sue braccia cedono alla pressione e, alla fine, è costretta a riaccogliere il dono.
«Mia madre e Bass premeranno affinché te lo restituisca. Verranno a parlarti» mi avverte.
«Ci avevo già pensato. Potresti mentire e dire che ti è stato regalato dal tuo lui» suggerisco, sperando di alleggerire i suoi assilli.
«Terence? Ma...»
«È il tuo ragazzo, giusto?» Desidererei una risposta diversa, ma so che questo legame, adesso, potrebbe aiutare a mascherare l'imprudenza commessa.
Annuisce, poi sbuffa. «Mi metti comunque nei casini, lo sai?»
«E allora non indossarla. Lo farai quando lo riterrai opportuno» dico, cercando di essere persuasivo. «Ma tienila, per favore.»
«La terrò, d'accordo. Potrei... non so, potrei nasconderla.»
«Nascondila, sì.»
«E, quando ne avrò l'occasione, la contemplerò.»
Ora, finalmente, mi sorride.
«La contemplerai pensando a me?»
«Sì.»
«Bene.»
«È davvero bellissima.»
Mai quanto te.
Pochi attimi dopo esprime il suo ringraziamento con un bacio che mi posa sulla guancia, fresca di dopobarba. Così vicina, a pochi centimetri dalle mie labbra, mi sento quasi sopraffatto da un capogiro. Il palpito irregolare del mio cuore risale lungo le pareti del collo, il respiro si fa tumultuoso, come se stessi trottando a perdifiato in mezzo a una corrida. Non riesco più a pensare in modo chiaro o sensato. Ho solo una voglia irresistibile di possederla.
«Stai bene con me?» le chiedo in tono basso.
«Molto, Lorenzo.»
Layla
LAYLA:
ho parlato con gli alieni che ti hanno rapito.
Bastardi.
Dicono che anche laggiù, nel loro pianeta, sculetti come al solito sulle note
di Obsesión degli Aventura.
Non visualizzi i messaggi da ore.
Se hai bisogno di qualcosa, io sono qui, okay?
Alzo lo sguardo per un secondo. Due. Tre. In seguito, impaziente, lo riporto sullo schermo del telefono, domandandomi quando quelle spunte grigie diventeranno finalmente blu.
Un nodo mi stringe la gola mentre realizzo che lui, da quella notte in camera mia, è diventato di nuovo distante e sfuggente.
Ecco il suo solito gioco: mi intrappola nella sua gabbia di infinita dolcezza, mi seduce con gesti affabili che pian piano si trasformano in una morsa intransigente e poi sparisce a suo piacimento, spezzando i fili di ogni possibile connessione.
Chi lo dice che i bravi ragazzi sono scontati e noiosi? Forse solo chi non ha conosciuto Sebastian Powell. Con lui non si cammina mai in una dimensione costruita su stabili impalcature: una notte ti fa sentire la sua dea e quella successiva non sembra nemmeno ricordare il tuo nome.
Il suo modo di fare inizia ad avere la facoltà di decretare quale stato d'animo debba cucirmi addosso, ed è un male a mio avviso, una piccola forma di schiavitù affettiva che di certo non stavo cercando.
Non ci siamo più visti, a parte ieri sera allo spettacolo, ma eravamo entrambi troppo indaffarati per ritagliarci un momento in cui parlare di quanto accaduto, o anche solo per scambiarci qualche chiacchiera di circostanza.
Cosa gli avrei detto?
Che il suo comportamento mi lascia di stucco, e non in senso positivo.
All'inizio aveva rifiutato il mio invito a uscire, e devo ammettere che stavo facendo fatica ad accettare la cosa. Ma proprio quando stavo cominciando a farmene una ragione, me lo sono ritrovato dietro la porta della mia stanza, imbacuccato come Winnie The Pooh in settimana bianca, con l'intenzione di fare una passeggiata con me nel cuore di una gelida notte.
Non lo capisco.
Si impazzisce così, si esce fuori di testa.
Stamattina non sembra nemmeno voler raggiungere la sala adibita al bar per salutare i dipendenti. Seduta a un tavolo accanto alla vetrata del patio, infatti, fisso l'ingresso mentre sorseggio il mio caffè, con la speranza di vederlo entrare, ma lui non arriva mai. E più tarda, più si assenta, più i miei pensieri rivolti a lui si fanno soffocanti.
