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43 - Osare


Layla

Questo pomeriggio è dominato da un silenzio surreale. Il freddo si aggrappa a qualunque cosa e la città intera sembra annaspare sotto un soffice velo bianco. Mi muovo con cautela sulla neve, i miei stivaletti scricchiolano e questo è l'unico suono che riesco a rilevare in questo momento.

Nessuno attraversa il cortile delle dépendance.
Sono tutti rintanati nel tepore delle loro stanze, in attesa di dirigersi allo chapiteau per le prove e lo spettacolo.

Solo io sono fuori, a racco­gliere i panni lavati a mano che quel tontolone di Ollie ha lasciato stesi, dimenticandosi che siamo praticamente in inverno.

Mi ha chiamato poco fa per chiedermi di aiutarlo, visto che lui è in centro a fare la conoscenza di alcuni "pezzi grossi" di Mosca.

Pezzi grossi o uccelli grossi?
Questo non l'ho mica capito.

Disincastro le mollette che fissano le sue maglie termiche al filo, mentre la mia mente si proietta in avanti, già concentrata sull'idea di portarle in hotel e asciugarle con il mio phon. Improvvisamente, però, il rimbombo di una doman­da mi coglie di sorpresa: «È così che si fa adesso, giusto?»

Trasalisco, il cuore mi balza in gola.
Mi giro di scatto.
Ovviamente è lui, Lorenzo.

La sua voce è inconfon­dibile, fastidiosa come il ronzio di una merda di zanzara. Indossa un voluminoso giubbotto di piume che gli arriva fino a metà coscia. Il colletto alto gli copre parte del viso, mentre la sua chioma lunga e mossa si intra­vede appena, spuntando disordinata da sotto il bordo del cappuccio.

«Sei sempre una voce fuori dal coro» sbraito. «Perché non sei a ripararti dal freddo come tutti gli altri? Ti ri­cordo che poco fa c'è stata una bufera di neve.»

«Avevo un'impellenza.»

«Quella di conficcarmi una spada nella nuca, immagino.»

Si avvicina a me e la sua bocca si curva in un sorriso velenoso, che sa di disprezzo e rabbia. «Che ti sei messa in testa, Layla? Hai trovato un modo tutto tuo per farmi abbandonare il tavolo dei giochi?»

Gli rivolgo uno sguardo dolce, sbattendo le ciglia con teatralità per un momento. «Oh, amore mio. Vuoi davvero sapere cos'ho in testa? Un mucchio di pensieri in cui tu non compari mai.»

Mi affretto a raccogliere il bucato stringendolo contro il petto, pronta a portarlo via con me. Ma per ogni due passi che faccio, lui ne compie uno, tallonandomi come se fosse il mio fantasma.


«E la comunella con Melinda, allora?» ribatte e posso udire il sarcasmo che gocciola dalle sue parole. «Cosa credi di ottenere? Pensi davvero che alleandoti con i capi riuscirai ad affascinare Dubois tanto da fargli scri­vere il tuo nome nel testamento?»

La sua intonazione si fa più collerica mentre allunga una mano e fa cadere alcuni dei vestiti per terra, con l'evidente desiderio di rallentarmi e irritarmi.

Non mi fermo, non strepito, anche se mi ribolle il sangue. Non voglio dargli la soddisfazione di una reazione. Il suo gioco è chiaro, ma non sono più disposta a lasciarglielo vincere.

«Questo è ciò che faresti tu» lo rimbecco, indietreggiando per proteggermi.

«Di cosa parlate tu e Melinda, mh?»

«Di cose nostre.»

«Oh sì: di Sebastian Powell, giusto?» mi schernisce, inclinando il capo su un lato. «L'hai già stupito con le tue ineguagliabili doti da prostituta? Chissà che non ti dia un altro figlio da tort...»

«Taci!» ringhio, furibonda.

I suoi occhi si dilatano fino a uscire dalle orbite. «Sei una puttana!»

«Quando cazzo muori tu? Quando?»

«Vuoi la guerra? E guerra sia. Ti monitorerò» dichiara minaccioso e le mie pupille divergono dalla sua nau­seabonda figura. «Finiamo col diventare ciò che desideriamo, se ci crediamo davvero. Ci vuole ossessione, compulsione, e io ce le ho. Il Carovana sarà mio.»

«Prenditelo, ingordo vanaglorioso, è tutto tuo!» replico, senza nemmeno cercare di abbassare il volume della voce. Sono le ultime parole che gli rivolgo prima di afferrare tutti i vestiti di Ollie e allontanarmi a passo spe­dito verso la reception.

Quando rientro in camera, scaravento il bucato per terra e, in preda a un incandescente nervosismo, mi sfilo il cappotto trascinando via anche il cardigan di lana.

Lorenzo, con quella sua bocca putrida, si è permesso di dire che ho torturato il nostro bambino ed è una frase che ora fatico a sopportare. Mi colpisce sem­pre lì, nel punto di epidermide dove c'è una ferita che non smette di sanguinare. Bastardo.

Con le mani a trattenere la testa, mi dirigo davanti allo specchio a muro, posizionato vicino alla scrivania dove c'è il bollitore. Esamino il mio addome attraverso la maglietta. È troppo gonfio.

Ecco, ci mancava solo questo.
Che stia mettendo su dell'altro peso?

Eppure non sto mangiando un granché. Forse è colpa dell'ingente quantitativo di alcol che sto assumendo in queste settimane. Sì, è per forza così. I continui aperitivi con Me­linda cominciano a mutare la mia figura e credo che per un po' dovrei smetterla con la birra, e con il vino, e con la vodka.

Qualcuno bussa alla mia porta con insistenza. «Zuccherino, sono io. Mi apri?»

Queste sono strane congiunzioni astrali: sto per incontrare la persona a cui stavo pensando proprio in questo frangente. Mi sistemo la maglia sui fianchi e mi avvio ad accogliere Melinda.

Quando incrocio il suo sguardo sereno le sorrido cordialmente, anche se, dopo gli indelicati riferimenti al mio bambino fatti ieri, al ristorante geor­giano, preferirei non passare così tanto tempo con lei. Sembra che qualcosa l'abbia infastidita ma non capisco cosa.

«Posso entrare?» La sua voce è brillante, proprio come i riflessi delle bottiglie di vetro che fa vibrare tra noi.

È pur sempre il mio capo e anche se poco fa mi ero ripromessa di smetterla con l'alcol, devo ammettere che ho la gola secca. Una birretta non mi farebbe male, specialmente dopo il battibecco con Lorenzo.

«Accomo­dati» rispondo. Le do del tu perché è stata lei a chiedermi di abbandonare le formalità.

