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32 - Respirare


Layla

Non mi farò rovinare la giornata da Lorenzo. No, non glielo permetterò. Perché, dopo quanto accaduto ieri sera, è esattamente ciò che desidera: vedermi collassare. E io ho finito di concedergli soddisfazioni.

Oggi affronterò la vita a spalle dure, solo per irritarlo e dimostrargli che con me sarà sempre un contenzioso perso in parten­za.

Cammino verso il bar nel foyer, all'esterno del tendone. Non è una cosa che faccio spesso, ma questa mattina ho deciso di prendere un caffè, certa che lo troverò lì, intento a consumare il suo. Tuttavia, mentre mi avvici­no all'ingresso, Dubois mi intercetta e blocca il mio cammino. Il mio sguardo si fissa sul sorriso sornio­ne del mio capo, che mi ricorda un po' quello di mio padre.

«Oggi fai quasi bene a coprirti» esordisce, indicando il cappuccio del giubbotto imbottito che ho sulla testa. «Il sole olandese non mi ha mai convinto. È sempre incerto. Non mi stupirebbe se cominciasse a piovere tra un po'.»

Gli rivolgo un buongiorno cortese, con un sorriso che si allarga e si restringe in appena un secondo. «Tendo a proteggermi dai venti proprio come lei mi ha insegnato sin da piccola. Noi circensi dobbiamo farlo per poter lavorare. I malanni non sono contem­plati.»

Dubois mi ammira con un bagliore di compiacimento nelle iridi acquose, nascoste dietro gli occhialini tondi da vista. «Quando sei nata abbiamo festeggiato per giorni» ricorda. «Da bambina eri meno coperta di così. Eri decisamente più libera.»

Una mano invisibile mi pressa il petto e rende difficoltoso il mio respiro. «La mia libertà è esalata a Minsk, e lei lo sa bene» rispondo mentre, con una mano rugosa, mi tocca il gomito per invitarmi a spostarmi a un lato dell'arco d'ingresso del bar, in modo da non ostacolare il passaggio di chi entra ed esce.

«La tua dolce metà non è tanto diversa.» Le sue pupille si sollevano, cercando qualcuno oltre la mia figura. «Si copre come te, ma lo fa per non vedere.»

Capisco immediatamente a chi si riferisce. Così mi volto e lo scorgo: Lorenzo è seduto al bancone, vestito in modo impeccabile come al suo solito, con una camicia stirata e il maglione a girocollo della miglior lana. Sembra però isolato, distante dal mondo. Gioca con una bustina di zucchero, apparentemente impassibile. Ma so cosa cova sotto quella maledetta facciata di calma e ordine. Sento il disgusto prosperare dentro di me e divampa il desiderio di chiarire con Dubois un particolare una volta per tutte. «Non è più la mia metà. E dolce, con me, non lo è mai stato.»

«Ma lo ami ancora.»

Che palle.

Scuoto la testa. «No, signor Dubois, non più. Lorenzo mi ha inflitto colpi troppo profondi, dolorosi. Sadici. Nei suoi confronti non posso più provare amore. Viviamo in una lotta a mano armata, dove io sono il com­battente che è caduto ferito. Ha presente? Il sangue sgorga dalle mie lacerazioni, l'anima sta per disgiungersi dal corpo. So che la morte è inevitabile, è solo questione di minuti, ma lui, che è il mio avversario, nell'impazienza di vedermi soccombere spara ancora: uno, due, tre colpi, finché...» Mi fermo, lasciando la frase sospesa.

Dubois annui­sce lentamente. «Quindi non c'è più nessun coinvolgimento?»

«Troppi proiettili. L'ultimo l'ha sparato ieri» dico con fermezza, anche se sento la terra tremare. Ma non voglio trattenere la verità. «Lorenzo ha a bu sa to di me dopo la spettacolo.»

Spero che queste parole ora scuotano il suo cuore. Lo osservo mentre chiude e riapre le palpebre, qua­si sicuramente intento a elaborare la mia rivelazione. Per un istante, una smorfia di dispiacere gli increspa il viso. Poi si strofina la fronte con la mano che non è appog­giata al bastone e pronuncia il suo verdetto. «Lorenzo sta solo soffrendo, Layla.»

Dio santo.
Che delusione che sono questi uomini quando fanno fronte comune.

So cosa pensa. Crede che la mia affermazione sia esacerbata dal risentimento che provo nei confronti di Lorenzo. E invece non è così. Riporto solo la realtà dei fatti.

