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42 - Coesistere

Mosca, Russia
Dicembre


Oliver


Arcibuffa, che freddo incredibile fa qui.

Neanche quando sono caduto pescando sul ghiaccio nel lago Wisso­ta vicino a Chippewa Falls – sì, come quella sfiga umana di Jack Dawson – ho provato una sensazione simi­le.

Ho ancora le mani?
Non oso guardarle, perché temo che il gelo me le abbia amputate.

Mi chiedo cosa sia passato nella testa di Melindona-Melindina-Melindella quando ha deciso di portare lo spettacolo del Carova­na in questa città, conosciuta per il suo freddo inclemente nel periodo natalizio.

MAH.

Siamo arrivati a Mosca appena un giorno fa, senza camper, ma con un volo aereo. Abbiamo caricato solo l'essenziale in stiva: alcuni costumi, attrezzi e materiale pubblicitario, più, tra i sedili, l'euforia di poter dor­mire in un posto più confortevole del solito.

Soggiorneremo per qualche settimana in un albergo poco fuori dal centro e ci esibiremo nella struttura stazionaria del Gran Circo di Mosca, sulla Tsvetnoy Boulevar, grazie a una gentile concessione dei gestori guarnito dall'entusiastico benestare del loro direttore artistico. Non è la prima volta che noi del Fleurs ci troviamo in situazioni simili; era già accaduto a Minsk, più di due anni fa, durante il periodo più buio della mia vita. Di quella di Layla. Di quella di Namira.

«Buongiornello, Adrian» dico in risposta al suo saluto, posando un grosso scatolone su uno strato di neve e battendo i denti, nonostante il mio cervello super intelligente sia coperto da un soffice colbacco.

Agito una mano verso il mio collega, che mi fissa dall'esterno della sua camera con aria interrogativa.

L'hotel si sviluppa su più piani, ma offre anche delle dépendance, tutte al pianoterra, con uno spiazzo che si affaccia su un piccolo giardino innevato. Io ed Ernest soggiorniamo in una di queste, che non è esattamente una sciccheria da sultano del Brunei, ma risulta comunque accogliente. I muri sono rivesti­ti da una carta da parati color piscio e aleggia un profumo leggero di legno da bara davvero sublime. Chissà se quella di Adrian è simile.


«Posso sapere che c'è lì dentro?» mi chiede, alzando la voce.

«Il regalo di compleanno per il nostro dolce Coniglietto. Poco fa, mentre mangiucchiavo sulla Bolshàja Jaki­mànka, l'ho visto dietro una vetrina e mi sono lasciato tentare.»

«Sembra qualcosa di molto grande» deduce.

«Lo è.»

«Come farà a portarlo con sé fino ad Amburgo? Pensi che sul volo di ritorno gli permetteranno di imbarcar­lo?»

Ehm. Non ci avevo pensato. L'unica cosa di cui mi sono preoccupato è stato chiedere al proprietario dell'hotel se potessi introdurlo qui, all'interno della sua struttura. E basta.

Va bene. Chi se ne frega. Me ne lavo le mani come fece Ponzio Pilato con Gesù.

Sarà un problema di Bass, in fondo.

«Lo porto dentro» rispondo bruscamente, non sapendo più che dirgli. «Non voglio che il regalo si ghiacci come i miei sbiroloncioli

Il suo volto ambrato si corruccia in una smorfia che palesa perplessità. «Sbiroloncioli?»

«I coglioni.»

Adrian ammicca allo scatolone. «Vuoi una mano?»

«Faccio io.» La voce proviene dalla boccuccia di una figura slanciata, che attraversa questa sorta di cortile in tutta calma. È Layla, con ancora indosso un pigiama di pile, coperto da un cappotto di pelliccia così vaporosa da sembrare vera.

Mmh.
Di chi sarà?
Certamente non sua.

A differenza mia, lei dorme all'interno del plesso alberghiero, al secondo piano, in una stanza tripla con le gemelle Claudine e Alizée.

Prima di raggiungermi, si ferma davanti alla dépendance del funambolo, abbassa il cappuccio e piega la testa in un cenno di saluto. «Labas rytas, Adrian.»

«Buongiorno a te, principessina.» In seguito lui rientra nel van, dove ad attenderlo ci sarà sicuramente la sua brava moglie, Corinna, e il figlio preadolescente, Bob. Sono una famiglia di plastica. Non li vedo mai litiga­re.

«Allora? Quanto l'hai pagato?» mi chiede Layla, piegando le ginocchia sulla breccia ghiacciata per darmi una mano a trascinare lo scatolone in camera. «Possiamo dividerci le spese. Ti va?»

«Lascia stare. Le fragoline non possono spostare pacchi così pesanti.» Le accarezzo la spalla per invitarla a indietreggiare, poi mi metto all'opera da solo. Un sospiro di fatica esce dalla mia bocca, ancora impregnata del sapore dei blini alla marmellata, e lancio uno sguardo indispettito su di lei. «E poi, scusami, ma questa volta voglio fare lo splendido. Non ti ho mai detto che volessi fargli un regalo in comune.»

«Ma io non conosco i gusti di Bass e, tra le altre cose, non ho intenzione di andare in giro per i negozi» am­mette. «Non sono una da feste, torte e canzoncine, lo sai.»

«Non mi importa. Questa volta desidero essere un po' egoista per una causa più che sensuale» ribatto, intran­sigente. «Quando Bass riceve regali, bacia. Bacia tutti. Chiunque. Bacerebbe anche uno scarafag­gio. E io sono uno scarafaggio troppo figo per non pretendere un bacio tutto mio. Dato che non posso affascinarlo con i tubi Pringles, ci provo con i tavolini da ping pong.»


Sbatte le ciglia a più riprese. «Pringles? Cioè?»

«Niente.»