Sedute davanti alla scrivania, con le birre già stappate, bevo a grandi sorsi mentre Melinda preferisce osser­varmi, sciabordandola con un lento movimento della mano. Poi, con fare leggero, imbastisce un dialogo. «Me ne assumo la responsabilità, sì.»

«Di cosa?» domando, confusa.

«Delle tue ferite. Immagino di averne riaperta una, ieri, al Tkemali.»

Ancora.
Un'altra volta.


Se farà un nuovo riferimento al mio bambino, giuro che urlerò, correndo per tutto il secondo piano come una pazza squinternata.

«Sono madre, posso comprenderti. Parlare di un figlio che non c'è più non deve essere facile, come non lo è rivangare vicende legate a un amore perduto, se le cose sono finite nel peggiore dei modi.» Accavalla le gambe con eleganza e lo spacco della gonna si apre, rivelando una coscia liscia e muscolosa. «Non so per­ché sia finita, l'ho solo immaginato, ma sento che ci sono ancora delle questioni irrisolte tra voi.»

Ingoio il liquido ambrato, poi appoggio la bottiglia fredda sulla scrivania. «Lorenzo è una pagina nera di un libro nero.»

Lei annuisce. «Capisco.»

«E quel libro nero si colloca su uno scaffale nero in una libreria altrettanto nera.»

«Ti ha fatto del male?»

«Lui è il male» puntualizzo, senza più battere ciglio.

Melinda distoglie lo sguardo e si porta la birra alla bocca, bagnandosi le labbra. «Chi di noi non ha il ger­me del male, zuccherino?»

Butto giù un altro sorso d'oro liquido, senza alcuna grazia. Due gocce d'alcol mi scivolano lungo il mento. Le asciugo malamente con il polso.

«È quello che penso di me stessa, e di tutti» riprende. «Produciamo continui danni, grandi o piccoli che siano; volontari o involontari; a nostro discapito o a discapito degli altri. Questo fa di noi un covo di nocività di diverso gra­do.»

«Ma ho le mie speranze.» La fisso e noto un guizzo negli occhi di Melinda. «Bass mi rende ottimista.»

«Bass...» ripete lentamente, il viso quasi sbianca al suono del suo nome.

«Te ne prendi cura da quando era poco più che ventenne, giusto?» chiedo, curiosa.

«Sì, è così.»

Sorrido appena. «Penso che tu abbia fatto un ottimo lavoro con lui, come con Scarlett.»

«Grazie, zuccherino.»

«È lui il motivo dei miei sorrisi, ultimamente.»

«A-addirittura.» Le sue gambe si sciolgono e il suo respiro diventa improvvisamente più affannoso.

«E per me non è facile lasciarmi andare. Pensavo di non averne bisogno, dico, di rallegrarmi. Namira di­ceva spesso: "È quando non hai niente che ti accorgi di ciò che veramente ti basta per andare avanti". E io...» I palpiti del mio cuore sono così intensi da far vibrare ogni cellula del mio corpo. «Non ho niente da tempo, Melinda, ma ho incontrato tuo figlio e mi basta un capolavoro di carta per sentire di possedere qualcosa di prezioso. Qualcosa che mi fa dire: oggi, forse, posso andare avanti nonostante tutto. Nonostante i miei pensieri, i miei tristi desideri, il mio dolore.»

Mi alzo e mi avvicino al comodino. Apro un cassetto e prendo il dono offertomi da quel capo un po' troppo speciale per me. Mi volto e il mento si solleva verso l'origami che cullo tra i palmi come un antico monile. «Mi aveva chiesto di dargli un nome, così l'ho chiamato Éclair in onore dei dolcetti che mi ha offerto a Lio­ne.»

Mi avvicino e le porgo l'uccellino. Dopo averlo ricevuto, legge rapidamente ciò che è scritto sulle ali, poi lo sistema vicino alle bottiglie e si drizza sulle gambe.

«Mia figlia ha ragione, zuccherino: siete davvero carini» mi dice, con le labbra un po' livide.


Pochi minuti dopo lascia la stanza e io torno a bere la mia birra, senza distogliere lo sguardo dall'origami. Sembra quasi che stia ammirando lui.


È da un po' che non passiamo del tempo insieme, da soli.

Credo che stia per compierne un'altra delle mie: più tardi gli manderò un messaggio.


Bass

Gioco sul soffitto, manovrando i tessuti aerei colorati di un rosso vivo, proprio come li ho richiesti per l'esibizione di questa sera. Il cerchio a cui avvinghiarmi è poco più in basso e mi preparo a tuffarmici, srotolandomi dalle sete.

Le mie gambe impolverate dalla pece si spingono con forza e i tendini si ancorano alla circonferenza sospesa nell'aria.

La scenografia è spaziale: sono state instal­late delle colonne greche ai perimetri della pista e tanta altra roba in pietra che non saprei descrivere. Chase Atlantic echeggia per la pista vuota. Nulla più di Slow Down potrebbe accompagnare così bene le mie movenze.

E quasi la canto anch'io, nella mente.

Con la testa capovolta, a strapiombo nel vuoto e sostenuta solo dall'incastro delle ginocchia all'utensile magi­co, volteggio a un tipo di folle velocità che stasera sorprenderà il pubblico. Pregusto gli applausi.


Come dedotto dalle parole di Lorenzo, gli artisti del Fleurs incarnano tutto ciò che desiderano essere, senza imporsi dei limiti artistici. Anch'io credo di voler diventare qualcosa di nuovo e migliore, nonostante l'inadeguatezza mi privi spesso, anche adesso, della determinazione.

Mi piacerebbe essere più incisivo.
Mi piacerebbe essere utile.
Mi piacerebbe essere un erogatore di sola energia positiva per loro, per i nostri dipendenti. Per il circo. Per chi ne ha bisogno.

In questo preciso istante, desidererei persino essere un proprietario stimabile, nonostante una parte di me, sentendosi incapace, rifugga ancora dalle responsabilità. Mi vergogno quasi a pensarlo. Sarà che la nascita del Carovana ha un so che di miracoloso e mi avrà smosso qualcosa dentro.

Da quando ho saputo che la gravidanza di Corinna procede a gonfie vele, poi, sono diventato matto. Credo che... boh, vorrei essere anche molto di più, ma non mi permetto nemmeno di ripeterlo nella mente visto che, data la mia situazione sentimentale, non accadrà mai.

Sono rassegnato all'idea che non diventerò mai quel tipo di uomo, sia chiaro. Però ci sono delle volte in cui mi ritrovo a caricarmi di continui "Chissà come sarebbe stato se..." e a immaginarmi circondato di bambini che mi corrono incontro chiamando­mi papà.