«È un uomo distrutto da una serie di traumi.»

No, signor Dubois, è un caso umano.

«Non può sempre controllarsi.»

Sì, dovrebbe, ma non può, perché è un caso umano.

«Va protetto, salvato.»

Chi? Quel caso umano?

«Fallo, e proteggerai anche il nostro circo.»

Mi fissa con sofferenza, auspicando che le sue indicazioni bastino a convincermi. Ma non bastano, perché l'integrità del circo non è l'unica cosa che conta per me. E poi, riflettendoci meglio, il collegamento tra la sua attività e Lorenzo non l'ho mica capito. Ma d'altronde, non mi aspettavo una reazione tanto diversa da lui, an­che se sotto sotto stavo pregando.

Per anni ho creduto che Dubois vedesse tutto, e che quasi captasse ogni singolo dettaglio di ciò che accadeva sotto il suo tendone. Da quando è morto mio figlio, però, mi sono resa conto che è accecato da una visione distorta e incantata del suo circo e dei suoi dipendenti, la sola che ammette e che difenderebbe a ogni costo. Si rifiuta di capire che gravitiamo intorno alla pista in un equilibrio precario e che continueremo a cadere come birilli se Lorenzo rimarrà qui.

Stupida io ad aspettarmi comprensione, sostegno e almeno una traccia di giustizia. Quello che ricevo e che riceverò sempre è e sarà solo una richiesta di silenzio, di complicità, come se fossi io a dover trovare la forza per salvare tutto e tutti.

Dubois continua a osservarmi, aspettando una risposta che non riesco a formulare. Il gelo che ho dentro monta con potenza e mi ghiaccia le viscere. Non sono sicura che la salvezza del circo valga davvero tutto questo. Non più. Sorride, pensando che il mio mutismo valga come assenso.

«Sarà difficile per me decidere a chi lasciare la mia eredità.»

Eh? Cosa? Eredità?

Il suo commento mi coglie di sorpresa.

Abbasso il cappuccio, lasciando che l'aria fresca mi accarezzi le guance mentre assimilo il colpaccio. «Non cre­do di seguirla.»

«Ciò che è di Melinda, un giorno passerà a Sebastian Powell.» Si prende una pausa prima di proseguire. «Ma ciò che è mio sarà frutto di una perfetta sinergia tra scelte e destino. Il mio erede potrebbe essere Lorenzo Fabbri, oppure...»

«Oppure?»

«Potresti essere tu, Layla Urbonaitė.» Il mio cognome risuona nella mia testa come il rintocco di una campa­na. Una campana che suona a morte, però. «Coprirti e scomparire... pensi che sia quello che meriti per sem­pre?»

«Dubois, io...»

«Desideri congiungerti a tuo figlio, ed è comprensibile. Sei una madre» mi interrompe. «Ma forse, potrebbe esserci per te una nuova forma di libertà, una che ti rende indipendente, piena di scopi. Se ti cedessi l'attività tramite testamento, diventeresti un punto di riferimento per chi è ancora qui. Come lo è una madre per tanti figli. Forse vale la pena scoprirsi e affrontare la vita ogni tanto, non credi?»

Sono senza parole.

«Qualora dovessi proportelo, accetta.» Mi guarda ancora per un istante, poi si congeda con un cenno della te­sta. «Buona giornata, dolce Fiamma.»

Rimango qui, irrigidita dalle sue dichiarazioni, mentre Scarlett sbuca dal bar e mi raggiunge di corsa, pronta per andare a scuola. Mi bacia una guancia e io, frastornata, ricambio con un sorriso accennato. Osservo la sua figura allontanarsi, dopodiché mi faccio coraggio ed entro nel piccolo spazio adibito al bar, benché mi percepisca chiusa in una bolla asensoriale.

Perché io?
Perché, Dubois?

Non ho le capacità, né le competenze adeguate per calarmi in un ruolo del genere.

Mi dirigo verso Lorenzo, seduto ancora al bancone. Mi accomodo accanto a lui.
«Pavel, preparami un caffè, per favore.»

Lorenzo coglie la mia confusione, lo avverto dal modo in cui mi scruta senza parlare.

«Come lo preferisci?» mi chiede Pavel, ma le sue parole non trovano risposta. È come se la mia capa­cità di ragionamento si fosse scollegata dal mio involucro corporale.

È il mio ex a parlare per me. «Lungo, non troppo bollente.»


