22 - Offrire
Bass
Una leggera febbre mi ha impedito di partecipare ai festeggiamenti del Carovana di ieri: mal di testa, raffreddore, brividi e un termometro che non scendeva sotto i trentasette gradi e mezzo. Quando il mio corpo ha bisogno di una pausa, me lo fa capire costringendomi a letto. E fa bene, perché altrimenti non mi fermerei un attimo.
Preferisco non pensare che forse le acrobazie non siano più adatte ai miei trentadue anni. La sfiga non può raggiungere questi livelli. Adrian ha quasi dieci anni più di me ed è ancora un funambolo, per fare un esempio. È stato proprio lui a dirmi che, mentre ieri mi contorcevo a letto, tra i parcheggi è scoppiato il caos.
Pare che Layla abbia litigato con Lorenzo e che siano giunti alle mani. Lei ha rischiato di svenire mentre urlava, e uno dei trapezisti francesi l'ha accompagnata al suo camper.
Non so esattamente quale tipo di relazione ci sia tra i due. Forse stanno insieme, ma non mi sembra una di quelle coppie felici, considerando che lei lo chiama "bestia" e si rifiuta di ballare con lui.
Forse sono una coppia che si è appena lasciata? Può essere.
In ogni caso, non mi piace quello che questa ragazza sta subendo, e non mi riferisco solo ai suoi scontri con il giocoliere italiano, ma anche a quelli con Melinda. Ieri, forte degli elogi che i giornali le riservano come direttrice artistica, ha cercato di avvicinarsi a me con un tipo di dolcezza che da tempo non mostrava. Dopo il modo in cui ha trattato la mangiafuoco, non sono riuscito a ricambiare. Sono rimasto freddo. Molto freddo. Questa volta ho deciso io: non ci ho fatto l'amore.
Ho evitato di dirle che ho sentito le frasi umilianti con cui ha aggredito la nostra dipendente prima che entrasse in scena. Non l'ho fatto perché volevo evitare un nuovo battibecco e perché sono certo che, dopo aver visto la sua esibizione, non la tormenterà più. Del resto, se siamo diventati leggenda, è perché Layla ha domato il fuoco da vera maestra.
Tutti elogiano il collettivo, ma io, due sere fa, ho visto brillare solo lei.
Mi dispiace soltanto di non essere stato presente ieri. Non perché volessi intromettermi nella sua vita privata, né in quella di Lorenzo, ma per evitare tensioni e perché, a mio parere, ricevere conforto da qualcuno estraneo alla situazione avrebbe potuto farle bene.
Ieri non c'ero.
Ma oggi sì, grazie alla richiesta d'aiuto di Oliver.
Dopo aver preso due linee di autobus, arriviamo al luogo indicato da Layla. Di fronte a una mastodontica cancellata in ferro battuto, mi rendo conto che il posto che mi era stato accennato da lui non è affatto quello che avevo immaginato. Pensavo che la mangiafuoco volesse portare il suo spettacolo in strada, e invece... invece siamo in un cimitero.
Camminiamo lungo un sentiero stretto, su un manto di breccia e terra umidiccia, tra alcune lapidi consumate dal tempo, alcune ricoperte persino da un velo di muschio. Sono intervallate da statue di angeli dalle ali piegate e croci di grandezza considerevole.
Non posso non contaminare il silenzio con la mia voglia di capirci di più. «Oliver n-non mi aveva detto che i tuoi bambini fossero, come dire, ecco... così.»
«Piccolini passati a miglior vita, purtroppo, eh già.» Layla sospira, avvolta in un lungo trench verde-guerra che assottiglia ancora di più la sua figura, con il mio origami che le spunta dalla tasca. Ha la schiena ricurva, e pare che faccia quasi fatica a stare dritta. Gratta delicatamente lo stelo di una rosa bianca, legata insieme ad altre da un foglio di giornale. Le ha acquistate dopo essere scesi dal secondo autobus e non le ha mai staccate dal petto.
Si china sulla tomba di un angioletto scomparso dieci mesi fa e deposita una delle sue rose in una piccola anfora fissata alla lapide. Bacia l'immaginetta incastonata in una cornice d'ottone, e il mio cuore si strozza a causa una stretta invisibile. Mi chiedo se conosca il bambino. Auguste Moreau era il suo nome, e la foto, che lo mostra con un sorriso allegro e un peluche dei Minions schiacciato contro la guancia paffuta, mi colpisce come uno spillo nello stomaco.
Quel Minions.
Sarà rimasto nella sua cameretta, insieme a tutti gli altri giocattoli ormai inutilizzati. O forse è finito nel feretro con lui.