«Va bene, sì, okay. Non discuto.» Curva un sopracciglio, ma c'è un accenno di divertimento nei suoi occhi.

Il pacco arriva a destinazione, tra gli stipiti della porta già aperta. «Perché? Fammi capire: tu non vorresti ri­cevere un suo bacio risucchiante?»

«Cosa potrei prendergli?» elude subito la domanda, la mia scemotta, e io la guardo, passandomi la lingua sulle labbra con porca malizia.

«Possiedi già ciò che puoi regalargli.»

«La "caramella"?» chiede, indicandosi il bassoventre. «Quella che sta qui sotto ad ammuffire da secoli nei se­coli, amen?»

«Sono certo che Bass saprebbe destreggiarsi bene anche nei fitti meandri delle tue ragnatele.»

Scoppia in un breve risata. «Gli compro un intimo, che dici? Magari un boxer simpatico, giusto per suggerirgli implicita­mente che mi piacerebbe vederlo indossato, così da capire se ho azzeccato la taglia. E poi tastare. Tastare tut­to. Per un eventuale cambio. O un reso. O per farlo arrendere, a me. E toglierglielo.» Si sfiora le guance. «Porca pecora, sto ribollendo.»

«E se gli dessi direttamente il tuo corazón espinado

Entro in camera, con il pacco che mi oscura la visuale. Layla, preoccupata che possa cadere, sostiene il movimento atletico premendo le mani sul mio culettonsis. Anche lei si inoltra e poi chiude la porta con un colpo di piede. Appoggio il pacco contro il muro, prendo il telecomando dal comodino e accendo il riscaldamento. Qui dentro sembra di stare in un igloo.


«Non posso dargli il mio cuore in quel senso. Bass ed io siamo solo amici. Lui, poi, non fa mai quel passo in più verso di me» mi spiega, e non sembra molto felice della cosa. «È tirato, così tirato che comincio a sospet­tare che in questi mesi si sia infatuato di un'altra.»

«E di chi?»

Cerca di trovare altre spiegazioni, ma i risultati sono scarsi e l'unica cosa che riesco a pensare è che in effetti la loro conoscenza prosegue senza prendere direzioni precise. Non voglio dirglielo, perché temo di intristirla ulteriormente, così smorzo il discorso, andando a sedermi sul bordo del mio letto insudiciato da briciole di pane e pezzi di un orripilante cordon blue al prosciutto che ho mangiato ieri sera.

Lei mi raggiunge, accomodandosi al mio fianco. Da così vicino, ho modo di effettuare un'approfondita anali­si sulla pelliccia che indossa. Lo confermo: non è mai stata nel suo guardaroba.

Le ac­carezzo un braccio, sentendo la liscezza del pelo sotto i miei polpastrelli. «Chi te l'ha regalata? È da donna vecchia.»

«Non ci crederesti mai.» I suoi occhi si spalancano, riacquistando un po' di entusiasmo.

«Dio, no. Lorenzo?» Abbasso le spalle, sopraffatto dall'avvilimento. «È lui, sì, perché è molto tirchio e quin­di non ci crederei mai.»

«Melinda.»

«Arcibuffa.»

«Inconcepibile, non è vero?» Sogghigna. «Stamattina stavo preparando un caffè dal distributore e me la sono ritrovata dietro il culo. Sorrideva come non mai e aveva con sé una busta di quelle buone, da boutique.»

«Ma sei scema?» sbotto, trafiggendola con un'occhiata astiosa.

Si indica. «Chi? Io?»

«Quando il diavolo ti accarezza è perché...»

«Non è questo il caso, non vuole la mia anima!» mi ferma nell'immediato. «Mi ha solo detto di avermi notata infreddolita. È stata gentile, per una volta. Hai idea di quanto costi? Non potrei mai permettermi un cappotto così caldo. Glielo restituirò, promesso. In estate.»


«E da quando senti le stagioni, tu?» mormoro.

«Io? Le sento?» fa la finta tonta.

«Mi pare.»

«È sintetica, la pelliccia» svia, dopo aver sospirato.

«Fandonie!» replico energico, rialzandomi in piedi. «Tenevano le tigri nelle gabbie, come puoi fidarti?»

«È scritto nell'etichetta interna.»

«Ah.»

Perdo subito energia e mi riposiziono alla sua destra, incorniciandomi le mandibole sbarbate con le mani. Questa storia, comunque, non mi convince affatto. Non dopo che Melinda ha cercato di etichettarla come un'ubriacona a Lione, salvo poi dividere con lei delle birrette ad Amburgo – chiaramente offerte – come se fossero amiche di vecchia data.

MAH.

Layla si modella sulla bocca un sorriso, sperando forse di infondermi la sua stessa tranquillità. «Quando mi ha dato il cappotto, ha aggiunto una proposta che ho apprezzato.»

«No... non mi dire, sul serio?» Indietreggio con un rapido scatto di reni, colpito dall'ipotesi che possa averle fatto una scottante avance da filmetto lesbo. Questo sì che sarebbe un plot twist degno del miglior bestseller.

«Esatto...» Lei annuisce con un sorriso sagace.

OH MY CIAMBELLA!

«Ti ha chiesto di palparle le tette, eh?» chiedo.

Mi fucila con le sue iridi azzurre e scrolla il capo in segno di negazione.

Niente, ho sbagliato. Starà pensando che il suo puttano abbia perso l'acume nel colbacco.


Lorenzo

Da quella sera ad Amburgo, la mia pace sembra essere fuggita verso una landa lontana.

Nonostante la distan­za dal gruppo nel backstage, ho colto chiaramente ogni parola, ogni sillaba, ogni lettera e persino ogni singo­la pausa del loro discorso. Dire che è stato penoso e osceno è dire poco: Scarlett che chiedeva il permesso a suo fratello di farsi sverginare da un cinno qualunque, e lui che titubava per uno stupido hamburger.