Sollevo lo sguardo verso il suo viso, chiedendomi se anche lui abbia avuto una conversazione simile con Du­bois. La mia voce emerge dal torpore con una fatica quasi fisica. «Gérard? Te l'ha detto?»

«Sì» risponde.

Siamo entrambi consapevoli del significato di questo monosillabo: c'è un solo posto in dirigenza, e il nostro capo ha deciso di metterci l'uno contro l'altra.

Lorenzo ed io siamo stati tutto in questa vita: amici d'infanzia, fidanzati alle prime esperienze, genitori di un bambino, ex, nemici. E ora... ora questo. Rivali. Rivali con le vene grondanti di veleno. Non posso fare a meno di pensare che tale risvolto faccia parte di un crudele gioco del destino.
Chissà se Namira lo aveva previsto.
Forse sì.

Il caffè arriva e guardo la nuvoletta di fumo che si eleva dal bicchiere, senza toccarlo.

Lorenzo spezza il silenzio. «Come va.»

«Come al cazzo, grazie.»

Sospira appena. «Ieri sera, Layla. Ieri sera ho sbagliato. Non ero in me.»

Il mio sguardo rimane fisso sul caffè. Non replico subito. Sono troppo esausta per trovare una risposta che abbia senso.

«Hai capito quello che ti sto dicendo?» insiste e ci manca poco che gli lanci il bicchiere in faccia. Forse è meglio che me ne vada.

Dopo essermi alzata in piedi, però, mi volto verso di lui, pronta a infliggergli una stoccata.

«Parole. Le tue sono soltanto parole. Dici che hai sbagliato, ma non chiedi mai scusa» gli faccio notare, sen­tendo una forza rabbiosa crescere dentro di me. «È sempre così con te: costruisci discorsi a metà. E io... io ne ho abbastanza. Vai al diavolo, Lorenzo.»


Lo vedo sgranare gli occhi, sorpreso dalla mia reazione. Deve comprendere che ho tracciato un confine defi­nitivo tra noi e che non c'è più spazio per il dubbio, per il perdono forzato, per la pazienza infinita. Ogni fibra del mio essere si è stancata di sopportarlo.

Mi circonderò solo di persone che mi fanno bene.

E ho in mente chi vorrei.





Oggi pomeriggio no. Non sto bene per niente.
È bastato lo spettro di un testamento a gettarmi al tappeto.
Chi ha mai desiderato essere una dirigente circense?
Io di certo no.

Ho altre visioni per il mio futuro, o meglio per il mio non-futuro.

Rannicchiata in un angolo del camper, stringo le ginocchia al petto, mentre un ciclone di inquietudine mi tra­volge.

Mi sfianca quell'irriducibile rifiuto di affrontare tutto, e persino di gettarmi ancora nel caos di una giornata che sembra infinita. Non so nemmeno dove troverò le forze per esibirmi stasera.

Chi mi vede, forse, penserà che io sia pigra o che non voglia lavorare. Ma no, non è pigrizia. È desolazione, sopraffazione, ansia, disperazione, tristezza. Sentimenti e stati emotivi intrecciati in una catena invisibile che imprigiona ogni mio gesto e mi rende una statua di marmo.

Non è il corpo che non risponde. È la mente, martoriata, che consuma ogni mio atomo.

Sopravvivere è molto più difficile di vivere.

Guardo l'armadio senza ante e mi trascino a fatica verso di lui. Ogni mensola mi scorre davanti agli occhi come un elenco di fervidi ricordi, fino a quando non arrivo in basso e... lo vedo: un piccolo pezzo di cotone celeste, piegato con cura, lì ad aspettare di essere fatto mio. Lo afferro con una mano tremante, ma il gesto è privo di forza. Chi lo dovrebbe indossare non è più accanto a me e, dannazione, non lo sarà mai più. Il mio bambino vuole la sua magliettina. Lo so, lo avverto. E io non posso fargliela recapitare, perché sono ancora inadeguata.

Mio figlio, oggi, mi manca un po' di più.
E fa troppo male.

Lo specchio inchiodato qui davanti a me oggi rappresenta una minaccia. Potrebbe darmi il corpo di grazia. Riflet­terebbe un'immagine che non voglio vedere.

Allora afferro il piumone posato sul letto e, in punta di piedi, mi impegno a ricoprire la base riflettente. Ho cura di incastrare i lembi del tessuto nelle giunture dietro gli spigoli, così che non crolli tutto. Non posso permettere che neanche un riverbero del mio corpo emerga.

Mi sento grassa, oggi.
E mi vedrei inaccettabile.