Magari in un'altra vita, idiota.
Nella prossima.

Il volo coreografico, intessuto di così tanti pensieri, viene interrotto da Melinda e dalla sua improvvisata. Dal basso, mi ordina di scendere immediatamente. La musica continua a suonare alta, ma l'orizzonte di quel futu­ro irrealizzabile svanisce, precipitando con me.

Le piante callose dei miei piedi toccano il pavimento della pista e, avvicinandomi alla mia compagna, capisco dalla sua smorfia contratta che sia piuttosto incazzata. Mi chiedo cosa ci faccia qui, dato che l'arrivo degli artisti è previsto tra mezz'ora.

«Che succede?» le chiedo.

Non ricevo una risposta, ma una mano che si alza e mi colpisce in pieno viso.

Cazzo.

Melinda mi ha appena schiaffeggiato e non ne capisco il motivo. Il lieve bruciore che avverto alla guancia e i suoi ringhi di sforzo si contrappongono alla musica vibrante.

«Mi viene voglia di pestarti a sangue e di toglierti dal mondo» gracida, mentre inizia a scagliare sul mio petto nudo uno sciame di pugni violenti. «Cosa fai con lei, eh?»

«Lei chi?» Allargo gli occhi e subito mi preoccupo di bloccarle i polsi con una presa serrata.

«La lituana!»

«Niente» esclamo di getto. «Non faccio a-assolutamente niente.»

«Ora hai imparato anche a mentirmi» urla. «Te la sei scopata?»

La scuoto, cercando di farla ragionare. «Io non mi s-scopo nessuno. Passiamo solo del tempo insieme, tutto qui.»

«E perché non dirmelo?»

«C-c-cosa c'è da dire? Non ti ho mai fatto il resoconto dei miei amici. Qui siamo tutti amici! Anzi, una fami­glia!» Alzo il tono, tentando di frenare i suoi attacchi, ma lei riesce a divincolarsi, retrocedendo di qualche passo per poi darmi le spalle.

«D'ora in poi dovrai dirmi con chi ti rapporti. E se non me lo dirai ti farò a pezzi.»

Siamo ufficialmente ai limiti della follia.

Spalanco le braccia, incredulo. «Cioè? Dovrei a-a-avvisarti se deci­do di passare del tempo con Oliver, con Lorenzo? E con Corinna? E con Bob? Di tutto q-questo non ti è mai importato!»

«Ma Layla rappresenta una minaccia: è una donna, è single, è persino una mangiafuoco, e... e tu sei attraente. Sorride solo grazie a te, mi ha confidato poco fa.»

Solo grazie a me.

Una decina di fottute scariche elettriche mi attraversano la spina dorsa­le, mentre mi esprimo una ghignata delusa, scostando i ciuffi lisci su una tempia. «So che stai pensando a quello che è s-s-successo anni fa con Monica. Lei era i-innamorata di me, ma io l'ho respinta. E sai perché? Perché ero innamorato di te.»

«Lo so!» replica. «So che l'hai rifiutata, c'ero.»

«E q-quindi? Ora? Cosa c'è di diverso?» Mi avvicino di qualche passo. «Puoi guardarmi mentre ti p-parlo, per piacere?»

Le sue spalle si alzano e si abbassano, segno che stia piangendo in silenzio. «Gli origami, Bastian» mugugna, girandosi come le ho chiesto. Due lacrime scivolano lungo le sue guance e io non so cosa provo, se pena, dispiacere o entrambe le cose. «A Monica non avevi mai regalato una tua creazione.»

«Cosa s-stai insinuando?»

«Per te la Urbonaitė è molto di più.»

Mi si blocca il respiro, ma tento di rispondere. «È s-solo un po' di carta, Mel.»

«Attento.» Mi punta il dito contro. «Stai svalutando ciò che hai sempre spacciato per arte e che mi hai sem­pre offerto come dono d'amore.»

«Vogliano parlare del loro v-valore? Okay» ribatto. «Dove li c-conservi? Dove sono tutti gli origami che ti ho regalato negli anni?»

«Non deviare il discorso!» mi rimbecca, lanciandomi un'occhiata sofferente. «Adori scoprire le città, e mi va bene. Ma ti chiedo di uscire con Davis o con Fabbri. Che quella fiamma vivente faccia la turista in solitaria.»

«È assurdo.» Assurdo tanto quanto l'appagamento che divampa in me all'idea che Layla mi attribuisca il merito del suo sollievo, tanto da non riuscire a tenerlo per sé. Lo racconta in giro, persino a Melinda e chissà a chi al­tro. Il suo sorriso ora rappresenta un'enorme responsabilità.

Un momento.
E se cominciasse a dipendere da me?

«È assurdo che voglia proteggere noi?» mi chiede.

«Assurdo potrebbe e-essere il modo in cui vorrai proteggere quel "noi" d'ora in poi. C-che ti inventerai, mh?»

«Ti controllerò. Non avrai un minimo di privacy.»

Rido beffardo, negando con la testa. «No, non puoi c-controllarmi. Non è umanamente c-corretto.»

«Ti ricordo che sei anche mio figlio, quindi potrei cominciare a fare la madre attenta» replica, prima di incamminarsi verso il portone d'uscita.

«Non sono tuo figlio!» mi spolmono, cercando di farmi sentire, ma le mie parole si perdono nel vuoto.

Ner­voso, torno al cerchio, ma non ho più voglia di provare la coreografia. Mi siedo per terra, incrociando le gambe al centro della pista. Mi compro il viso con le dita graffiate.

Nel frattempo, da un seggiolino in tribuna il mio telefono squilla portando con sé sicuramente un messag­gio.

Mi alzo e vado a leggerlo.

LAYLA:
una passeggiata in Piazza Rossa. Andiamo a vedere il mausoleo di Lenin.
Ti va? 😘 🍌

Mi va. Tanto. È proprio ciò che migliorerebbe la mia giornata dopo quello che è successo, ma il richiamo al rispetto che la mia compagna esige, insieme alla comprensione dei suoi timori – compresa la gelosia – mi fanno esitare. In più, Layla si sta legando a me e mai come ora ho paura di illuderla. Se la vedessi piangere per me, non so come potrei reagire. Di certo, non me lo perdonerei mai. E forse compirei persino un gesto effera­to nei miei confronti.

È necessaria una risposta secca, anche se ciò che sto per scriverle non è affatto quello che le direi in questo momento.

BASS:
facciamo un'altra volta, okay?
Scusami, piccola.

Bass

Quanto stracazzo mi sono pentito.