Continuo a chiedermi perché mi abbia fatto sedere sulle sue gambe e detto quelle parole così significative se ora sembra quasi vergognarsi di me e del rapporto che abbiamo.
Ho persino pensato che possa aver percepito come eccessiva l'allusione sull'arcobaleno esternata prima della buonanotte. Ma in quell'istante sentivo di dirla e non la rimangerei.
Chissà che combini...
Chissà come stai...
Perché io be', io mi preoccupo per lui anche se vorrei rompergli la testa. È l'attitudine tipica delle persone "sottone"?
Forse sì.
E allora che qualcuno mi dia una cattedra e mi chiami professoressa, perché potrei tenere lezioni interessanti sull'argomento.
Mi passo una mano sull'elastico che tiene insieme i miei capelli in una crocchia scomposta, mentre un battito più forte mi riporta alla mente quel pugno chiuso sulla mia nuca, un gesto al profumo di predominio così apprezzato da me.
Dio mio.
Come fare per rovesciare le clessidre del tempo e tornare a boccheggiare sotto quel tocco?
Osservo ancora lo schermo del telefono, sperando che si illumini per un segnale.
Niente.
Non è giornata.
Sarò ignorata anche oggi.
D'improvviso vedo Ernest avanzare tra i tavoli e gli ospiti assorti nelle loro colazioni. Mi lancia un sorriso cordiale, reso ancora più simpatico dal diastema tra i denti, e io ricambio alzando una mano e muovendo leggermente le dita. Si affretta a raggiungermi.
«Bonjour, mademoiselle» cinguetta. «Come va? Pronta a sfidare le funi?»
Sospiro intuendo già cosa mi aspetta, mentre quel piccolo granulo di preoccupazione si ingrandisce: secondo forfait di fila in due giorni. Non mi aiuterà con il funambolismo.
Se questa non è codardia, non so cosa possa esserlo.
Complimenti, capo.
«Bass ti ha chiesto di sostituirlo anche oggi, non è vero?»
«Si è preso un altro giorno di riposo» conferma, con le labbra che si piegano in giù in segno di dispiacere. «Ma oggi ha avuto più fantasia: mi ha detto che ha le gambe stanche e che si dispiegherà in attività che esulano dalle atmosfere circensi.»
«Ovviamente. Mi sta evitando» commento annuendo, e una scintilla di nervosismo irrompe nel mio cervello. Mi alzo quasi di scatto, con in mano il bicchiere di caffè ormai vuoto. Lo faccio roteare tra le dita, osservando i residui che si mescolano sul fondo. «Ma stasera non gli darò scampo.»
Ernest si gratta il mento appuntito. «Non ci sarà lo spettacolo. Come pensi di parlargli?»
«Gli parlerò proprio perché non ci esibiremo» rispondo con un tono che sottintende l'ovvietà della mia intenzione. «Niente pubblico, niente scuse. Ma prima... andiamo a provare. Ho bisogno di una carica di endorfine adesso.»
«Oggi non possiamo provare sull'asta nella palestra del piano interrato, Layla» mi ferma prima che inizi a incamminarmi. «La zona degli specchi è interamente occupata.»
Inarco un sopracciglio. «Occupata da chi?»
Bass
Me ne sono andato.
Non riuscivo a restare in quell'hotel fingendo che non fosse successo nulla. Continuavo a ripensare alla gelosia di Melinda, al nostro litigio, a Layla, a quel bacio interrotto.
La sensazione delle sue labbra a pochi millimetri dalle mie mi tormentava e dovevo tentare di cancellare quell'immagine dalla testa.
Qui è tutto un disastro.
Un completo disastro.
Fortunatamente, avevo un appuntamento con il direttore di una casa di riposo a Chimki, un sobborgo a nord di Mosca, e ho trascorso lì l'inizio di questa mattinata. Stare con gli anziani mi infonde una pace impagabile e fare qualcosa di buono per loro, nel mio piccolo, mi fa sempre sentire meglio. Anche solo fargli compagnia.