L'abbraccio caloroso con cui Bass ha accolto quello sconosciuto mi tormenta ancora. Terence, il suo nome di battesimo, ma io preferisco chiamarlo "neonato con il liquido amniotico nelle narici", poiché più adeguato a chi si atteggia da grande, ma ha ancora la stessa voce immatura di quando la mamma gli cambiava il pannoli­no.

Più di tutto, il mio pensiero è ancora focalizzato sulla sua mano, stretta attorno a quella della bimbetta, come a non volerla lasciare andare. È senza dubbio il suo ragazzo, e mi chiedo come sia possibile che i suoi familiari acconsentano a una relazione così seria a soli se dici anni.


Riflettendo sui miei trascorsi, però, credo che in effetti questa possibilità possa verificarsi più del previsto nella vita di una qualsiasi adolescente: Layla aveva più o meno la sua età quando la privai della sua innocenza, a Lubiana. Un amplesso più soddisfacente di quello non c'è più stato per me. Ancora oggi rammento la poten­za dirompente del mio orgasmo nel vederla dissanguarsi a causa delle mie spinte. Mai avrei pensato che dieci anni dopo mi sarei ritrovato ad annaspare per una bambina che un po', forse, le assomiglia.

Ho compiuto un attento discernimento su me stesso dopo Amburgo, e ora qui, a Mosca, posso finalmente ri­velarne i risultati. Quello che provo ha una nomenclatura ben precisa: gelosia, accompagnata da un tocco d'invidia. Invidia perché a Terence è concesso sfiorare le sue mani di zucchero senza che nessuno lo trovi sconveniente o oltraggioso; perché può godere di ciò che io desidero ardentemente in segreto, nel silenzio della mia perdizione; perché lei non guarderà mai me come guarda lui.

Nonostante l'amarezza che permea il mio spirito, non sono disposto a rinunciare a quei brevi momenti di contatto o a quelle finestre di dialogo quotidiano che lei mi concede. Suo fratello, ad Amsterdam, mi ha of­ferto un'ottima scusa per avvicinarmi a lei senza che nessuno ci veda qualcosa di sbagliato, e ho intenzione di sfruttarla per raggiungere il mio obiettivo.

Vuoi la mia amicizia, Bass?

Ebbene, l'avrai.

Diventerò il tuo miglior compagno di merenda e mi sforzerò di creare un tipo di aberrante complicità che non hai mai avuto con altri.

In fondo, il mio capo è una persona socialmente tollerabile: parla a bassa voce, non è invadente e, almeno con me, non usa troppe parolacce. Io posso permettermi di dirle quando esplodo, ma detesto sentirle dagli al­tri quando sono loro a farlo. Quindi, tutto sommato, instaurare un rapporto con lui può anche andarmi bene, ed è tanto detto da me, che non sopporto la gente solo per il fatto che respira.

Poco fa, dalla mia dépendance, ho inviato a Bass un messaggio per chiedergli se voleva prendere un caffè, dicen­dogli che tra un sorso e l'altro avremmo trovato una soluzione per guardare senza problemi di rete le partite di Campionato e di Champions League qui, dalla Russia.

Mi ha risposto che stamattina non si sente molto bene per uscire, proponendomi però di raggiungerlo al secondo piano dell'albergo, dove condivide una sorta di appartamento bilocale con la nostra direttrice siliconata e la bimbetta. È un meraviglioso e inaspettato invito a valicare le mura della sua tana. Spero solo che lei ci sia.


Lascio la dépendance e mi dirigo verso l'hotel con un brillio di entusiasmo nel cuore. L'ascensore è silenzio­so e il suo leggero tremolio mi accompagna mentre rifletto su cosa potrebbe accadere.

Quando arrivo, mi fermo davanti alla porta dell'appartamento e bussa delicatamente. All'interno regna una quiete assordante e l'attesa sembra interminabile. È proprio nel momento in cui mi chiedo se ho sbagliato porta che la sua picco­la voce soave giunge alle mie orecchie: «Vado ad aprire, sì. Ma si può sapere che fai in quella cavolo di stan­za? Sei chiuso lì dentro da ore.»

Un sorriso mi sfiora le labbra mentre attendo il suo arrivo. Quando la porta si apre, la visione di Scarlett mi incenerisce ogni fibra del corpo. È avvolta in un pigiama delle Superchicche, e il gelo che penetra dagli infis­si la costringe a stringersi nelle braccia. Mentre schiaccia le arcate dentarie tra loro, trema.

«Dio, perché fa così freddo nel corridoio?» mi chiede, infastidita.

«Scusami, bimbetta. Rientra e chiudi la porta. Vedrò tuo fratello più tardi» le dico impulsivo, preoccupando­mi per lei.


«E ti lascio fuori? Prima di morire assiderata, fammi fare almeno una buona azione.» Mi afferra un avam­braccio e mi attira a sé, conducendomi all'interno.

In un attimo mi ritrovo nel loro salotto, e spero che Scar­lett non molli più la presa, perché, sebbene nei mesi ci siamo sfiorati attraverso sguardi e conversazioni, non è mai successo che questo avvenisse in modo così diretto. La sua mano mi lambisce con una leggerezza tale da solleticarmi non solo il gomito, ma anche l'immaginazione. Quanto vorrei afferrarle le mandibole per ru­barle qualcosa. Un bacio, forse, seguito da gemito saturo di eccitazione, nuvole ed Eden.

Devo smetterla di pensarci.

Ha solo se dici anni.

Solo se dici maledetti anni.


Non riesco a distogliere lo sguardo dal suo viso ancora assonnato, visto che siamo così vicini. Decido di por­gerle la solita domanda che riservo solo e soltanto a lei, quella che sussurro con interesse da quando abbiamo cominciato a degustare qualche cioccolata calda. «Come stai oggi? Tutto bene?»