Pentito di averle mandato quel messaggio; pentito di non essermi concesso un pomeriggio in sua compagnia; pentito perché indietro non si può tornare e perché credo che Layla ci sia rimasta male.

Stasera, prima dello spettacolo, mi rivolgeva occhiate o sfuggenti o gelide. Poi, per caso, ci siamo ritrovati vicini e mi ha chiesto con un filo di voce se fossi sicuro di stare bene. Ho risposto con un "sì" stringato, an­che se la verità ha un'argomentazione più ampia: sto bene, fintanto che non ricordo di essere un vincolato.

Perché con lei non posso uscire, né intensificare alcun legame per via dei fraintendimenti che po­trebbero nascere.
E che fastidio, che sofferenza...

Qualche ora fa lo stavo accettando, ora no.

Sono fatto così purtroppo, cambio idea ogni cinque minuti. Col­pa dei deficit cognitivi mai diagnosticati? Boh, forse. Nel dubbio, attribuisco le colpe sempre a loro. Mi fan­no comodo, almeno.

Mi giro e rigiro nel letto, pensando che quello schiaffo, forse, me lo sono meritato dopo tutti i piccoli pensie­ri impuri che ho costruito su Layla in questi mesi.

È vero che si tradisce con il corpo, ma le menti non sono da meno. La lussuria è lussuria, anche se a consumarla è solo l'immaginazione.

Poco fa Melinda mi ha chie­sto scusa per essere stata molto violenta con me, ma io non ho avuto il coraggio di scusarmi per aver desiderato, in più di un'occasione, che Layla si sedesse sulle mie gambe in un modo tutt'altro che innocente.

Faccio cagare per questo. Sono un viscido. Eppure, sento che non mi sto ascoltando.

L'ultima volta che mi sono lanciato con coraggio nelle voragini di un rischio che reputavo il riflesso della mia volontà risale all'inizio della mia relazione con Melinda. Le consegnai un sentimento sicuramente troppo grande per me, visto che all'epoca ero troppo piccolo e immaturo per gestirlo. Nonostante fosse ingovernabi­le, però, l'ho accolto nel mio cuore, andando per anni oltre ogni limite della mia sopportazione. Perché non è stato semplice intrattenere una storia con la moglie di mio padre ed evitare che tutti la scoprissero. Quanto ho lavorato per proteggerla e alimentarla. Quanto ho pagato.

Ma stanotte? Perché nonostante quelle fatiche rimugino su un'altra donna? Perché sono dispiaciu­to al punto da vedere Layla come un conto in sospeso?

È forse per questo che non riesco a dormire. Perché, anche se non voglio illuderla, voglio sapere che sta bene, che non l'ho ferita e perché voglio cocciutamente vivermela per quel poco che ci è consentito.

Il mausoleo di Lenin... di quel coso non me ne fotte nulla, ma so che sarebbe stato interessante vederlo se lei, con il suo pungente sarcasmo a portata di lentiggini e la battutina sempre pronta, fosse stata al mio fianco.

Non mi sono ascoltato e devo rimediare.
Per me. Ma soprattutto per lei.

Layla dorme sul mio stesso piano, in fondo al corridoio. Condivide la camera con Claudine e Alizée, che questa notte sono andate a fare baldoria con altri colleghi del circo. Melinda e Scarlett sono nel mondo dei sogni già da un pezzo, nella loro stanza. Dinamiche perfette per fare quello che voglio fare.

Senza lasciarmi bloccare dalle remore, mi libero delle coperte e mi alzo in piedi. Lo faccio così velocemente che per poco non perdo l'equilibrio. Mi avvicino all'armadio, infilo le scarpe da ginnastica di tela, afferro la felpa e la indosso. Poi, con il cuore che esegue qualche strana evoluzione aerea nel petto, mi dirigo inciam­pando come al mio solito verso il mio rischio più grande.

Mentre mi incammino lungo il corridoio, controllo l'orario sul mio iPhone: è passata da poco la mezzanotte. La mia visita risulterà inopportuna e capirei se decidesse di non aprirmi.

Busso con due colpi decisi, ma non troppo forti. Non ricevo risposta. Sto per indietreggiare e andarmene con la coda tra le gambe, quando, quasi per miracolo, sento i cardini cigolare. Mi fermo sul posto mentre la porta si apre lentamente, rivelando il suo volto che, da assonnato, passa a un'espressione sorpresa.

Affina la vista, come se non potesse credere che ci sia proprio io davanti a lei, e stringe il laccio della vesta­glia lucida color pesco intorno alla vita. Gesù, è un po' trasparente, e mi chiedo da quando va a dormire come se dovesse girare uno spot per Victoria's Secret. Non era lei quella dei pigiamoni tessuti tutti d'un pezzo?

Meglio concentrarmi sulle sue narici. Le nari­ci di una donna non hanno mai fatto esplodere il cazzo a nessuno, vero?

«Che ci fai qui?» mi chiede con voce rauca.

Poggio la mano fasciata dalle garze sulla porta, avvicinandomi al suo corpo più del dovuto. «Il m-messaggio: non era mia intenzione dirti di no. Quel mausoleo, io, v-volevo vederlo. Sono un cretino, ma un c-cretino che non vuole più cretineggiare. Con te n-non ho mai voglia di rimandare.»

Lei sospira appena, guardandomi con maggiore intensità. «Non rimandiamo, allora.»

«È troppo t-tardi per uscire a passeggiare. O ti va? P-p-pppppppperché, se ti va, io sì, io passeggio.» Indico la via che porta all'ascensore. Mai stato impacciato come stanotte. Che qualcuno mi dia una medaglia olimpio­nica.

Layla gira la testa verso l'interno della sua stanza e poi posa ancora lo sguardo su di me, esprimendosi in un sorriso colorato di lieve furbizia. «Vuoi entrare?»

La ragione mi dice di non cadere nel suo tranello demoniaco.

Ma il resto? Che dice?

Di andarmene all'inferno.

Chiudo la porta alle mie spalle mentre Layla accende l'illuminazione principale, proveniente da un lampada­rio di vetro opaco con una struttura in ferro, che pende al centro del soffitto. La sua luce si aggiunge a quella più tenue dell'abat-jour, creando un'atmosfera accecante. Sin da bambino ho sempre detestato le luci forti, perché quando mi vergogno arrossisco su guance, collo e parte del petto, e non sopporto che gli altri se ne accorgano. Con un chiarore così prepotente, infatti, non si può nascondere nulla, neppure le emozioni. Mi fa venire un po' d'ansia.