Sono in piedi, immobile dietro Layla, sperando vivamente che non si volti a guardarmi. Mi sorprenderebbe con una smorfia contratta e gli occhi commossi, perché io, di fronte a queste cose, non riesco a rimanere impassibile. I bambini che muoiono e gli anziani abbandonati sono il mio punto debole.
Per offrire l'omaggio ad Auguste, Layla ha dovuto cedermi il mazzo di tutte le altre rose, e ora presso alcune spine tra le dita quasi senza accorgermene, immaginando quanto possano essere devastati i familiari di questo bambino.
D'improvviso, Layla gira la testa verso di me e io sobbalzo, coprendomi la faccia con i fiori in un gesto istintivo.
«Bass?»
«Mh?»
«Perché ti nascondi?»
Perché sono uno dal cuore tenero e non voglio che mi vedi distrutto.
«Nulla di che. S-sono semp-semplicemente scattati i riflessi dei nervi. Ogni tanto partono da soli.»
La mia abilità nel raccontare bugie è in continua crescita. Questa scusa però mi rende alquanto ridicolo, così abbasso i fiori e cerco di comportarmi da uomo. Layla mi fa subito cenno di avvicinarmi.
«Da quali bambini pensavi che saremmo andati?» mi chiede, mentre mi inginocchio accanto a lei, davanti alla lapide.
«Ho creduto che volessi e-e-esibirti per loro in giro per Lione, magari fuori dalle scuole. Sai, noi del Powell Circus ogni tanto lo facevamo per p-promuovere lo spettacolo.»
Mi sorride debolmente. «E a quale conclusione sei arrivato quando hai visto che ti ho trascinato qui?»
Faccio spallucce. «Che a-a-anche i morti avessero bisogno di esibizioni circensi, ogni tanto. Un genio, tu, ad averci pensato.»
Allarga gli occhi, fissandomi quasi esterrefatta. Che ho combinato?
«Quanto sono carine le tue risposte» mi dice poi, con il labbro inferiore che trema. «Mi spiazzano sempre.»
Io che spiazzo con le mie parole?
Questa mi è nuova.
«O-o-ora però mi chiedo dell'altro. Mi chiedo se conoscessi questo bambino. Non so, potrebbe essere un tuo... cugino? Non rispondermi, se ti sembro schif-schifosamente inopportuno. Noi inglesi, soprattutto del Merseyside, siamo d-dei cagacazzo in certe cir-circostanze.»
«Non sei inopportuno, devi credermi» risponde. Poi torna ad accarezzare la foto del bambino. «Lui no, non è mio cugino. Non lo conosco nemmeno.»
«Quindi non hai un c-cugino morto?»
«Decisamente no.»
Sospiro, sollevato. «Okay, m-meglio così. Tutti in salute, allora.»
Ci spostiamo verso un'altra lapide. Questa volta, l'angioletto con una rosa di Layla si chiama Clotilde e aveva sette anni. I suoi capelli biondi, lisci e perfettamente acconciati, la fanno sembrare la figlia di Barbie. Chissà quanto era felice, quel giorno, di girare per casa con le codine legate da grandi nastri a pois.
Io qui, oggi, ci perderò il cuore. È sicuro.
Accovacciati, rimaniamo entrambi in silenzio, con le dita sulla fotografia. Ruoto di poco la testa in sua direzione e noto Layla sensibilmente vicino a me.
Sembra che anche lei graviti nel fondo più lugubre dell'universo, assieme a questi corpi decomposti, sotto i brandelli di sogni decimati, eppure il suo sguardo si mantiene forte, vivo abbastanza per cercarmi e trovarmi. Ci osserviamo per brevi istanti, senza dirci niente. Senza quasi respirare, forse. I suoi occhi sono di un romantico taglio a goccia, d'un azzurro più freddo del granito di queste tombe che passa sotto i nostri polpastrelli.
Perché siamo qui, Layla?
Non voglio rivolgerle domande esplicite. Mi limito a fare quello che fa lei.
Offro un fiore a Jean, un bambino di pochi mesi. Troviamo sua nonna vicino alla tomba, e quando nota il nostro gesto, ci abbraccia entrambi, raccontandoci che i suoi giovani genitori l'hanno trovato così, senza respiro nella culla, in una mattina di primavera come tante.
Cristo.
Cammino senza più battere le palpebre e forse nemmeno sento i piedi, che continuano comunque a strisciare sulle pietroline.
«Vuoi sapere perché siamo qui?» interviene Layla, qualche attimo dopo.
Tiro su con il naso. «Ho l'impressione che tu n-n-non voglia dirlo. Allora mi limito ad accompagnarti e ad aiutarti, per-per quanto mi è possibile.»
Siamo davanti alla lapide di Ruben, e sono io stesso a prendere l'iniziativa, anticipando il passo di Layla. