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34 - Sperare 🇫🇷


Rimini, Italia
10 anni fa

Cirque des Fleurs

Lorenzo

«Posso offrirti una gomma?» cinguettò Namira sfiorandomi l'avambraccio con un pacchetto di Vigorsol stretto tra le dita.

Sospirai piano, lasciando che un no scivolasse dalle mie labbra, mentre lo sguardo tornò a perdersi oltre il finestrino del treno in corsa.

Le campagne, immerse nell'ultimo bagliore di un sole estivo, sfilava­no in maniera rapida. Vedevo come i filari dei tigli, i casali isolati e il mare danzavano all'orizzonte.
Ma era un paesaggio che, nonostante l'oggettività della sua bellezza, riusciva solo a irritarmi. Dopotutto, quella stessa realtà provinciale mi aveva respinto da bambino. E io non riuscivo a dimenticarlo.

Dopo due mesi di tournée nel nord Italia, il mio corpo e il mio spirito erano ormai logorati. Solo l'idea che presto ci saremmo spostati in Slovenia mi dava la forza di andare avanti.

Eppure, quella mattina, nonostante il desiderio di allontanarmi, avevo deciso di sistemare alcuni conti in so­speso prima di lasciare l'Italia.

Non so perché avessi acconsentito a compiere un'azione tanto incoerente. For­se perché nel piccolissimo vaso della mia positività conservavo ancora alcune residuali gocce di speranza, rese più consistenti dal supporto di Layla, Namira e del nuovo arrivato al Fleurs: Oliver, che allora non era an­cora Feccia. Furono infatti loro a convincermi di prendere un treno per raggiungere Rimini e mio padre.

Già, quello biologico.

Si chiamava Luigi Casadei e possedeva un hotel sul mare, di cui conoscevo il nome e la via. Avevo ottenuto quelle informazioni origliando una discussione tra i miei genitori adottivi, non più di una settimana prima. All'epoca credevo che certe cose non capitassero per caso e che tutto avesse un senso specifico. Quindi mi dissi che quelle rivelazioni andavano sfruttate per capire qualcosa in più circa le mie radici.


«Sei pallido. Vuoi che ti faccia un po' d'aria? Ho un ventaglio con me.» Nel frattempo, Namira si dedicò con intensa premura ad aumentare la mia ansia.

Mi voltai verso di lei, scoccandole un'occhiata provata. «Qualcosa mi dice che tu sappia il motivo per il qua­le lo sia. Cos'è che si racconta di te? Da anni non faccio che ascoltare questa frase: "Namira sa tutto".»

«Potrei saperlo, sì» mi rispose, sbattendo le ciglia più volte.

Sbuffai e mi passai una mano tra i capelli ondulati. «Non mi piace quello che sto per fare, Mira. Ho paura» confessai, cercando di anticiparla prima che fosse lei a leggermi dentro.

«Ma anche se provi paura, lo stai facendo. E lo stai facendo perché lo vuoi.»


«No, lo vuole Layla. Lo sto facendo per lei» mentii di getto.

«Tu, Lorenzo, raramente fai qualcosa per gli altri.»

«Okay, va bene. Parliamone.» Il nervosismo che stavo trattenendo a fatica scoppiò come una bomba a orologeria. Abbassai la tendina per dare tregua alla luce, così da far sparire quel fastidioso pulviscolo che mi impediva di decripta­re il suo sguardo. D'altronde, Namira era un pozzo di misteri, e l'unico modo per accedervi era attraverso quelle iridi scure, profonde come le notti d'Oriente.

Mi scrocchiai persino le dita, reclamando sollievo prima che potessero farlo le parole. «Perché sei così ostile con me?»

«E tu perché lo sei con te stesso?»

«Sembri odiarmi.»

Sbarrò le palpebre. «Io?»

Annuii. «Tu.»

«Proprio io?» Si segnò con una mano sul petto.

«Proprio tu. Sì.»

«Chi ti odia gode nel vederti fallire; chi ti ama spera nella tua vittoria.»

«E tu godi, è così?» la provocai, con una punta di amarezza nell'intonazione. «Ancora prima che tutto acca­da, ancora prima di arrivare a Rimini.»


«No, io spero.»

No, lei sperava.
Quella risposta sottile e densa di significato mi fece pentire delle frasi brusche che avevo usato.

Il silenzio risuc­chiò l'aria intorno a noi, e fu in quel momento che compresi che Namira, in fondo, mi voleva bene. E forse, anch'io gliene volevo un po' anche se non lo dirò mai a voce alta.

