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41 - Deludere 🇬🇧



Zagabria, Croazia
22 anni fa


Powell Circus

Bass

Ci sono momenti nella vita che, senza preavviso, ti cambiano per sempre. Non lo sai mentre li stai vivendo, ma col tempo ti accorgi che hanno tracciato una linea di separazione netta tra chi eri prima e chi sei diventato dopo. A volte sono piccoli episodi, gesti quotidiani che sembrano banali, ma che finiscono per scolpirsi den­tro di te, formando le basi su cui si costruirà il tuo futuro.

Nel mio caso, tutto accadde in una notte apparentemente ordinaria. La ricordo come se fosse ieri, anche se avevo solo dieci anni.

«Buonanotte, Adrian» squittii, sebbene non avessi alcuna intenzione di rincasare o di andare a dormire. Infat­ti, saltellavo per l'accampamento circense su un piede solo, come facevo spesso, nella speranza di guadagna­re qualche minuto in più. Mamma e papà mi aspettavano al van per cenare, ma tutto ciò che desideravo era continuare a giocare.

«Buonanotte, principino. E metti giù quel piede o ti sbuccerai le ginocchia» mi rispose Adrian, che all'epoca aveva da poco compiuto vent'anni. Faceva già coppia fissa con Corinna e insieme avevano appena acquistato un camper nuovo di zecca a un prezzo stracciato, grazie a mio padre. Nell'aria si inalava il profumo di nozze.

«Naah. Io n-n-non cado mai!» risposi ridendo, mentre aumentavo la frenesia dei miei salti. Mi sentivo libero, invincibile, come se la notte stessa fosse mia.

I ringhi delle tigri dei Wright, profondi e gutturali, arrivavano alle mie orecchie come musica da camera. Anche gli elefanti nelle gabbie barrivano, facendo tremare il terreno sotto i miei talloni nudi, mentre lo scalpitio degli zoccoli dei cavalli sembrava ritmare ogni mio balzo.

Decisi di esibirmi per un pubblico molto speciale: gli astri.

«Guarda, luna! Guarda c-ccc-cosa so fare!»

Sotto la sua luce bianca, eseguii una serie di fouettés che avevo imparato durante le lezioni di danza. I miei movimenti erano agili, meticolosi, e mai prima di allora mi ero percepito così leggero, così libero, simile a una rondine che vola nei cieli di primavera.

«Sono r-ricco, luna mia. Ho le ali!» gridai, lasciandomi guidare dall'ebbrezza che mi pervadeva ogni volta che ballavo. Ieri, oggi e sempre sosterrò che la danza e la musica abbiano alleggerito i dolori del mio cuore più di qualsiasi altra cosa.

In quegli anni, la mia famiglia era ancora unita: Melinda non aveva ancora incrociato il Powell Circus e Scarlett era un angioletto del paradiso, non ancora pronta per nascere.

Definivo i miei genitori le colonne portanti della mia vita. Colonne di cui avevo davvero bisogno. Purtroppo, ero un bambino facilmente in­fluenzabile, e la mia fragilità di fronte ai giudizi altrui mi rendeva dipendente dalle loro parole di incoraggia­mento. Ricordo che mi donavano pochi abbracci, ma in compenso ricevevo da loro numerosi complimenti dopo le mie esibizioni.

Negli occhi verdi di mia ma­dre coglievo l'orgoglio di vedermi volteggiare sui tessuti aerei con un tipo di graziosa destrezza che, spesso, superava quella degli adulti; in quelli di mio padre, invece, leggevo anche aspettative affilate, intrise di visio­ni precise circa il mio futuro: da grande, in fondo, avrei dovuto prendere in mano le redini degli affari di famiglia, diventare ciò che lui era e portare il circo sempre più in alto. Una parte di me provava orgoglio per quel destino già tracciato, ma al contempo ero attanagliato dalla paura di creare pasticci e deluderlo.


Qualche giorno prima, a scuola, qualcosa dentro di me si era incrinato. Un gruppo di coetanei mi aveva deri­so, e tra le risate e gli insulti, la frase allusiva "puzzi di cacca di elefanti" era risuonata nella mia anima con una brutalità che non avevo mai percepito prima.

Fino a quel momento, infatti, non avevo mai fatto caso all'odore del circo, ma in seguito mi resi conto che in fondo avevano ragione. La sera seguente, mentre mio padre si esibiva in pista con gli elefanti, odorai la pelle delle braccia e arrivai alla conclusione che fossi diventato parte del suolo polveroso sotto i tendoni. Il tanfo degli animali si era incanalato nei miei organi. Im­possibile lavarlo via. La vergogna mi travolse così tanto che l'indomani mattina non mi svegliai alle sei e quarantacinque minuti per andare a scuola.

Non ci tornai neppure nei giorni successivi.

Non potevo più sop­portare quei ghigni e quelle facce che mi guardavano come se fossi un marziano, come se fossi meno di chiunque.