«Bene, sì» risponde sorridente, allontanandosi di qualche passo. Si siede sul divano, mentre io rimango pri­gioniero della mia inamovibilità. «È solo che delle volte mi annoio. Voglio esibirmi. Sai per caso quando raggiungeremo la struttura circense per provare?»

Inarco un sopracciglio. «Credevo fossi tu la figlia della direttrice.»

«E io credevo fossi tu il beniamino di Dubois» ribatte. La sua prontezza di risposta mi inebria. «Mia madre non mi parla molto delle cose logistiche.» Porta le ginocchia al petto per chiudersi in se stessa, come una mi­nuscola pietra. «E, come se non bastasse, adesso mi ignora perché ha scoperto di avere una nuova figlia. Uh!» Sbarra gli occhi. «Devo andare a vestirmi! Oggi ci porta a pranzo fuori.»

«Non sembri contenta» osservo.

«No, è che ci vedo la pazzia, capisci?» continua a confidarsi. «A malapena riesce a fare da madre a due figli. Non le piace molto il ruolo, ecco. Quindi mi chiedo: perché adottarne un'altra?»

«Un'altra? E chi?»

«Layla.»

Layla?

Che diavolo sta combinando ancora per assicurarsi quel posto in dirigenza? Non bastano le attenzioni che ri­ceve da Dubois e Bass? Ho l'impressione che voglia ingraziarsi chiunque al circo, e io lo dico e lo dirò sem­pre: è una malata arrivista.

«E che fanno insieme?» domando, attraversato da una lieve preoccupazione, mentre Scorbuto entra saltellan­do nella stanza. Celere, si avvicina alle mie scarpe, cercando di attirare la mia attenzione con qualche gridoli­no selvaggio.

«Be', diciamo che a me non fa mancare seitan e quinoa per cena, mentre a lei riserva qualche delizia in più» risponde, facendo spallucce. «Si concedono aperitivi, le compra gli smalti per le unghie e le ha persino cedu­to un cappotto, il suo preferito. Oggi ci porta al Tkemali, sai di cosa parlo?»

«Cucina georgiana?»

La sua fronte, incorniciata da capelli lisci color oro, si increspa. «Che cavolo mangiano i georgiani?»

«Pos­so?» Indico impulsivamente il divano.

Batte una mano sul cuscino di velluto. «Vieni.»

Supero la scimmietta e mi accomodo a pochi centimetri da lei. L'odore floreale della sua pelle mi schiaffeg­gia l'olfatto, richiamando alla mia mente quelle creme usate per detergere i neonati. Che purezza. Che inge­nuità. Vorrei proseguire la conversazione, ma ho perso il filo. Posso riallacciarmi soltanto a quella brama ir­ruente che mi perfora ancora il torace e mi urla di baciarla.

Ma ha solo se dici anni.

Solo se dici maledetti anni.

Castigato e famelico, ingoio la saliva, facendomi violenza e reprimendo gli istinti. Non avrei dovuto sedermi qui, e forse neppure vivere in questo preciso istante.

Evito di crogiolarmi in quei suoi occhi simili a due uni­versi inesplorati, troppo lucenti e grandi per essere scientificamente veri, anatomicamente possibili. Cerco di ricordare ciò che stava dicendo prima che mi ponessi al suo fianco.

«Sai cosa farei al tuo posto?» riprendo, quando la reminiscenza mi colpisce.

«Cosa?»

«Andrei al pranzo e mi godrei la giornata.»

«Tu sai come si fa a godere di una giornata?» mi interroga in un sussurro, spostando la mano verso la mia. Con l'indice mi sfiora il dorso, risalendo fino alle nocche. «Sei sempre così serio e solo...»

La serietà e la solitudine non costituiscono problemi, Scarlett.

Non lo hanno mai fatto in passato. Ma ora è tutto diverso.

I motivi che mi impediranno di vivere al massimo le giornate sono ben visibili, e uno di questi è già qui, a portata di mano: il mio cuore batte forte perché mi sto abbandonando a un morbo per cui non esiste cura e perché ho appena capito che da quando esiste lei non voglio più essere solo.

Colpa tua, bimbetta. Tutta colpa tua.

Se fossi sprovvisto di una savia ragione, le mettere le mani addosso per sfogare questo impeto di rabbia e passione che scorre nelle mie vene. Commetterei un reato, perché non mi fermerei neanche davanti a un suo rifiuto. Dopotutto è risaputo che un'onda, quando deve lambire una costa, non chiede il permesso a nessuno. Sommerge e basta.

Per scongiurare il peggio, rigetto il contatto delle mani e infilo la mia nella tasca del giubbotto di piume. L'aggressività con cui compio il gesto fa sobbalzare Scarlett, che ora sembra visibilmente dispiaciuta. «Scu­sami. Forse non volevi essere toccato.»


«No, non...» Robotico, mi drizzo in piedi e indico la porta alle mie spalle. «Io volevo... ti volevo dire che passo più tardi. Che ne dici?»

«Se vuoi, chiamo Bass. È in camera sua a delirare.» Si gratta il collo e si alza per porsi di fronte a me, ma non ha più il coraggio di guardarmi negli occhi. Il nostro disagio è tangibile. «Che faccio? Vado a chiamar­lo? O rimango qui?»

«Facciamo che torno dopo» concludo, prendendo la strada della porta. Sfioro la maniglia e l'abbasso. «Al ri­storante ordina uno khachapuri e fatti portare del ketchup. Layla ti aggredirà dicendoti che non è opportuno, ma non ascoltarla: è lituana, non georgiana.»

«Il ketchup, d'accordo.»