Eravamo cresciuti insieme, dopotutto. Nati lo stesso anno, in inverno, a un mese di distanza l'uno dall'altra.

Molti ci consideravano quasi gemelli. La sintonia era palpabile e il perché era anche scontato: al Fleurs la maggior parte dei dipendenti era francese, con alcune eccezioni dall'est. Non era sempre agevole raggiungere una piena comprensione. Io e lei, invece, riuscivamo a intenderci senza troppi sforzi, grazie alle affinità culturali che intercorrono tra Spagna e Italia. E forse Namira era l'unica persona, oltre Layla, capace di tuffarsi senza timore negli abissi insondabili del mio carattere. Quantomeno ci prova­va.

Devo ammettere che c'è stato un tempo in cui credevo nella sua chiaroveggenza e nella sua saggezza. Non l'ho sempre chiamata fattucchiera, e non l'ho sempre detestata. Quel periodo coincideva con quel giorno in tre­no, quando lei ed io avevamo appena vent'anni, e non c'erano delusioni, né tragedie e malattie a incrinare il nostro legame.

«Come andrà con mio padre?» le chiesi, abbassando lo sguardo, così come il mio orgoglio, verso le ginoc­chia.

«Non ho brutti presentimenti» rispose, mentre Layla e Oliver irruppero vicino ai sedili, barcollando a causa dei movimenti del vagone.

Mi sporsi in avanti. «Parli sul serio, Mira? Davvero?»

Oliver, ignorandomi, fece un breve inchino e dichiarò: «Dunque, signori e signore. Habemus mappa!» Poi cadde al fianco di Namira e le colpì la testa con la cartina arrotolata. Lei ricambiò con uno schiaffetto sulla guancia.

«Se vi dicessi come ce la siamo procurata, non ci credereste: l'abbiamo estorta» ammise Layla con un sorriso sagace, sedendosi vicino a me.

«Potreste evitare di sviscerarci i dettagli? Non vogliamo essere complici di chissà quale illegalità.» Namira mi rivolse un occhiolino complice, desiderosa quanto me di mettere da parte le sciocchezze e concentrarsi sul piano. «Allora, stelle mie, quanto dista l'hotel dalla stazione?»

In poche mosse, la geografia di Rimini riempì quel piccolo spazio. Oliver scomparve dietro la mappa, e Lay­la dovette prendere gli angoli del lato opposto per stenderla e mostrarla a tutti.

«Hotel Riviera: è un complesso di poltrone polverose che non arriva nemmeno alle due stelle, e si trova in via...» Il nostro pagliaccio fissò un punto sulla cartina, strizzando le palpebre al massimo. «Okay, questa pa­rola italiana non so pronunciarla. Andiamo avanti.»

Layla proseguì per lui. «Ciò che conta è che è vicino al punto in cui ci fermeremo.» Si volse verso di me e la sua espressione felice riverberò con un fremito nel mio petto. «Oggi incontrerai tuo padre e andrà tutto bene.»

«E se non volesse parlarmi?» chiesi.

«Aah, suvvia! Non potrà essere peggiore del mio» esclamò Oliver con un sorriso solidale, lisciando la tesa del cappello da cowboy che portava sul capo. «Un giorno vi racconterò della nostra magnifica visita alla cattedrale di Milwaukee. Portammo delle merendine da condividere con padre Lewis: agglomerati di farina e biasimo per la mia omosessualità, ripieni di crema al sapore di convinzioni medievali. Se solo sapeste...»

«Le belle famiglie esistono» affermò Layla, la mia bimbetta di sedici anni. «Luigi Casadei è un albergatore, giusto? Ci ba­sterà presentarci nella hall e chiedere di lui. Parlerai così tanto che, forse, perderemo il treno per Riccione e non riusciremo a tornare in tempo per lo spettacolo di stasera. Dubois ci sgriderà, ma tu sarai in pace.»

Le sorrisi appena, rendendomi conto solo in quell'istante che effettivamente stavo per conoscere la mia fami­glia. Ero spaventato, ma allo stesso tempo impaziente. «Dio, sto tremando...»

«Non conosciamo i motivi per cui i tuoi genitori ti abbiano dato in adozione. Simone sembra non saperli, ma oggi faremo chiarezza su questa storia, una volta per tutte» promise Layla, prendendomi le mani.

Il tremolio diminuì gradualmente sotto le sue carezze. Con le dolci trecce che le ricadevano sulle clavicole, sembrava così certa di quello che diceva e la sua sicurezza mi trasmise quel frammento di coraggio necessa­rio per affrontare l'incontro.

Luigi mi avrebbe accolto?

Avrebbe mai fornito una spiegazione plausibile al mio allontanamento dalla famiglia biologica?