Tutta colpa di quei bocconi di buon cibo che è solito preparare Bass. Accidenti a lui.

Indietreggio e ammiro il lavoro che ho fatto con il piumone, sperando che sia abbastanza. Ma la mia speran­za si sgretola in un attimo, come un castello di sabbia a ridosso del bagnasciuga: la coperta, come se fosse viva, scivola via dai ganci e cade sul pavimento. E lì, nello specchio nudo, la mia immagine appa­re. Un potente tremore serpeggia lungo la spina dorsale mentre mi avvicino e mi analizzo seppur controvoglia.

Da quando il mio viso è così gonfio?

Da quanto ho la pancia sporgente e dilatata?

Da quando sembra che i jeans non riescano a contenere i rotolini di grasso che circondano i fianchi?

Ogni respiro diventa più asmatico quando mi affretto a raggiungere, quasi senza pensare, il sedile del guida­tore. Le mani formicolano mentre mi chino, cercando alla cieca la bilancia nascosta quì sotto. La trovo e con un gesto rapido mi sfilo le scarpe, una dopo l'altra, e poi mi peso.

45 chili.

Ieri ne pesavo 44.

Oggi 45.

Ecco perché ho il viso gigante, ecco perché ho la pancia, le cosce sporgenti. I rotolini.

Sto fallendo.
Sono ingrassata.
Ho fallito.
Sono obesa.

Uno strillo lacerante mi sfugge dal petto, sale alla gola e riecheggia per tutto il camper. Non sono io a emet­terlo, ma la mia frustrazione. Come posso dirigere il circo se già ora, nella vita di tutti i giorni, non riesco a dimagrire?

Sento il cuore accelerare come un destriero in corsa, il respiro diventare ancora più corto. Mi manca l'aria. Quella stessa aria che starei occupando con il mio inutile grasso.

Devo andarmene di qui.
Soffoco.

Esco dal camper barcollando, cercando disperatamente qualcuno che mi aiuti a non vedermi. Nei miei occhi c'è ancora il riflesso dell'azzurro tenue di quella magliettina che non riuscirò più a consegnare al mio bambi­no. Ma nel mio cuore, invece, c'è solo una disperata e forse incoerente necessità: trovare l'arcobaleno più sgargiante che esista, affinché mi aiuti a dare una tregua a questo senso di folle disperazione che avverto.

Non cammino con furia, ma con una lentezza affannata. Anche se voglio solo scomparire, una parte di me si aggrappa a qualcosa, a qualcuno. Qualcuno di limpido come l'acqua di una cascata che scorre incontaminata, immune a ogni tipo corruzione. E così mi trascino fino al tendone, cercando rifugio come ho fatto dopo la morte di Namira.

So che lui è qui dentro, e infatti lo ritrovo in pista, sul soffitto, impegnato nella sua danza.

Non oso interromperlo, non vo­glio turbare il suo pomeriggio. Sono solo scappata da me stessa e ora mi basta respirare un po' della sua fles­suosa serenità per mettere da parte, anche solo per un attimo, questo senso di inadeguatezza che mi opprime. Mi appoggio sul bordo che porta in tribuna e inizio a piangere sommessamente, dando in pasto al tendone ogni scheggia del mio dolore.

Dio, ti prego, ascoltami.

Vorrei solo poche cose adesso. Semplici. Le uniche in grado di salvarmi: l'abbraccio del mio bambino; le sue manine sulle mie guance; le sue labbra piccoline sulle mie.

Tutto mi è stato negato in un preciso momento, quando quel tipo delle onoranze funebri mi disse senza alcun tipo di tatto: «Se sei pronta, possiamo chiudere la bara».

Ma io non ero pronta a lasciarlo andare. Nessuno, al mio posto, lo sa­rebbe stato.

A malapena mi stavo convincendo a lasciarlo con le sue maestre per il tempo di alcune mattine. Aveva iniziato l'asilo quell'anno e stava conoscendo qualche amichetto nuovo, che rispettava con delicatezza la sua cecità. Il lunedì aveva salutato Vladimir dicendogli che si sarebbero incontrati la mattina successiva e che gli avrebbe portato il tamburello di zia Mira per suonarlo insieme. E invece lui, all'asilo, non ci è più tornato, perché morì durante quello stesso e maledetto martedì.

Bass non mi nota subito. Si accorge della mia presenza solo nel bel mezzo di un'evoluzione sui tessuti aerei, quando si ritrova a testa in giù, rivolto verso di me.