Mi dileguo quasi subito e corro a prendere l'ascensore. Schiaccio il tasto del piano terra e, mentre aspetto, mi guardo allo specchio. Un vivido rossore chiazza le mie guance cosparse di piccoli nei, mentre mi lascio sfug­gire un flebile sospiro tra gli incisivi. «Quanto è immensa, dannazione.»

Tornato nella mia dépendance – che non condivido con altri grazie a un'espressa richiesta a Dubois – non posso fare a meno di pensare a lei. È un tarlo piacevole che si muove sinuoso in ogni mia particella. Più mi ripeto che questa situazione sia gravosa, più mi ritrovo a desiderare di immergermi al suo interno. L'inevitabile fa­scinazione delle cose vietate diventa una scintilla che sobilla la mia anima. Perché la rincorsa al proibito è la pratica più entusiasmante che esista, nonostante cerchiamo di negarlo a noi stessi.

Non so perché prendo il mio telefono e inizio a smanettarci sopra. La connessione internet scarseggia, ma è sufficiente a rivelare i prezzi di quei beni di lusso che mai comprerei a una donna, ma che comunque la mia bimbetta merita.

Trovo una collana che si adatterebbe perfettamente al suo collo sottile e al suo décolleté dolcemente acerbo.

Sì. Nel pomeriggio andrò in una gioielleria per comprarle qualcosa di prezioso. Ho deci­so. Forse spenderò un patrimonio, ma Scarlett vale ogni mio risparmio perché è la mia smisurata eccedenza.


Layla

Dunque, non ho idea di come mi sia ritrovata in questa situazione. In qualche modo però è capitata, e adesso che sono in ballo, devo ballare.


Accidenti. Mi classifico come quel tipo di persona che delle volte accetta volentieri un invito o una pro­posta, ma poi, nel momento cruciale, farebbe di tutto pur di assentarsi e scappare. Chissà quanti ce ne sono al mondo come me. Forse i miei simili respirano anche qui, in questo posto, e sono ora pronti a gustarsi piatti di abbondanti leccornie.


Nell'area pedonale di Mosca, vicino al teatro Bolshoi, un ristorante dagli arredi vintage sta accogliendo un insolito trio composto da me, Scarlett e Melinda. Il nostro tavolo è al piano rialzato, su una balconata fiorita che si affaccia su quello sottostante. Le pareti di mattoni rossicci conferiscono all'ambiente uno stile piuttosto spartano, nonostante il menu non sia affatto in linea.

Appena seduta, infatti, ancora prima di leggere i piatti, ho dato un'occhiata ai prezzi e, a dirla tutta, non ho alcuna intenzione di spendere una fortuna per qualcosa che probabilmente assaggerò appena. Inoltre, ho perso un ulteriore barlume del mio fervore per un motivo ben preciso: Bass non c'è.

Forse, se fosse qui, il mio stomaco si aprirebbe e sentirei una fame più viva.

Quando Melinda mi ha proposto di pranzare fuori, mi ha assicurato che ci sarebbe stata tutta la famiglia Powell, ed era stato questo a convincermi a dire di sì.

Non posso negarlo: mi piace passare il tempo con Bass e sua sorella perché adoro quando Scarlett cerca di imporsi su di lui, sfidando quel suo vocione da falso duro. Ascoltarli mentre si punzecchiano, assurdamente, mi rilassa, e speravo che oggi accadesse lo stesso. Ma niente. Oggi devo accontentarmi della compagnia del­la mia direttrice e dei suoi modi sofisticati, sempre impeccabili, con cui si relaziona al mondo.

Ho scelto di indossare un maglioncino nero con il collo alto, lo stesso che Bass mi ha detto di avere simile nel suo armadio. Ho passato lo smalto rosso ciliegia sulle unghie in perfetto abbinamento al rossetto e, per una volta, ho deciso di fare qualcosa ai miei capelli, di solito lisci e privi di forma. Li ho trasformati in morbide onde usando il ferro per i boccoli, un arnese che non toccavo letteralmente da anni.

Mi sono sistemata per apparire un po' più carina agli occhi di Bass, eppure ora mi sento così a disagio e stupida, visto che quelle lun­ghe ore di preparazione si sono rivelate inutili.

È domenica e io chiedo cosa tu stia facendo.
Ti manderei un messaggio, lo sai?
Ma non voglio risultare opprimente.

Magari preferisci altro a un pranzo con me.
Ma io preferirei te e basta.


Melinda, agghindata di gioielli preziosi, sta leggendo il menù. Quando nota che la sto osservando, alza il viso e mi sorride con dolcezza. «Zuccherino, non guardare più la parte dei prezzi come hai fatto prima, ti prego. Concentrati solo sulle pietanze. Offro io.»

Eh no. Ora basta. Sembra che stia soccorrendo una mendicante. «No, davvero. Ti ringrazio, ma voglio paga­re» mi impegno a dire.

Scarlett chiude di getto il libricino del suo menù. «Lascia che mia madre ti paghi il pranzo, Layla. Falle spen­dere fino all'ultimo rublo.»

«Tu, piuttosto? Hai deciso che mangiare?» Melinda ammicca al sottopiatto lucido e la guarda battendo più volte le ciglia imbevute in litri di mascara.

«Non capisco il kartuli, quindi prenderò qualcosa che spero mi regali la sorpresa d'esserci.»

«È un idioma antichissimo. Le maggiori difficoltà derivano dal sistema agglutinante delle consonanti, ma in giro c'è di peggio» le spiego. «Posso aiutarti a tradurlo.»

«Può aiutarti, lasciati aiutare. È brava» le bisbiglia la direttrice.

«Ho-già-deciso» Scarlett scandisce le parole, lanciando un chiaro segnale di scontrosità. Forse si sta chie­dendo il motivo di questa strana alleanza e perché vi sia una così insolita accondiscendenza intrisa di elogi da parte di Melinda nei miei confronti. In fondo, sua madre non è mai stata una mia fan. È una situa­zione ambigua, ma non ho le facoltà mentali per andare a fondo alla questione.