Per distrarmi, do un'occhiata alla sua stanza, che sembra essere messa un po' peggio della mia. Gli arredi sono datati, con mobili di legno scuro, tende pesanti color ruggine e una moquette spes­sa. Un grande specchio appeso alla parete riflette i nostri profili, mentre sulla scrivania noto un vasetto di yo­gurt alla fragola, mezzo pieno. Dev'essere stata la sua cena, ma evito di farle domande sul cibo perché non voglio infastidirla a quest'ora.

«S-stavi dormendo? Quali sogni ho interrotto?» le chiedo, piuttosto.

«Non sogno, io. Il mio è sempre un riposo leggero, specie dopo che ci esibiamo. È come se trattenessi in me tutta l'adrenalina. Poi si dissolve al mattino seguente, donandomi le occhiaie.» Si abbassa sulle ginocchia da­vanti al minifrigo, che apre con un movimento lento. Dentro non c'è quasi nulla, solo una bottiglia. «Vuoi qualcosa da bere? Ho dello champagne.»

«Sono astemio, forse n-non te l'ho mai detto» rivelo.

Mi guarda stralunata, come se avessi appena pronunciato l'assurdità del secolo. «E... perché sei astemio?»

«Perché la mia vita è già p-precaria e credo che l'alcol sia la via più veloce per mandare tutto a puttane. Non p-posso lasciarmi andare. Ho bisogno di avere t-tutto sotto controllo.»

Allarga le palpebre. «Sul serio?»

Okay, non voglio prenderla in giro. Meglio essere sinceri, anche se mi vergogno da morire.

Mi gratto una tempia. «No.»

Le sfugge un risolino ancor prima che possa continuare. «No?»

«La verità è che s-sono un cazzo di bambino, eheh. Odio i sapori a-amari e amo le caramelle. L'alcol è amaro, quindi...» Mi stringo nelle spalle, un po' sconsolato. Il mio rude sex appeal da uomo cavernicolo è andato a farsi benedire.

«I bambini sono le uniche perle preziose che abbelliscono il mondo» risponde. «Non devi preoccuparti se la tua mente è rimasta all'infanzia. Anzi, non perdere mai quell'incanto che profuma di magia e semplicità, per­ché noi adulti, con le nostre pretese complicate, siamo tutti così tristi.»

Va bene piccola, se ti piaccio così immagina pure che abbia sette anni.

Mi rompo anche qualche dente per sembrare che mi siano appena caduti quelli da latte, se questo può farti sorridere nei prossimi secoli così come stai sorridendo ora.

Mi scopro affascinato dalle mille cianfrusaglie da bazar che vedo sul suo comodino: libri, collanine in caucciù, orecchini, smalti satinati, una piccola maschera africana e una candela profumata al cedro in un va­setto di vetro. Credo sia un'accumulatrice seriale.

«E comunque, siamo l'opposto: alla tua sobrietà, rispondo con il mio alito da ubriacona» ironizza, afferrando la bottiglia per il collo ghiacciato e rialzandosi in piedi. Il modo in cui si definisce basta per catturare tutta la mia attenzione. La fisso ancora, valutando velocemente la mia prossima mossa.

Sì. L'ho scelta. Vado.

Mi avvicino a lei, consapevole di sentirmi un intruso, ma con la sicurezza di chi sa di essere qualcosa di più di un semplice conoscente. «Posso?»

I nervi del suo collo slanciato si tendono. «Cosa?»

«È notte fonda, e q-questo ti farà male.» Mi impadronisco della bottiglia e la ripongo nel minifrigo, lasciandola a raffreddarsi.

Layla non si oppone. Mi chiede piuttosto se mi va una tisana alla melissa, nonostante non abbia mai acceso il bollitore della stanza. Mi assicura che non la correggerà con lo champagne, e io sorrido, dicendole che questa garanzia mi sprona ad accettare.

«So che Ollie ti ha già dato il suo regalo di compleanno» riprende, intenta a riscaldare l'acqua.

Io, nel frattempo, mi siedo su una poltrona accanto alla finestra, vicino ai letti a castello delle gemelle contor­sioniste.

«Ci a-a-abbiamo giocato così tanto che penso di impugnare una racchetta anche adesso» rispondo, mentre mi guardo riflesso a figura intera nello specchio.

Horror! Sembro uno scappato di casa.

Indosso un serioso pigiama a rombi bordeaux, uno di quelli da imprenditore ultra cinquantenne in vacanza su uno yacht di lus­so, con su la felpa del Liverpool messa al contrario. Gesù, si vedono le cuciture. Il cappuccio, appallottolato sotto la nuca, mi fa curvare la schiena come se avessi la gobba, e le scarpe, sopra le calze in spugna, rendono le mie caviglie simili a due bratwurst tedeschi.

È un look privo di stile, un vero e proprio "a morte la Fashion Week", che corrisponde al mio totale rifiuto all'ordine e al desiderio impulsivo di vederla quanto prima.

Ep­pure, in questo preciso istante, Layla mi guarda come se non avesse visto nessuno più gradevole di me. Mi chiedo che male abbia fatto questa ragazza per non avere uno standard più alto e pretenzioso in fatto di uomi­ni. Okay, "Non è bello ciò che è bello, è bello che piace", ma io sono un topo. Fine. Punto.

Purtroppo, per qualche inconcepibile ingiustizia, non ha mai incontrato nulla che si avvicinasse, nemmeno vagamente, al grado di perfezione che lei stessa rappresenta. Altrimenti dubito che mi ammirerebbe in questo modo.

Ma accadrà, Layla: arriverà uno stallone super intelligente, raffinato e carismatico che ti farà perdere la te­sta, perché le cose belle capitano. Ricordalo.

«Potrei copiarlo, visto che sei qui.»

«Copiarlo? Cioè?» chiedo.

Si mordicchia un labbro. «Con il regalo in anticipo. Il mio. Lo vuoi?»

Mmh. Se apro anche questo adesso, che cazzo scarterò il 15 dicembre? «Be'...»

«Lo voglio io» ma conclude, in tono deciso. «Allungati e apri il cassetto che vedi sotto lo scaffale. Non l'ho confezionato, ma capirai subito che è per te.»

E come faccio a dirle di no se sposta le punte dei capelli color grano su una spalla con un movimento così sensuale che il mio corpo reagisce all'istante scoppiettando al ritmo di una musichetta porno?

Eseguo il suo ordine e apro il cassetto. All'interno trovo qualcosa di eccessiva­mente rosso e troppo natalizio per non essere notato. Non riesco a credere che lo abbia fatto davvero, e il ca­lore mi sale alle guance mentre lei sfodera un sorriso provocatorio. È chiaro che si sta divertendo a mettermi a disagio.

Che bella stronzetta che sei.