A prescindere dall'esito, desideravo conoscerlo, vedere il suo viso e, forse, stringerlo a me.

Perché? Era il mio vero padre.
E un padre rimane tale, nonostante gli errori e il rifiuto di assumersi le proprie responsabilità, pensavo a quei tempi.

«Allora? Andiamo a fare un po' di baccano?» concluse Oliver, stampandosi in volto una smorfia beffarda.



Mezz'ora dopo eravamo già arrivati a destinazione. Il campanello tintinnò e la hall ci ac­colse nonostante il nostro aspetto quasi bellicoso. Layla, in avanscoperta, era seguita da Oliver che per edu­cazione aveva tolto il cappello da Far West. Avanzarono impettiti, fermandosi davanti al bancone della re­ception. In coda c'ero io, e c'era Namira.

Con le gambe tremanti che avevo, avrei voluto disertare in quel momento.

Lampadari con pale arieggiavano l'ambiente, smuovendo il rivestimento di acari dai divani tappezzati con pellami logori. Questo spiegava perché la pensione non fosse annoverata tra gli hotel più de­centi della città. Inoltre, la mancanza di un monitor LCD a favore di un vecchio tubo catodico per il compu­ter rendeva il posto ancora più antiquato, cristallizzato agli anni Novanta.

Un uomo con i capelli raccolti in un codino basso solleticava la tastiera in braille. Ci sorrise con cortesia, nel modo consono al lavoro di ricezione. Con lo sguardo nascosto dietro un paio di occhiali neri e opachi, ci augurò poi il buongiorno in diverse lingue: italiano, inglese, francese, tedesco e spagnolo.

«Salve, cer­chiamo Luigi Casadei» esordì la mia bimbetta, mentre Oliver si appropriò di una caramella dal cestino in vi­mini accanto a un mucchio di brochure. La scartò, producendo un fruscio che accompagnò la domanda di Layla: «Sa dirci se si trova in hotel?».


«Con la mente penso sia ai tropici, ma con il corpo è qui a digitare seccature» scherzò il tipo, girandosi verso il punto da cui sentiva arrivare le voci. «Sono Luigi. Avete bisogno di una stanza?»

Luigi.

Al rintocco di quel nome, ricordo che fui travolto da uno tsunami di emozioni diverse. Acquisii la certezza di averlo a poche orme di distanza e il battito del mio cuore cominciò a incalzare impazzito. Esondavano forse sentimenti latenti, inspiegabili, e quella convinzione istintiva di sentirmi finalmente parte di qualcuno.

Quell'uomo mi aveva generato.
Ero suo.
Totalmente suo.

«Se nel pacchetto è inclusa una coperta extra di polvere, io...» La spontaneità di Oliver fu interrotta da un colpo deciso nello stomaco inferto dalla bimbetta.

«In realtà, no. Siamo qui per parlare proprio con lei. Io sono Layla. E qui accanto a me c'è...»

«Sbrod...»

«Oliver» lo interruppe lei, mentre fece cenno alla spagnola di avvicinarsi. «E poi, c'è Namira.»

«Buenos días» si aggiunse con calma, anche se il suo volto sembrava attecchito da una certa inquietudine.

La mancanza di clienti era probabilmente dovuta all'inizio della bassa stagione, quindi il momento mi sem­brava propizio per un incontro senza ostacoli. Mi feci coraggio e parlai. «E io sono Lorenzo.»

Perché sono stato abbandonato, papà?, pensai dentro di me.

«Lorenzo?» Luigi smise di digitare, mostrando una lieve espressione di sorpresa.

Io deglutii. «Tuo... figlio.»

Perché non sono mai stato il tuo bambino?

Luigi era cieco, quindi non poteva vedere i miei tratti somatici, ma immaginavo che mi stesse visualizzando come un uomo adulto e consapevole.

Appoggiai i gomiti al bancone, mentre la commozione brillava nei miei occhi.

«Io... io non ho un figlio.»


Non è vero. Dillo, papà, dillo che mi hai avuto, pensai ancora disperatamente.

«Ero molto piccolo quando tu e la mamma decideste di non tenermi. Sono stato adottato e... e quella famiglia mi ha trattato bene» raccontai con voce altalenante, sperando di offrirgli i frammenti di un passato che po­tesse riconoscere.

Layla, percependo l'emotività della situazione, lanciò un'occhiata a Namira, cercando la conferma che fossi­mo sulla strada giusta, ma lei rimase distante e poco partecipativa.