«Bene, allora puoi aiutare me, zuccherino» riprende Melinda, in tono cordiale. «Che ne dici? Prendiamo an­che della vodka?»

Che goduria. Ora sì che mi conquista sul serio.
«La Eristoff è deliziosa.»

Assumere un po' di alcol non mi darà più modo di pensare al fatto che stia cominciando ad avvertire la mancanza di una persona. Di un uomo. Di quell'uomo. Il migliore.

«D'accordo, prenderemo quella. Ma stammi dietro perché dopo un bicchiere comincio a dire un mucchio di stupidaggini!» Melinda ride in modo gracchiante e, a giudicare dall'espressione schifata di sua figlia, la sua reazione deve apparirle piuttosto melensa e patetica.

Poco dopo, è proprio Scarlett a rivolgersi a me, sfiorandomi la mano. «Ora che lui non c'è, credo sia un buon momento per le confidenze.»

«Confidenze?» Drizzo la schiena, assumendo una postura più composta. «Oh-oh. Sento odore di inquisizio­ne.»

Ridacchia con un grugnito singolare. «Com'è mio fratello? Ti piace?»

«Scarlett!» Melinda non perde tempo a riprenderla con una timbrica quasi sformata. «Sei davvero inopportu­na.»

Sua figlia non bada al rimprovero e prosegue. «Ti aiuta con le funi e vi vedo affiatati. Lo trovi interessante o ti scoccia con i suoi discorsi da novantenne? Non fraintendermi, lui è tutta la mia vita, ma voglio capire se sia insostenibile solo per sua sorella o per tutte le donne.»

«In realtà lo trovo parecchio brillante, e gentile, e... piacevole.» E sexy, cazzo santo.

Potrei contare sulle dita di settecento mani le volte in cui la sua presenza mi ha sciolto il bassoventre e fatto bagnare le mutandine: una mano sulla schiena per sorreggere i miei passi sulla barra di legno, qualche picco­la scivolata dalle alture finita con me che precipito ben volentieri sul suo petto massiccio, e i frangenti in cui lui stesso mi ha mostrato come ci si muovesse sulla barra, indossando un pantaloncino in cotone morbido che nei pressi della patta lasciava poco all'immaginazione.

Spesso gli intravedo la punta della cappella, non scherzo, anche se non è mai turgida.

Mi focalizzo sempre in quel punto, è più forte di me, e ora, solo a pensa­re a che ben di Dio lì possa nascondersi non riesco a smettere di sorridere a trentadue denti, proprio come una cretina. Mi rendo conto, però, che spettegolare su Banano con le donne della sua famiglia non è come confabulare con quel puttano di Ollie e mi auguro quantomeno di non pronunciare termini fuori posto.

«E fisicamente? Ti attrae?»


MI ATTRAE?
Io mi sento mentalmente sposata con il suo corpo. La marcia di Wagner risuona non appena arriva al tendone e si toglie la maglietta.

«È uno schianto, porca pecora!» Ecco i termini fuori posto pronun­ciati perché non so dosare il mio tipico brio da donna assatanata che non scopa dal paleozoico. Voglio stran­golarmi, ma mi limito a farmi piccola nella sedia. «Scusate.»

Scarlett esplode in una nuova risata maialesca. «Scommetto che hai un debole per i biondi.»

«Solo biondi per me, socia!» Bass mi piacerebbe anche calvo e monopalla, in verità, ma evito di dichiararlo e farla sganasciare ancora. Rischieremmo di essere cacciate dal locale per disturbo della quiete.

«È bello sapere che pensi tutto questo di mio fratello, lo sai?» riprende. «Lui si sente un rifiuto umano.»

«È bello che lui mi regali il suo tempo» la correggo.

«Del tempo? Che tempo? Quanto tempo?» si intromette Melinda, aggrottando le sopracciglia disegnate a ma­tita.

«Ci piace passeggiare per le città che visitiamo. Abbiamo cominciato a Lione e, da allora, è come se ci do­nassimo le nostre orme a vicenda. Lui mi racconta tutto quello che gli passa nella testa, e...» Starò certamente arrossendo come un peperoncino piccante. «Io credo che abbia molto da dire.»

Scarlett sospira. «Siete davvero carini.»

Visto che siamo in tema, ne approfitto per fugare il dubbio. «Perché Bass non è qui?»

«Perché non sta bene» replica Melinda, guardandomi con una serietà quasi arcigna.

«Che ha?»

«Nulla, non preoccuparti. Ogni tanto si abbatte e ha bisogno di stare da solo. Invitalo tu la prossima volta. A te non dirà mai di no» mi consiglia Scarlett, riservandomi un occhiolino complice.


Le sorrido, ma controvoglia. In realtà mi chiedo cosa lo stia affliggendo. Da quando siamo arrivati a Mosca, mi sembra che Bass cambi umore con maggiore frequenza.

A volte è il solito ragazzo solare per cui stravedo; altre, invece, diventa taciturno e sembra scomparire dalla circolazione, tanto che nessuno lo vede più in giro. È come se avesse un volto illuminato e uno fasciato nell'ombra.

«Piuttosto, non sei la compagna del celebre matematico?» subentra Melinda, dopo essersi schiarita la voce. «So che avete un figlio in cielo. Povera creatura. Come è morto? Di malattia?»

«Mamma, ma che ti salta in mente?»

Il mio stomaco si contorce al solo richiamo e il mio petto sembra subire una battuta d'arresto.

Le spalle si curvano in avanti, gravate dai ricordi di un passato che ora strillano di non farmi più carina, di non smania­re per un bellissimo ragazzo, di non inventarmi battute ridicole, di non mangiare, di dimagrire, di smettere di vivere.

«Io e... io e Lorenzo non stiamo insieme da, da anni.»