Molti sono tristemente abbandonati, parcheggiati tra quelle mura dai parenti. Altri, invece, vivono affaticati dai loro acciacchi, afflitti dalla demenza senile o avvolti nella nebbia del morbo di Alzheimer e di altre malattie neuro-degenerative. Toccare con mano le loro fragilità mi ricorda che non si deve mai dare nulla per certo, nemmeno i ricordi, perché anche questi possono svanire poco a poco.
Mi sono seduto a giocare con loro, intavolando un semplice gioco di carte, il Durak, che sembra essere il preferito di molti russi. Le loro mani muovevano le carte con quel tipico tremolio della vecchiaia, ma c'era qualcosa di toccante nel loro impegno e nel cercare di aggrapparsi ai frammenti della loro temporanea lucidità.
Ad un certo punto una donna sulla novantina, con un casco di capelli bianchi, si è avvicinata e mi ha sorriso con uno sguardo dolce. Senza preavviso mi ha chiamato Misha, identificandomi come il marito che aveva perso tanti anni fa, ai tempi dell'Unione Sovietica.
Ho finto di essere lui. Volevo regalarle un attimo di felicità in cui potesse sentirsi di nuovo amata, come negli anni più luminosi della sua giovinezza.
Abbiamo ballato persino un lento. È stato bello. Per poco non mi sono commosso ascoltando le parole d'amore che mi rivolgeva. Qualcosa del tipo: "Gli amori eterni non sono quelli privi di imperfezioni, mio caro Misha, ma quelli che sbocciano e prosperano nonostante i loro difetti. Proprio come le rose, che vengono apprezzate e colte nonostante il gambo di spine."
E io ho pensato alle rose bianche, a quelle che rappresentano lei e il nostro vero primo giorno insieme, a Lione. Poi ho smesso di pensare alle rose, concentrandomi solo sul fatto che, nonostante mi fossi allontanato dal Carovana, Layla continuava a farsi strada nella mia mente, contro la mia volontà.
Più tardi, un altro anziano mi ha confuso per suo figlio, che non andava a trovarlo da quattro anni. Quattro. Non sapevo bene come reagire, ma ho sorriso e annuito, mentre un giovane che lavora lì mi traduceva e spiegava la situazione con pazienza.
Ora, seduto in un piccolo locale a sorseggiare un tè caldo, dovrei concentrarmi su quanto sono incredibilmente fortunato. Ho l'età dalla mia parte, la salute e tanta gente intorno a me che mi vuole bene.
Eppure... una macchia di insoddisfazione imbratta i miei respiri: quella di oggi sarebbe stata un'esperienza ancora più intensa se Layla fosse venuta con me. Perché, in fondo, anche se fatico ad ammetterlo, non desidero nulla al momento che non possa condividere con lei.
Ma pazienza. È così che va la vita a volte: ti offre una serie di occasioni meravigliose quando è ormai troppo tardi. E io devo resistere. Ho già una compagna, e Layla non merita di finire risucchiata nei miei casini.
Prima lei capisce che dobbiamo porci un freno, prima possiamo tornare a costruire un rapporto meno equivoco e meno stringente.
L'unico modo per riprendermi quella normalità che ormai sembra quasi irraggiungibile, è risultare un po' più freddo, anche se la sete che avverto di lei è implacabile.
Come ho potuto ridurmi così?
Sembro un ragazzino in piena tempesta ormonale, guidato solo dagli istinti più primitivi. Ma non è solo questo. C'è tutto il resto, di cui ora ho nostalgia.
Mi manca la sua voce invitante, i sorrisi all'aroma di rarità che mi rivolge, quella miriade di provocazioni che tramuta la mia timidezza in erezione e pantaloni più stretti.
Basta una sillaba appena sussurrata all'orecchio, un regalo trash, un burrocacao ai frutti tropicali applicato oltre il contorno delle labbra per mandare al diavolo la mia integrità.
Ha qualcosa di speciale oltre il visino da ingannatrice, forse quel carattere elettrico che neanche il dolore ha disattivato. Saprebbe mettere all'angolo chiunque. Saprebbe mettere me all'angolo, in ogni fottuta circostanza.
Io, che per lavoro sono abituato a volare, ho rischiato di precipitare sulle fattezze delicate di chi loda le mie ali. Affascinante è la caduta, infrangersi su quel concentrato di virtù che dal basso di un fossato di lutto e mancanze mi incendia con i suoi cazzo di roghi.