Ma non fu una rinuncia dolorosa. Sapevo che il mio rifugio sarebbe sempre stato il circo. I circensi non mi giudicavano, anzi, mi sospingevano e mi facevano sentire importante. Mi amavano per quello che ero e per ciò che sarei diventato, ovvero il successore naturale del grande Xavier Powell, e questo mi dava un senso di appartenenza e di rispetto che non avrei potuto trovare altrove. Mi chiamavano persino "principino", un titolo decoroso che portava con sé una sorta di reverenza.

Quello era il mio spazio.
Il mio solo universo.

Dopo che Adrian chiuse lo sportello, mi diressi al mio van. Sentivo ancora addosso quel senso di euforia det­tato dalla danza, malgrado fossi sudato e affannato.

Mi aggrappai al battente della porta semi socchiusa per darmi l'ultimo slancio, ma proprio in quel frangente, le mie orecchie captarono la voce di mio padre dall'interno. Istintivamente, mi fermai ad ascoltare, nascondendomi dietro la scocca sottile della vettura.

«Dovrebbe darsi una svegliata, e io mi chiedo se quel giorno arriverà mai.» Parlava in tono frustrato, con quel carico di stanchezza tipica dei domatori. Aprii di poco la porta e lo vidi accomodarsi pesantemente sul divanetto in camoscio e appoggiare i gomiti sulla tavola imbandita. Il suo volto, solitamente impassibile, era adesso velato di dispiacere.

Mia madre sostava in piedi, al suo fianco. Con delicatezza, le sue dita cominciarono a districare i capelli corti di mio padre, già punteggiati di grigio. Un gesto tenero, con cui di certo voleva allontanare i pensieri che lo tormentavano.

«Dobbiamo essere pazienti. Quei ragazzini, a scuola, gli hanno fatto molto male» gli disse con un filo di voce.

«Forse troppo, non credi?» rispose lui. «Un troppo che reputo esagerato.»

Stavano parlando di me e io sgranai gli occhi.

Mia madre sospirò. «Nostro figlio è estremamente fragile. È sempre stato così. Ricordi la fobia del fuoco di qualche anno fa?»

«Estremamente fragile, Kenna?» calcò le prime parole. «Un rammollito, vorresti dire. Un vero e proprio rammollito

Rammollito: quelle lettere cominciarono a sbattere nella mia testa come la pallina di un flipper e mi fecero sentire così piccolo, così... inutile.

Rammollito.
Non volevo essere un rammollito per lui.


Rimasi immobile, con il cuore che batteva forte. Mia madre baciò la sua fronte, e lui, in risposta, strinse le mani massicce intorno ai suoi fianchi.

Poi lei riprese a parlare. «Tabitha dice che potrebbe essere affetto da una lieve forma di autismo o da qualche altro piccolo deficit cognitivo.»

Tabitha era la madre di Corinna e, a volte, sembrava effettivamente provare una sorta di strana compassione per me.

«In realtà, lo dicono in molti al circo.»

Questo no, mamma.
Questo non lo sospettavo neppure.

«Ma io non credo sia così, Xavier. Non l'ho mai por­tato da terapeuti perché so che nostro figlio è solo sensibile. Non ha bisogno di essere curato, ha solo bisogno di tempo.»

Le parole di mia madre avrebbero dovuto consolarmi, e in parte lo fecero, ma quel "qualche altro piccolo deficit cognitivo" si insinuò nel mio petto come una spina appuntita. Non ca­pivo bene cosa significasse allora, ma sapevo che era una di quelle frasi che gli adulti dicono quando pensano che qualcosa in te non va.

«Ci mancano solo i problemi di mente, oltre a quella stupida balbuzie. Sembra un pappagallo perennemente confuso, che tenta di ripetere parole con scarsi risultati» replicò mio padre con un tono quasi rassegnato.

Gli occhi mi si appannarono per un istante, fissandosi su un punto indistinto. Non potevo credere a quello che stavo sentendo. Mio padre, la figura che consideravo lo scoglio della mia intera esistenza, mi stava deri­dendo.

Mi scherniva proprio come avevano fatto quei bambini a scuola, quelli con il righello in mano, pronti a misurare la mia diversità e a farne oggetto di risate. Lo guardai mentre si lasciava andare contro lo schiena­le del divano, invitando mia madre a sedersi sulle sue gambe.

La mia stupida balbuzie da pappagallo confuso: anche quella mi faceva sentire inadeguato già all'epoca, acci­denti. Mia madre diceva sempre che non era un problema e che sarei migliorato col tempo, ma mio padre... lui era il primo che anticipava le mie cazzo di frasi.

Lo reputava un difetto, qualcosa che avrei dovuto avere il coraggio di correggere da solo. Mai che gli passasse per la testa di farmi aiutare da un logopedista. Portar­mi da un medico, forse, avrebbe significato sottrargli del tempo prezioso dal circo. Insomma, sarebbe stata una seccatura.

Quante volte mi ordinava di scandire meglio le sillabe, accusandomi poi di non concentrarmi abbastanza quando le pronunciavo. Ero distratto, sosteneva. I miei tentativi di spiegargli che non riuscivo a controllare la disarmonia tra i miei pensieri vivaci e veloci e la mia lingua sfaticata e difettosa erano sempre vani.