«Cosa vi ha allontanati?» mi incalza, ponendosi a braccia conserte. «Non siete stati in grado di superare la tragedia del vostro bambino?»

Smettila, basta. Non citarlo.

Mi fai dannatamente male.

«Tornerete insieme, ne sono certa. L'amore è più forte della morte e delle avversità: è così che si dice, no?» straparla ancora, mentre si preoccupa di richiamare un cameriere schioccando due dita.

Scarlett scorge il mio improvviso abbattimento e mi elargisce un sorriso rinfrancante. «Ordiniamo, socia? Che prendi?»

«Non ho più fame» rispondo con un soffio di voce.

«Allora ordino per te» propone, riaprendo il menù. «Uno khachapuri, che ne dici? Lo prenderò anch'io, ma con il ketchup.»

«Ketchup?» le chiedo.

Questa nauseabonda combinazione di gusti mi è familiare.


Bass

Passare delle ore di merda penso sia normale per chiunque. Ma trascorrere delle giornate intere sentendosi un vegetale, un po' meno.

'Fanculo. La Russia mi ha colpito duramente, soprattutto perché, durante il volo, ho scoperto di essere rimasto senza garze.

Sono andato in panico, ma questo non mi ha impedito di precipitarmi in una farmacia qualunque subito dopo l'atterraggio. Spiegare ciò di cui avevo bisogno non è stato semplice. Il mio russo è piuttosto scarso e il mio balbettio non ha di certo aiutato. Ad un certo punto, sembrava di assi­stere a un mio concerto rap e credo che il farmacista abbia persino tentato di chiedermi un autografo. Alla fine sono riuscito a farmi capire a gesti.

Senza garze, purtroppo, non posso stare. Durante quegli attacchi, sono l'unica soluzione in grado di placarmi.

È appena iniziato un nuovo giorno e ho deciso che non lo trascorrerò a letto. Basta. Mi sono crogiolato fin troppo.

Ho fatto un bagno che è durato un'ora e, avendo a disposizione un angolo cottura, ho prepara­to un porridge con fette di banana, cioccolato e burro di arachidi così gustoso che il solo odore avrà permesso la resurrezione di almeno una dozzina di morti.

Subito dopo, Oliver è venuto nel nostro appartamento e mi ha ordinato di seguirlo nella sua dépendance, dicendomi che aveva qualcosa da mostrarmi.

In ascensore, visibilmente preoccupato, mi ha chiesto perché fossi pallido e avessi le occhiaie.

Eh.

Ho inventato una cazzata, dicendogli che, quando mi imbatto in un gioco carino sul telefono perdo la cognizione del tem­po e ci passo tutta la notte. Una scusa peggiore non potevo trovarla, dato che non so nemmeno come accede­re all'App Store del mio iPhone.
Io e la tecnologia continuiamo a non andare d'accordo, purtroppo.

Fuori dal­la sua camera mi ha bendato gli occhi con il laccio del suo accappatoio, mi ha fatto girare su me stesso come un coglione per disorientarmi, e quando poi mi ha ridonato la vista mi sono ritrovato davanti un tavolino da ping pong con una coccarda fucsia a pois gialli in cima.

Mi ha augurato buon compleanno e mi ha detto che è il mio regalo da parte sua.

Peccato che manchino alcuni giorni al mio reale passaggio d'età, ma ho comunque apprezzato il gesto. L'ho abbracciato e baciato sulle guance, perché è questo il modo in cui ringrazio la gente. Credo abbia ansimato in modo malizioso mentre l'ho fatto, ma non importa. Stendiamo un velo pietoso. Non riesco a incazzarmi con lui da quando si è tinto i capelli di color celeste cielo.

«Ora ti va di giocare con le racchette, Coniglietto?» mi chiede come un bambino, saltellando all'impazzata. Mentre acconsento, anche Lorenzo ci raggiunge, domandandoci se possa unirsi per una partita. Nello stesso istante io rispondo di sì, Oliver risponde di no.

«Cambio parere solo perché il tuo bacio – che è droga allo stato puro – mi ha stordito, e perché se dici di sì, al­lora è un sì universale» precisa.

Buono a sapersi: porterò Sbrodolo con me in una tasca quando avrò i miei soliti crolli di autostima. Lui sa sempre come farmi sentire speciale, autorevole e degno di qualcosa. Peccato che io non sia una grande com­pagnia quest'oggi e quasi mi sento in difetto. È un bene che non passi il mio tempo con Layla. Si annoierebbe a morte con me. Se le sto un po' alla larga è per questo, anche se mi manca da matti.

Poco dopo, Oliver ci osserva mentre Lorenzo ed io ci affanniamo in una partita, scambiandoci feroci colpi di racchetta su un sottile strato di neve. Canticchia la Kalinka ed esulta a ogni punto che segno. Il suo è un tifo sfegatato, probabilmente amplificato dalla collera che, a quanto pare, nutre per il mio avversario.

«Sì! Otto a tre» esclamo quando ormai ci ho preso gusto, alzando la racchetta sopra la testa, mentre con l'indice dell'altra mano punto Lorenzo per prenderlo in giro. «Ai m-m-matematici è consentito piangere? No, perché i-i-intravedo delle lacrime sul tuo viso.»

«Ti sto solo concedendo una piccola gioia, Bass» replica ansimando. «Avvisami quando sei pronto.»

«Pronto a cosa?»

«A perdere.» Solleva la pallina fino all'occhio semichiuso e prende la mira. Dà il via a una nuova battuta, alla quale rispondo con estrema facilità. Credo che questo sport faccia proprio per me, e sono così rilassato che, mentre mi fletto per ricevere un colpo a ridosso della rete, mi permetto persino di fare conversazione.

«Sono s-settimane che medito su una cosa.»