È probabile che Layla si stia facendo molte domande su di me adesso, sul perché io sia sparito dalla circolazione, e per questo mi sento in colpa, come se quella incantevole principessina non avesse già abbastanza preoccupazioni a carico.
Mi faccio schifo. Sempre di più.
Recupero il telefono che ho imboscato nella tasca del giubbotto e leggo l'anteprima di un messaggio ricevuto. È un suo messaggio.
Mi chiede se abbia bisogno di qualcosa, e quanto risulterebbe inopportuno scriverle che necessito di sapere come sia stringerla per delle ore sotto le coperte?
So cosa voglio in questo istante: il suo seno schiacciato contro il petto, le gambe divaricate intorno al mio bacino, la sua anima straziata custodita nell'incastro perfetto delle mie braccia solide, forti per lei. E altro, molto altro. Azioni che non corrispondono a parole, ma a una passione tutta da scoprirsi, con lingue, carezze e ormoni intenti a giocare tra loro su ogni centimetro di pelle. E chiederle poi come stia, se sia riuscito a farle sentire la fame di curarsi e di iniziare a vivere. Un sì come risposta e morirei di gioia sul suo bel collo.
Layla, piccola Layla...
Scusami per tutto.
Mi piace credere che l'incarnazione esista e che nella mia prossima vita avrò l'opportunità di incontrarla di nuovo. Le cose andrebbero meglio di come vanno adesso. Ne sono certo.
Il telefono squilla per l'arrivo di un nuovo messaggio. Lo leggo immediatamente.
OLIVER:
buongiornello Coniglietto.
Stasera? Festeggiamo?
Togli il punto interrogativo: festeggiamo. 😁
I migliori pasticceri del mondo stanno per uccidersi, lo sai? Non reggono il confronto con la torta al cioccolato che ti voglio preparare.
Ma c'è un problema.
In questi giorni non sono più andato a prendere Scarlett da scuola, ci è andato Ernest, credo, e ora non mi ridarà più il furgone.
Adesso come vado a comprare gli ingredienti?
Okay, niente cioccolato.
Ci metterò la senape. A più tardi.
Già, domani è il mio compleanno e per la prima volta in trentadue anni non ho voglia di festeggiare né di aspettare la mezzanotte.
In più, mmh... c'è qualcosa nel messaggio di Oliver che mi turba.
Clicco sulla conversazione di mia sorella, pronto a farle una bella ramanzina.
Scarlett
Stamattina non sono andata a scuola. Ho implorato mia madre di concedermi un giorno di tregua, spiegandole che il freddo, la neve e i nuovi ritmi mi hanno sfinita. Lei ha acconsentito, aggiungendo che i malesseri passano più in fretta se non ci si crogiola a letto. Peccato che non le abbia rivelato la vera ragione per cui ho bisogno di staccare: come posso affrontare una nuova giornata scolastica con quel gioiello nascosto nella tasca interna dello zaino?
Cavolo...
È lì, accanto agli occhiali da riposo, e la sua sola presenza mi rende inquieta.
Ho comunque seguito il consiglio di mia madre e ora mi ritrovo ancora qui, nella palestra al piano interrato dell'hotel, a finire di provare alcune variazioni della coreografia che intendo portare in scena domani, durante lo spettacolo.
Mentre sono concentrata sugli esercizi di defaticamento, però, il telefono squilla. La suoneria personalizzata – un nitrito di cavallo – mi fa capire subito che è mio fratello.
Che vorrà mai?
Mi precipito sulla panca piana per agguantarlo. Poi sblocco lo schermo con il codice 151291 e leggo.
BASS:
io, Bass Powell. Tua madre, Melinda Powell.
Adrian e Corinna Caine.
Morgan Potter e tutto il Powell Circus.
Layla U. (Non so scrivere il suo cognome)
Oliver Davis.
Anche Scorbuto Scorbuto. (Il suo cognome qual è?)
Bastaaaaaaaa. Non puoi fidarti di nessun altroooo!!!!
Perché hai accettato il suo passaggio?
Eravate soli?!?!
Mi fido di te, ma Ernest non lo conosco abbastanza!!!!