Sollevo lo slip, con il cartellino ancora attaccato, e fisso inebetito l'omino di pan di zenzero stampato al cen­tro del cotone elasticizzato.

Layla si avvicina lentamente, pronta a darmi spiegazioni. «Volevo prenderti un paio di boxer, ma al negozio erano rimaste solo le small e... non so. Mi sembravano piccoli per te. Non ho idea di cosa usi, né se ti piacciono gli intimi natalizi. So solo che...»

«I mutandoni-Jingle Bells da superdotati mi p-piacciono, non p-p-preoccuparti» le dico, sperando che non scenda nei dettagli.

«Hai visto?» mi sussurra più languida, sedendosi sul bracciolo della poltrona. Un suo ginocchio nudo sfiora il mio gomito e io mi irrigidisco per un istante. Subito accarezza il tessuto dell'intimo che trattengo con una nervosa pressione dei polpastrelli. Si stringe al mio orecchio in ascolto e il suo respiro trova rifugio sul mio lobo. «Ha il mollettone glitterato.»

«Ho... ho visto» bisbiglio, concentrato su quanto il suo fiato possa essere caldo. Bollente. Afa estiva. Fuoco puro. «È allegro.»

«Come te» ribatte con un mugugno sottile. «Lo indosserai?»

«A... a Na-atale, sì.»

Avrei bisogno di una bombola d'ossigeno, grazie. Chi me la consegna? Neanche Cristo, suppongo, perché lui è il primo a guardarmi e a farsi grasse risate da quando sono nato.

I suoi capelli mi solleticano una parte del viso. Sono molto lunghi e divisi da una riga centrale. Talmente setosi da volerci passare le mani per condurli sino alla nuca e fare una coda con un nodo composto dalle sole dita. Una coda, esatto. Un modo ultra fashion per manovrarle il viso fin lì giù, laddove il mio amichetto buontem­pone sta lievemente scalpitando nei pantaloni del pigiama. Dannazione. È una follia. Un'eccitante follia che non dovrei costruire. Ho già una donna che, quelle rare – rarissime, quasi nulle – volte che è ben disposta, mi soddisfa e alla quale già faccio da parrucchiere personale.

Vista la vicinanza mi impongo di non ruotare del tutto la faccia in sua direzione. Finiremmo male. Lei fini­rebbe male, dopo averla baciata fino a lasciarla in affanno. Non sono venuto qui per questo.

«Piccola?» eppure la richiamo per chiederle qualcosa che non dovrei chiederle.

Posa la punta del naso sulla mia guancia, strofinandola sui bulbi della mia barbetta. «Mh?»

«Tu n-non mi immagini con questo coso addosso, vero?»

«Se dico di sì, che fai? Urli e ti dimeni andando a dire in giro che Layla Urbonaitė ti ha scandalizzato?»

«No, p-perché non saprei pronunciare il tuo cognome.»

«Perché non te lo provi?» propone, dopo essersi lasciata andare a una breve risata. «Puoi andare in bagno e io potrei...»

«Potresti?» Ingoio il nulla. Ingoio ancora. E ancora. E ancora.

«Raggiungerti, dopo. Per vedere come ti sta ed evitare di limitarmi soltanto a immaginarti in futuro.»

Manca poco e qui mi si gonfia tutto. «Piccola?»

«Mh?»

Mi faccio coraggio. «Puoi s-smetterla adesso di indurmi in t-tentazione?»


«Solo se mi dai una spiegazione plausibile al perché debba farlo.»

«Sinceramente? Non scopo da un po'» rispondo, a bruciapelo. «Quanto è p-plausibile da u-uno a dieci secondo il tuo sacro e venerabile g-giudizio?»

Inizia ad accarezzarmi la spalla, sotto il cappuccio risvoltato. «Io non scopo da anni, Bass. Che dici, sacro e venerabile uomo? Lo sfondiamo il tetto massimo di plausibilità?»

Basta.
Stop.
Io mollo le redini.

«'Fanculo, v-vieni qui.» Le afferro un polso e, esercitando una forte pressione, la trascino su di me, facendola impattare contro il mio torace e sedere sulle mie gambe. Layla rilascia un ansito nell'aria, non potendo far al­tro che accomodarsi e darmi le spalle. «Brava, proprio così. Bella composta.»


È leggera, la mocciosetta, più di una piuma.

Le stringo la vita con un solo braccio e la spingo indietro, obbligandola ad adagiarsi sul mio petto. Ora sono io quello con la bocca premuta sul suo orecchio.

Per dispetto ti faccio sentire il calore del mio fiato, Layla.

Il bollore.

L'afa estiva.

Il fuoco puro.

Non lo percepisci già divampare da sotto il mio pigiama?

«Grazie» mormoro, totalmente su di giri, mentre lei, immobile su di me, non fa che respirare a un ritmo irre­golare. «Ti-ti ringrazio per un motivo in particolare. La tua apertura al funambolismo mi ha permesso di a-ampliare i miei orizzonti. Si dice ampliare? Cioè, voglio dire che mi hai a-aiutato a osare. Tessuti e cerchio insieme questa sera, e chissà quale altro attrezzo potrei aggiungere per s-s-stupire il pubblico se solo mi e-esercitassi ancora.»

«Io un'idea sull'attrezzo ce l'avrei» risponde, con un mugolio. «Usami come tester e vediamo se non esclamo un "oooh" di stupore.»

Ci manca poco che non ti spoglio brutalmente, Layla. E poi vedremo come sarà quel tuo "oooh".

Mi accarezza la mano che affonda nel suo addome piatto. A causa del mio slancio improvviso, ha le guan­ce di un color rosso acceso che non ho mai visto in natura. Sembra che il sangue stia per zampillarle dai pori come fontane.

«Inizialmente, sei stato tu ad aiutarmi: mi hai insegnato a essere invincibile su una barra di legno, ricordi? Le azioni buone tornano azioni» Ride. «Scusa, no, volevo dire "indietro". Il bene richiama il bene, ecco.»

Rido anch'io, con un debole gorgoglio arrochito, mentre lei, da pazza qual è, schiaccia il suo bel culetto sulla mia patta. Cazzo. Il sangue mi affluisce dritto alla punta. A cosa posso pensare per sfiammarmi un po'? A nonna Elín, a nonna Elín, a nonna Elìn. Niente. Voglio scopare. Allora devo provare a prolungare il dialogo.

«In effetti siamo in parità. È un da-da-da-da-da-dare e un u-un... u... u... u...»

«Ho capito, tranquillo.»

«Un... u-u-u...»

«Tranquillo.»

«Un dareeunricevere, cazzo santissimo! Okay. La frana ce l'ha fatta anche questa volta.»