«Ovvero?» risponde con il fiatone, ricambiando l'attacco.

«Se tu sia una macchina antropomorfa con un cervello elettronico» biascica Oliver, con una sigaretta accesa tra le labbra semiaperte.

«Pensavo alla vostra c-coesione» riprendo, segnando un nuovo punto. Subito ribatte con un colpo davvero energico e io rispondo con una racchettata altrettanto potente. «Melinda ha de-deciso di piegarvi al nostro modo di fare circo, ma su di voi volevo saperne di più.»

«A tenerci uniti non era solo Jubilé o la Serrano García» argomenta, bloccando la pallina sul piatto della rac­chetta. Inizia a dilettarsi in un lento palleggio mentre Oliver si avvicina a noi avvolto in una nuvola di fumo. «Noi eravamo parte di una stessa storia» prosegue e io faccio il giro del tavolo per avvicinarmi a lui. «Tutti erano tutto, in un'unica esibizione. Più indefiniti che definiti.»

«Io utilizzavo anche i kiwido, per farti un esempio» si aggiunge l'americano.

«Ho mythos deloi oti» poeta il bolognese con una buona pronuncia... ehm... greca? Aramaica?

«La favola insegna che...» traduce Oliver in maniera enfatica.

«Gli Exempla di Esopo riproposti dal circo francese di patron Dubois» si accavalla il collega. «Apparenza, inganno...»

«Astuzia, verità. Io mi esibivo sulla stoltezza, perché?» rimpalla il pagliaccio con la fronte increspata.

«Eh, chieditelo» risponde Lorenzo, srotolando l'elastico che ha al polso per farsi un codino.

Sono in crisi. Non sto capendo un fico secco di quello che si stanno dicendo. I deficit cognitivi di cui parlava Tabatha, la mamma di Corinna, mi sa che sono evidenti anche adesso che non sono più un bambino.

«Partiva­mo dal tema, Bass, prima di redigere lo show e tutto aderiva a questo.» Boh, Lorenzo deve aver ascoltato il mio sfogo interiore, perché mi sta dando spiegazioni senza averle richieste. «Lo spettacolo di massa si im­mergeva nella pratica circense, i numeri divenivano degli atti teatrali e si creava una solida relazione tra una pluralità di discipline erudite e le nostre abilità: letteratura, filosofia e drammaturgia si univano alla prodezza dei giocolieri, alla forza dei trapezisti, alla grazia delle danzanti. Eravamo denaturati? Forse. Ma era lo stato d'alterazione a renderci eccezionali, nonostante le critiche.»


Oliver corre incontro a Scarlett, che da poco ha lasciato la dépendance di Corinna e Adrian. Le dona una me­lanzana ripescata dalla tasca del giubbotto e lei l'accetta con una sofisticata riverenza, cominciando poi a bal­lare la trojka su un motivetto da loro inventato privo di armonia.

«Chi era il vostro di-direttore artistico? Dubois?» intanto chiedo.

«Io» afferma Lorenzo a bruciapelo.

Gli attimi di silenzio che seguono la sua risposta mi bastano per capire fino in fondo che l'ex di Layla è dav­vero un portento. Non un banano anonimo, ma qualcuno di impareggiabile. La straordinarietà fatta persona. In questo momento mi sento così effimero e inconsistente. «Come reggevi i giudizi n-ne-negativi?»

Mi guarda con un'occhiata intrisa di decisione. «Se ti esponi, devi essere pronto alle contestazioni. Ma sul piedistallo ci sono sempre stato io. Da lì non scendo. Finché sei in alto, gli altri sono microbi.»

In un girotondo antiorario, scalciando i piedi verso l'esterno, Oliver e Scarlett sembrano aver perso il lume della ragione: urlano, schiamazzano, fanno le pernacchie, finché lui non si accorge che mia sorella ha uno zaino sulle spalle. «Hai il colloquio conoscitivo in quella scuola del centro a cui tua madre ti ha obbligato a iscriverti?» le chiede.

«Affermativo.»

«Potrei accompagnarti con il furgone che Ernest ha chiesto in prestito a un suo cugino di San Pietroburgo, se vuoi. Ci impenniamo!»

«E impenniamoci!» acconsente Scarlett euforica, assalendolo con un abbraccio. «Ma ora fammi fare un ca­squé!»

«Hai mangiato qualcosa? Nel caso, pronta al rigurgitino?» Non aspetta una sua risposta. La afferra subito per i fianchi e la piega all'indietro, ripetendo il movimento più volte senza sosta. Su e giù, giù e su. I piegamenti sono così estremi che il sangue le affluisce rapidamente alla testa. Mi sembra che stiano un po' esagerando. Prima di passare a separarli, saluto a Lorenzo. «Più tardi andrò allo chapiteau fisso. P-p-per lo spettacolo di stasera volevo fare qualcosa di diverso. Un numero con i tessuti e il cerchio.»

«In contemporanea, Bass?»

Annuisco e mi stringo nelle spalle «È stata La-la-la, cazzo, Laaa-aaayla a propormelo. Lei sembra crederci, per cui, provo a crederci anch'io.»

Dopodiché mi dirigo dai pazzi, obbligando Oliver a fermarsi per non indurre Scarlett a vomitarsi sulle scar­pe.

«Piano voi due, okay?» raccomando, baciandole poi la punta del naso. «Buona scuola, sorellina. Fatti v-valere.»

Scarlett, guardando oltre le mie spalle, scoppia a ridere in una modo così forte che per poco non sputa un polmone e ci metto poco a intuire che Oliver, da dietro, mi starà sbeffeggiando.

Mi volto e lo ritrovo piegato a pecora, con il boxer calato per metà culo. Che faccio io? Glielo calcio con un piede.

Ridono tutti, Lorenzo compreso.

Quanto vorrei che Layla fosse qui con noi in questo momento.

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