«Ti confesso che sono preoccupato per le sorti della famiglia e del circo. Nelle mani di Bass crollerebbe qualsiasi cosa» disse ancora mio padre, e una fitta insopportabile mi attraversò il torace, lacerandomi il cuore, come un colpo di martello fa su una delicata lastra di cristallo.

Sentii un nodo formarsi in gola e le vene pulsare do­lorosamente nelle tempie. Una goccia di sudore mi colò dalla fronte.

Eppure, non piansi. Non potevo.
Se avessi pianto, avrei confermato ciò che mio padre pensava di me, rendendo vero quel giudizio crudele.

Solo i rammolliti piangono. Solo loro.

Sperai che almeno mia madre mi difendesse e cercasse di fargli cambiare idea, ma ciò che le mie orecchie captarono in seguito fu un colpo ancora più devastante, la mazzata finale.

«Avremmo dovuto fare un altro fi­glio, Xavier. Uno più capace, in grado di sostenere Bass in ogni aspetto del suo futuro.»

Gli stava dando ragione.
Non era dalla mia parte.

«È difficile per me dormire la notte, ormai» continuò mio padre dopo uno sbuffo. «Poche sere fa l'ho portato sul dorso di Corinto e, mentre gli parlavo, ho capito una cosa: non ha la stoffa né per fare l'imprenditore cir­cense né per diventare un direttore artistico.»

Quelle considerazioni, così definitive, mi fecero sprofondare.

«E che possiamo farci? Lui non sembra avere altri talenti oltre la danza e le acrobazie aeree» ribatté mia ma­dre, senza alcuna traccia di speranza nella voce. «È solo aria.»

Solo aria.

Mi sentii evaporare, dissolvermi cellula per cellula nelle atmosfere di quella notte croata, e capii che per i miei genitori non ero altro che una fiducia mal riposta, qualcosa di assolutamente trascurabile, il nulla più assoluto. Non avevo consistenza né peso. Non ero una presenza reale per loro, e forse per nessun altro. Le mie certezze e speranze si spensero l'una dopo l'altra, lasciandomi immerso in un opprimente buio di insicurezze.

Le lacrime iniziarono a scendere, inevitabili, mentre il mio corpo si svuotava di tutto.

Sapevo ballare, okay, ma per il resto... non ero abbastanza.

Non ero abbastanza.

Non ero abbastanza.

E, forse, non lo sarei mai stato.

Socchiusi la porta lentamente cercando di non fare rumore, perché solo il silenzio poteva salvarmi dall'esse­re scoperto. Poi mi lasciai cadere sull'erba, a pochi passi dalle ruote posteriori del van.

«E tu, l-l-luna? Mi senti? A-a-aalmeno tu» sussurrai, singhiozzando. «Dimmi che v-valgo qualcosa, rispondi­mi.»

Le mani, tremanti, tentarono di coprire un viso che non voleva essere visto, abbandonato alla disperazione. Mi sentivo solo, tremendamente solo. Neanche quel bellissimo satellite in cielo mi parlava.

«Luna» continuai a mormorare, come se ripeterlo potesse convincerla a comunicare con me. Perché, se an­che lei mi ignorava, allora ero davvero un essere trasparente. Uno scarto, così come pensavano i miei genito­ri.

Mi convinsi subito che l'unico modo per dimostrare loro che si sbagliavano era raggiungere la perfezione in tutto ciò che facevo. Dovevo diventare impeccabile, straordinario, un prodigio.

Ma come si diventava perfetti?

E mentre cercavo di raggiungere questo obiettivo, chi sarei stato?

La risposta era semplice e dolorosa: uno schifo totale. Per mamma e papà, per tutti, e forse anche per me stesso.

«Io non v-valgo niente» ripetei con vergogna, e chi non valeva niente non meritava di parlare, né di essere ascoltato, pensai.

È forse da quell'istante che in me crebbe quella timidezza così ostinata che mi porto dietro tuttora. Quella paura di parlare davanti a molte persone che ho scoperto chiamarsi glossofobia solo qualche anno fa.

La luna rimase ancora in silenzio, ma in quell'assenza di risposta trovai poi un rifugio. In fondo era l'unica che, pur osservandomi dall'alto, tratteneva per sé ogni giudizio. Anche se in cuor mio cominciai a sentirmi indegno di ricevere la sua luce. Desiderai che si offuscasse, lasciandomi in quella pozza di oscurità che meri­tavano gli esseri inconcludenti come me.

«Stai lì, in cielo, ma non mi i-i-illuminare, per favore» la implorai, ma lei sembrò brillare più forte e io mi chiusi a sasso. Con il viso rigato di lacrime, mi rifiutai di guardarla ancora. Piuttosto, fissai ancora le mie mani spor­che di terreno e cominciai a odiarle, consapevole che nessuno le avrebbe mai ritenute capaci di fare qualco­sa di buono.

Fu in quel momento che diventai il peggior nemico e boicottatore di me stesso.

La mente non fa che ripetermi questo da anni: puoi solo destreggiarti sui tessuti appesi al soffitto perché sei aria, Bass.

Solo aria.

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