Prego con tutto me stesso che rimanga ferma, perché, se dovesse cominciare a scambiare il mio pisello per la lampada magica di un genio su cui potersi strofinare, stanotte la sbatterò a letto e finirò per insegnarle come si balbetta il mio nome e cognome, iniziando dall'ultima sillaba e risalendo a ritroso fino alla prima. Domani non potrà cammi­nare.

«Non solo antitetici, allora. Siamo anche vicendevoli. E sai che penso?»

«Che pensi?» chiedo, accarezzando il laccio morbido della sua vestaglia tutta da togliere.

«Che tu abbia fatto meglio di tutti noi allo spettacolo delle nove, e non solo in questo caso. Io ti reputo il mi­gliore sempre.»

Il migliore: una pura barzelletta per chi sente di essere l'ultimo corridore di qualsiasi maratona. «Esageri.»

Layla inclina il viso di lato e calca la bocca in prossimità dell'angolo delle mie labbra. Gesù. «È triste che non ti riconosca i meriti.»

«E c-come si fa?»

«Tanto per cominciare, dovresti imparare ad accettare i complimenti. Se ti risulta difficile farlo con quelli che ti rivolgono gli altri, accogli almeno i miei.»

«Dovrei a-accettare di e-essere il migliore?»

Si stacca dal mio viso. «Io riconosco il tuo valore.»

«Sono solo a-acrobazie, in realtà.»

Poso gli occhi su di lei e la trovo a ricambiarmi con uno sguardo magnetico. Le sue pupille si muovono su e giù, giù a su, in balia di un'analisi attenta. Mi sento coinvolto dal suo balletto continuo e malizioso, segno chiaro della sua volontà di finire a fare sesso in ogni angolo di questa stanza, dimenticando persino che sia­mo vivi, che siamo nati.

L'azzurro delle sue iridi sembra trasformarsi in un oceano in cui devo nuotare per non annegare, ma non reggo all'alta marea se sono conciato in una maniera così rovinosa. Mi tuffo nelle sue pupille dilatate, osservo poi quel labbro carnoso martoriato dagli incisivi, e la mia pelle si riveste di brividi che mi frantumano la colonna vertebrale.

«Non sei solo un acrobata, Bass. Sei anche mente, e sei anche altro. Guarda le tue mani.»

No, Layla, quelle sono bastarde. Orrende. Soprattutto una.

Le solleva con le sue, tenendole sospese a mezz'aria tra di noi. Con delicatezza, sfiora i palmi, tracciando con gli indici i piccoli graffi che emergono dalle garze strette intorno alla mano sinistra e le linee della vita di quella destra. «Queste sanno rendere speciale qualsiasi cosa.»

Le sue parole mi riportano a Zagabria, a quel momento in cui realizzai di essere solo un bambino inconclu­dente. Il ricordo mi pesa sulle dita, tanto che, d'impulso, le chiudo, acchiappandole gli indici. E lei si fa cattu­rare volentieri. Perfino i pollici, e i medi, e gli anulari, e i mignoli sospingono reclamando di essere inclusi. Acconsento alla sua richiesta, aprendo le mani per inglobarle tutte nell'universo dei miei guai.

L'acqua per le tisane sta ribollendo, così come le nostre mani unite. Pochi gli attimi di silenzio in cui conversiamo attraver­so il tatto. Chissà cosa ci stiamo dicendo, o domandando. So solo che tutto ciò che lei dice mi piace, e tutto ciò che domanda mi fa impazzire.

Ci siamo solo noi in questa stanza, in questo hotel, a Mosca, in Russia, nel mondo. Il resto diventa di poco conto. A valere è il contatto dei nostri corpi, e non sono più schia­vo di ogni mia singola e fottuta difesa.

Melinda si ricopre di tinte slavate. L'unica immagine che mi balena davanti è Layla, seduta su di me, con un'anima da proteggere fino alla mia morte.

Non sembra affatto disgu­stata dall'aspetto delle mie mani, per questo mi fa sentire a mio agio e non mi contengo: «Forse può sembrare a-assurdo quello che sto per d-dirti ma io, sin da quando mi sveglio, non voglio far altro che sentirti. E questo va ben oltre il circo, pur ammettendo che sia nato tutto da qui. Non cre-credo sia solo un percepirsi, è... come si dice? Ad ampio raggio, sì, in cui ci includo il parlarti e... e questo» ammicco all'unione delle nostre pelli, «il toccarti». Chissà se il suo cuore sta battendo impazzito, perché il mio sì, sta correndo i cento metri. «E la voglia che ho di sentirti mi spinge a venire da te anche dopo la m-mezzanotte, senza chiedere. Senza educa­zione. Non p-posso sottrarmi.»

«Perché mi dai motivi per vivere, Bass?» sussurra, con gli occhi lucidi. «Anche se solo in minima parte e in una modalità del tutto transitoria, sciogli i nodi della mia disperazione.»

«Saranno lacci totalmente slegati, u-un giorno. Con o s-senza di me, Layla. Vedrai.»

Si prende una pausa prima di tornare a parlare. «Hai fatto bene a passare. Ci stai da Dio qui dentro.»

«Ci sto da Dio?» ripeto, con un sorriso appena accennato, portandomi le sue mani sulla bocca.

«Da Dio, sì.»

Presso le labbra sulle nocche e le bacio con schiocchi casti, alzando appena gli occhi per capire se siano gra­diti. Lei sospira, io traggo le mie conclusioni.

In seguito, porta giù le braccia per non renderle più un muro invalicabile tra i nostri visi. Io ho dato il via a un giochetto spinto quanto leggero, ma lei sembra vo­lersi divertire in un modo più spericolato e significativo.

E giochiamo fino a spezzarci e a riconsolidarci, se è questo che desideri per stanotte.

Domani non so che ne sarà di me e di te.

Ma ora è chiaro che siamo un piccolo noi.

«Nessuno m-mi ha mai d-detto che sono il migliore, lo sai piccola?» bisbiglio, avvinto.

Ora che le mani sono libere, le uso per districare i ciuffi di capelli che le incorniciano i lineamenti. La osservo da questa pro­spettiva d'onore, la mia preferita, la più soffocante.

Che viso.
Un viso da stronzetta.
Un viso da furba tremenda.
Un viso su cui rischio di cucire una benedetta ossessione.

«Sei bella, e non lo so se lo sai. Mi auguro di sì.» Le pettino la chioma all'indietro, portandola sulla nuca. «Sei molto bella.» La racchiudo tutta in una coda autoritaria, mentre le mostro la discrepanza di un'espressio­ne più che timida. «Posso permettermi di dirti che sei bellissima?»