Ecco. C'era da aspettarselo. Mio fratello e quel suo odioso atteggiamento da investigatore. Non mi chiedo neppure come abbia fatto a scoprirlo né se sa che anche Lorenzo è venuto a prendermi. Ormai sono convinta che sia un suo potere nascosto. Da che ho memoria, ha sempre smascherato ogni mia marachella. È quasi un miracolo che in se dici anni io sia riuscita a tenere solo per me un unico grande segreto: la perdita della verginità. Se lo venisse a sapere, credo che sverrebbe. Mia madre, non ne parliamo.
Emetto qualche aspro verso prima di rispondere.
SCARLETT:
tu: Bass Esagerato Powell.
Io: Scarlett Incazzata Powell.
Sì, sono piuttosto infastidita.
Piantala, okay? Va tutto bene.
Piuttosto, dove sei finito?
Ah. Scorbuto ha il nostro cognome, è mio figlio.
Il regalo di Lorenzo, ora che ci penso, è un po' come la perdita della mia verginità: dovrei difenderlo con tutte le mie energie, rimanendo sempre all'erta, almeno finché non dovrò più dare spiegazioni a nessuno.
Anche se mi chiedo, però, chi è che me lo faccia fare. Perché nascondere le sue azioni e diventare complice di una spesa così ingente che neanche io stessa capisco fino in fondo?
Fluttuando nel limbo dei miei tormenti, avvertendo ora uno stranissimo senso di nausea, continuo a fissare il telefono, fino a che qualcuno non abbassa il maniglione della porta con il gomito e si addentra in palestra. Grazie al cielo, è Layla. Il suo sguardo si sofferma sui bilancieri che si profilano ai lati mentre si avvicina a me.
«Non ho mai sollevato un peso in vita mia, pensi che dovrei iniziare?» esordisce con una nota scherzosa, sedendosi a cavalcioni sulla panca. Il mio volto si sarà ombrato di preoccupazione, perché subito mi chiede: «Tutto bene?»
Non proprio.
Ma non ho tanta voglia di dirti la verità.
«Certo.»
Corruccia la bocca. «Mmh. Non ti credo, sai?»
Ecco. E ora? Che le dico?
«Okay sì, mi hai... come dire, beccata. Comincio a capire mio fratello, anche se per motivi diversi. Se potessi, abbandonerei la scuola» mento, scoccandole un'occhiata sfuggente.
«Quali sarebbero i tuoi motivi?»
Prima Bass, ora Layla.
Mi sarei aspettata di tutto oggi, tranne un interrogatorio.
«Sono stanca» rispondo con la prima cavolata che mi viene in testa. «Conciliare la scuola con il circo è più difficile di quanto pensassi.»
«Ci sono passata, lo so.» Mi sorride con comprensione. « Ma non devi pensarla così. Puoi affrontare tutto, soprattutto alla tua età.»
«Tutto?»
Anche il disagio causato da un regalo, Layla?
Annuisce. «Ogni sfida quotidiana può essere vinta. A volte ce lo dimentichiamo e ci lasciamo sopraffare. Altre volte, invece, ce lo ricordiamo e la spuntiamo, specie quando riponiamo fiducia in noi stessi e nelle nostre capacità. Lo diceva Namira.» Si pizzica le punte dei capelli color miele raggruppati in una coda bassa. «Io sono una di quelle che per molto tempo si è lasciata sopraffare. Qualcosa di me la sai già, e ti assicuro che non è piacevole somigliare a "Layla, la depressa".»
Queste parole mi colpiscono dritte al cuore. Penso a quanto possano aver lacrimato i suoi occhi dopo aver perso un bambino di soli tre anni. Layla è il prodotto finale di una vita schiava dell'afflizione e io dovrei attivarmi per combattere contro chi rovina le mie giornate.
«Voglio spuntarla» le dico.
«Ottimo.»
«E tu?» proseguo subito. «Può una sopraffatta come te vincere nuove sfide? Voglio sapere se ti è rimasta un pizzico di forza per combattere ancora.»
«È un grande punto interrogativo, adesso» risponde, stringendosi nelle spalle smagrite.
«Allora fai le tue domande a chi devi. Otterrai le risposte che cerchi.»
Si guarda intorno con aria circospetta per accertarsi che in palestra non ci sia nessuno. Quando ne è sicura, mi osserva quasi intimidita e si morde un labbro, come se stesse cercando il coraggio di parlare. «La domanda la pongo a te, allora.»