«Layla.» Scende rapidamente, senza esitazioni, districando le gambe dai nastri con movimenti veloci e convulsi. At­terra e attraversa la pista in un lampo. «Ehi, c-che succede?» mi chiede, ansioso.

«Succede che non sono mai stata meglio» mugugno in lacrime, cercando di dare credibilità alla mia bugia.

«Oh, lo vedo...» asseconda il mio gioco, ma i suoi occhi si ricoprono di tristezza. «Mi c-cercavi?»

«Cercavo Ollie, in realtà» mento ancora, non so neppure io perché.

Bass non si arrende. «E ti andrebbe comunque di dirmi cosa ti s-sta facendo piangere, anche s-se non sono Oliver?»

«Fino a poco fa stavo ridendo.» Forse sto tentando di respingere il dolore con questa schiera di menzogne, ma sento che sono all'acme della mia insostenibilità. Ho bisogno di sfogarmi. Un sospiro profondo esce dalle mie labbra e porto le mani agli occhi. «Cazzo, non è vero. Non è vero niente. È tutto il contrario.» Le parole scoppiano fuori, incontrollabili. «Io cercavo te. Cer­cavo te perché... perché non voglio piangere più. Io... io non respiro!»


Si avvicina al mio corpo ripiegato in avanti e mi sfiora le braccia. «C-calma, Layla, sono qui.»

«Bass, non respiro. Aiutami» ripeto boccheggiando, e una scia di panico corre fino alla testa, provocandomi un dolore sordo lungo tutta la fronte.

«Piano.» Il suono della sua voce sembra l'unica àncora che mi tiene legata a questa realtà che, altrimenti, mi sfuggirebbe tra le dita.

«Poco alla v-volta, lascia fare ai polmoni» mi dice ancora in tono vellutato, mo­strando con il suo stesso respiro come devo fare.

Espande e ritrae il costato, e io cerco di imitarlo. Butta fuori il fiato, lo faccio anch'io, mentre mi aggrappo all'interno del suo avambraccio tatuato, sporco di pece. Nella mente riaffiora il ricordo della colazione condivisa a Lione. Quel momento semplice, nel quale gli ho fermato la mano nervosa con cui faceva tintinnare il cucchiaino contro la tazza. Ora è lui a tentare di fermarmi, in un gioco perfetto di reciprocità.

Poco dopo, quando sento riappropriarmi dell'aria, Bass mi sfiora entrambi i palmi. Le sue dita si at­torcigliano delicatamente intorno alle mie. Conduce le mani sul suo petto, tenendole ferme nelle sue. I suoi pollici tracciano cerchi lenti sulle mie nocche.

«V-va già meglio, vero?» mi chiede.
Annuisco, con gli occhi gocciolanti di lacrime. Lui mi osserva per un attimo, poi parla con voce più bassa. «Qualcosa mi dice non hai m-mangiato per niente oggi.»

Non rispondo.

«Lo s-sai che non va bene?» riprende.

«So che è il mio obiettivo» rispondo con un filo di voce che trema sotto il peso dell'ammissione.

«È un p-piccolo guaio, invece» replica subito, anche se la sua intonazione rimane delicata, come se stesse cercando di non farmi sentire in colpa.

«Non farmi più mangiare, ti prego.» Le mie mani premono di più contro le sue e le stringono con forza. Percepisco sotto i polpastrelli la ruvidezza dei piccoli graffi che ha intorno alle unghie, la sporgenza dura delle sue dita callose.

Non voglio che se ne vada, non adesso. La sua presenza mi dà sollievo, anche se so di non essere facile, di non essere gradevole, di non essere niente di ciò che ero un tempo.

Sono fatta di problemi, Bass, e tu di soluzioni.
Io di tristezze e malinconie, tu di positività e perseveranza.

Ma rimani qui. Rimani con me.

Perché ti incastri bene nelle profondità del mio buio.

E perché, se in quelle strettoie regni tu, penetra quel piccolo fascio di luce che mi impedisce di impazzire.

Sembra ascoltare le mie suppliche interiori, dato che, dopo aver rilasciato un bacio ai miei polpastrelli mi dice: «Io queste mani non le lascio, ma t-tu non lasciarti andare».

Melinda ci sorprende. Accidenti. È davanti all'ingresso del tendone, con il volto irritato. Avanza e mi chiede se posso lasciarla sola con Bass. Lo ringrazio con gli occhi, divincolo le mani dalle sue e vado via, anche se non vorrei.

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