«Puoi dire tutto, Bass. Puoi fare tutto.» Le sfugge un gemito e si inarca leggermente per il tiraggio inaspetta­to dei capelli, mentre chiude gli occhi, abbandonandosi completamente. Potrei compiere su di lei qualsiasi azione, soggiogarla persino, se questo significherebbe morire per il desi­derio e rinascere dal piacere sotto le mie mani ruvide.

Protendo la testa per congiungermi delicatamente a lei. La mia fronte si poggia sulla sua, così come si incon­trarono le punte dei nostri nasi.

Quanto mi costerebbe un errore?
Meno della voglia di sapere che sapore lei abbia. Forse quello di alcol che non assumo mai, ma che ora voglio sorseggiare dalla sua lingua senza alcuna coerenza. Sì. Desidero l'ebbrezza. La confusione dei sensi.

Le nostre labbra si avvicinano, ma il preambolo di un bacio che sarebbe stato di certo esplosivo è aggredito da rumori sinistri provenienti dall'esterno.

Ci distanziamo, tornando alle nostre instabili prese di posizioni, mentre di scatto guardiamo l'ingresso.

Ci alziamo in piedi, in preda allo sconvolgimento, all'eccitazione e alla vertigine e ci avviciniamo alla porta. Aprendola, troviamo Oliver che piange infreddolito, coperto appena da un boxer e una maglietta in cotone. Che gli succede?

«Ho-ho distrutto tutti i libri» farnetica, senza aprire le palpebre infiammate.

«Va bene, amore mio, va bene. Non preoccuparti.» Layla gli tiene ferma la testa che, pesante, tenta di ram­mollire in giù. Intervengo immediatamente per aiutarla, afferrandolo dal busto con forza per evitare che crolli del tutto a terra e si faccia male.

«Ho... morsicato le pagine di Poe... e ho il sangue tra i denti... ho sognato Milwaukee. E Bar... Barc... io non lo so, io ho sangue tra i denti... Ho visto il sangue.» Guizza con delle scosse, come fosse affetto da una lieve forma di epilessia.

«Ma che g-g-gli prende?» chiedo con il cuore in gola, trattenendolo con difficoltà.

Layla non si scompone. «Portiamolo sul mio letto.»

Impiega almeno dieci minuti a smettere di piangere. Trema ancora però, emettendo versi incontrollati e deli­ranti, mentre le carezze leggere della sua migliore amica, stesa accanto a lui, lo confortano. Io rimango im­mobile, in piedi, accanto al comodino.

«Suo padre non ha mai accettato la sua omosessualità. Un peccato, perché era la persona più importante della sua vita, il suo eroe» mi svela in un bisbiglio, baciandogli la fronte nervosa.

«Mi dispiace» rispondo.

«Gli manca sua madre, le sue sorelle e anche Jonathan, sebbene non voglia ammetterlo. Penso che il rimedio per lui sia uno solo: finché non si riconcilierà con il passato...»

«Continuerà a m-mordere il presente» finisco.

«Ollie è incazzato con la vita, e lo sono anch'io. La rabbia ci lega indissolubilmente, rendendoci persino uguali» aggiunge, volgendosi per guardarmi con un'occhiata sommessa.

«Eppure io noto u-una grande differenza tra voi due.»

«E qual è? Sentiamo.» Depone con cautela Oliver sotto le coperte, poi si alza incrociando le braccia e viene verso di me.

«Ammesso che s-s-sssia la rabbia a rendervi si-simili e visto che tu per Oliver parli di rimedi, perché ad Am­burgo mi hai detto che per te non ce ne sono?» Sul suo volto si disegna un'espressione di stupore, come se non si aspettasse una riflessione del genere da parte mia. Avvicino una mano al suo mento e lo sfioro con il dorso dell'indice. «Mi dai la p-possibilità di cercare dei r-rimedi anche per te?»

«Un arcobaleno non può cercare altrove i colori con i quali ravvivare un cielo di pioggia. Li conserva in sé.»

Riprende a mordicchiarsi un labbro, a pochi respiri di distanza da me.

Per lei ci non sono rimedi, ma, a quan­to pare, mi sta dicendo che io sono qualcosa che ci va vicino.

Mi inclino verso di lei e le scocco un bacio de­licato sulla fronte, poi uno più in basso, tra le sopracciglia chiare, e lei chiude gli occhi, forse desiderando come me che questo contatto duri per minuti, ore. Giornate.

Ma la sua ultima frase ha gettato un'ombra di preoccupazione nella mia testa. Non posso negarlo.

Se è vero che lei è un cielo di pioggia, io non posso essere il suo arcobaleno. Perché mi identifico più come un piccolo aiuto, che come un rimedio. Non avrà bisogno della mia forza per affrontare le avversità, ma solo della sua, sostenuta dal mio incoraggiamento e da quello di chiunque altro voglia avere al suo fianco.

Non attribuirmi un ruolo così determinante e centrale.

È troppo, Layla.

Il centro di tutto devi essere sempre e solo tu.

Quando si assenta per accompagnare Oliver in bagno a vomitare, mi avvicino al suo comodino e avverto un richiamo naturale a soffermarmi su quello che c'è dietro la candela al cedro. Agguanto il piccolo pezzetto di stoffa celeste e lo dispiego. Ne viene fuori una magliettina a maniche corte con lo scollo tondo. Un'ape gialla ravviva il petto, affiancata da un barattolo di miele. Ne esamino l'etichetta cucita sul collo e scopro che è di una taglia adatta a un bambino di tre anni. Doveva essere di suo figlio. Le mani mi tremano e un accenno di commozione punge il retro dei miei occhi.

Gesù, questa storia mi ammazza.

La ripiego in fretta, ponendola lì dove l'ho trovata.

Quando pochi minuti dopo ritorno nella mia camera e ripenso alla frase sull'arcobaleno e la pioggia, capisco di aver seriamente osato troppo, sebbene mi sia piaciuto a livelli indescrivibili. Siamo ancora in tempo per fermarci, per non lasciarci sopraffare da quelle scintille passionali che minacciano di bruciarci nella carne, per spezzare i legami di quella particolare forma di connessione mentale che è solo nostra.

Ricordo che Layla è una donna squarciata, inaccostabile a ciò che vivo ogni giorno. Perché io sono intrappolato in una situazio­ne sentimentale complicata e non posso trascinarla in tutto questo. C'è infatti Melinda di mezzo, che mi ama – e detesta – in modo vivace, per non dire aggressivo, e Layla non merita di subire i contraccolpi della mia relazione.

Ciò che è accaduto stanotte nasce e muore su quella poltrona.

Non ti accarezzerò più così, piccola. Lo giuro.

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