A me?
«Oh! Okay.»
Proprio a me.
«D'accordo, va bene.» Avverto i rivoli della responsabilità scorrermi lungo le vertebre.
«Sai se Bass abbia nel cuore qualcuna? Voglio dire, un'amica speciale, altre amiche speciali. Donne speciali, insomma. Te lo chiedo perché ci stiamo frequentando in quel senso – credo – e a volte mi sembra incostante, assente.»
Oh cavolo! Sììì!
È il mio sogno che si avvera: mio fratello si sta finalmente preparando ad abbandonare la famigerata isola degli scapoli d'oro.
Roba da farne un titolo sui giornali.
Sono così emozionata che vorrei emettere gridolini impazziti. Tuttavia, cerco di mantenere la calma coprendomi la bocca con le mani, anche se i miei occhi sbarrati manifestano sorpresa. E parlo, imbavagliata. «Ammetto che speravo in un "voi". Dopo la breve parentesi con Monica non ha più avuto una ragazza. Ma neppure Monica poteva definirsi così.»
«Chi cazzo è questa?» dice a denti stretti, con una punta di gelosia nella voce.
Rido divertita. «Roba del passato. Non credo neppure che facessero del sesso.»
«No?»
«Ma che ci importa?» Scopro la bocca del tutto. «Ora non c'è più e potresti cadere sul morbido... o sul duro, a seconda dei casi. Diamine, sembro Oliver!»
Layla ride con me, in modo più delicato. «E io che pensavo di correre un po' troppo. Tu sei davvero una centometrista, sorella.»
«Vuoi portartelo a letto, è così?» sussurro in visibilio, respirando quella forma di libertà da ogni tabù che si espande tutte le volte che parlo con lei.
«I miei peli sono chiari, ma passo la ceretta ovunque da settimane, ormai.» Assottiglia le palpebre. «Rendo chiaro il concetto?»
Inizio a saltellare sul posto. «Oddio, sì! Sì! Sì! Dovresti cacciare Claudine e Alizée dalla stanza e invitarlo a dormire da te! Immediatamente!»
Fa spallucce. «Letto, divano, sedia, ha davvero così tanta importanza? Da lui mi farei sbattere anche sulle pietre.»
Questa ragazza è uno spasso.
Il mio spasso.
Detono una risata simile a un allarme nucleare, catapultandomi su di lei e stringendola forte a me. «Dopo questa, ti pretendo come cognata.»
«Be', oddio, no. Piano...» biascica, chiusa nel mio abbraccio asfissiante.
«L'idea che possa aprirsi a una conoscenza mi rende felice. Bass ha tanto amore da dare. A pensare che fino a poco fa ero anche arrabbiata con lui.»
«Per cosa?»
«Nulla di cui valga la pena parlare in questo momento.»
È con il suo ex che devo parlare.
Non voglio che sia la mia sfida.
«Mi stavo chiedendo se più tardi ti andrebbe di venire con me a comprare del cioccolato» mi propone durante lo scioglimento della nostra affettuosità. «Non accetto che tuo fratello spenga le candeline su una torta di senape.»
Mi dice che Oliver ha organizzato un festino nella dépendance su benestare del suo coinquilino, Ernest. L'intenzione è quella di attendere insieme la mezzanotte, ma anche quella di trascorrere una serata diversa, dato che non ci sarà lo show.
«Ci vengo.»
Prima di recarmi al market con Layla, però, ho bisogno di liberarmi da ogni assillo. Poco dopo averla salutata, infatti, mi dirigo risoluta nel cortile delle dépendance, alla ricerca di quella di Lorenzo. La trovo e busso alla porta. Ho tra le mani il cofanetto con la collana e quando lui mi vede e lo scorge non riesce a mostrarsi felice o sorpreso. La fronte è fin troppo corrucciata, le labbra contratte.
Devo essere chiara, devo essere forte: solo così potrò trionfare. Le mie braccia si muovono in avanti e il pacchetto torna al suo legittimo proprietario.
«Non posso accettarlo. Perdonami.»
Indietreggio, sentendomi subito più leggera, proprio come ora è la tasca interna del mio zainetto scolastico.
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