«I Fabbri mi hanno accolto nella loro casa, a Bologna» proseguii. «Mio padre adottivo insegnava educazione fisica al liceo. Poi, però, ha mollato tutto e siamo partiti con il circo. Ne è sempre stato affascinato. Ora sono un juggler, come lui. Tutti mi dicono che sono bravo, e so di esserlo. Se lo sono, però, è perché ho sempre sperato di diventare abbastanza noto da giungere al tuo orecchio.»

Dimmelo anche tu, papà, dimmi che sono bravo. Dimmi che ho fatto bene a venire.

Nel silenzio che seguì, Namira mormorò in modo enigmatico una serie di parole che ricordo con precisione ancora oggi: «Funesta sia la mano a lui tesa. Gelosa è la luna del sole, poiché nulla vede quando illumina. Implora, la possessiva, implora d'esserci».


Luigi emise un lungo sospiro. «Io credo che tu sia confuso.»

«Mai stato più sicuro, sei mio padre. Lo sei.»

Volevo abbracciarlo, volevo perdonarlo. Il desiderio di un contatto umano autentico mi dominava intera­mente.

«Dobbiamo portarlo via, ora.» Namira, nel frattempo, bisbigliò questo a Layla. Poi, con uno sguardo allar­mato, le bloccò un polso. «O a pagare sarai tu.»

«Io? Cioè? Cosa vedi?» chiese lei, confusa.

Non diedi adito alle sue parole. Piuttosto, mi inclinai in avanti, verso mio padre, e accarezzai il suo avam­braccio irsuto per fargli sentire la mia vicinanza. «Sono qui. Sciogli questa mano, aprila e ricongiungiamo­ci.»

«Io n-non ho figli» balbettò.

Ancora quella bugia.

Pensai che forse si vergognava di ammettere la ve­rità. Forse non voleva dirmi che non era riuscito a tenermi perché mancavano i presupposti o la disponibilità economica per crescermi.

«N-non ho mai voluto avere dei figli» aggiunse.

«Prendimi la mano. È qui, vicino alla tua» lo invitai, imperterrito.

«Non li ho m-mai voluti né cercati, non ne ho...» si bloccò, a corto di parole.

Non c'era nemmeno un centi­metro di distanza tra le nostre pelli, ma il peso del nostro passato, costellato di lontananze e mutismi, pareva ora creare un divario insormontabile. La mia mano rimase immobile accanto alle sue dita ferme.

Luigi Casadei mi stava rifiutando e negando, senza offrirmi spiegazioni.

Trascorsero interminabili minuti di dolore prima che ritraessi l'arto. Ferito e umiliato, mi maledissi per aver tentato questa impresa e per aver seguito i suggerimenti di quelle tre merde che mi affiancavano. Il ventenne che ero si sentiva tradito, e il suo cuore era spezzato.


Il campanello annunciò l'ingresso di un nuovo personaggio: un ragazzino piuttosto alto e asciutto. «Sta arri­vando il bus dei tedeschi. Che facciamo, papà? Li ricevo io? O tu?» chiese, rivolgendosi a lui.

Papà.

Luigi aveva appena dichiarato di non avere né di volere dei figli.

In realtà, non aveva voluto me.
Solo me.

Quel tipo era mio fratello e io ora non ricordo neppure le linee del suo volto.

Sconfitto, retrocessi. Girai i talloni e incrociai lo sguardo di Namira, l'artefice delle mie speranze che quel giorno fallì miseramente. Mi aveva assicurato che tutto sarebbe andato bene, eppure io mi sentivo una perso­na da buttare in un giorno da rifare. Che delusione.

Mai più gemelli, mai più amici.
Non le avrei più permesso di ubriacarmi con le sue falsità.

A quel punto cominciò a mancarmi il fiato. Iniziai a fuggire, urtando il bicipite di Oliver. Layla tentò di seguirmi all'esterno, ma qualcuno glielo impedì.

Al Riviera non ci tornai mai più. Piansi, però, vicino a un carretto dei gelati. Accarezzandomi la mano che era rimasta priva di quella delicatezza che avevo ricercato con smania, arrivai alla conclusione che chie­dere affetto, spiegazioni o un semplice aiuto agli altri fosse sbagliato.

Da quel giorno non mi preoccupai più di capire perché fossi stato dato in adozione. Col tempo, mentre aumentava la mia insensibilità, mi convinsi sempre più che fossi stato abbandonato a causa di una ineluttabile mancanza d'amore. Stop. Basta. Solo per questo.

L'amore stesso, nel mio vocabolario emotivo, scomparve.

Nacque la convinzione che nessuno fosse capace di provarlo e di offrirlo veramente, nemmeno io.

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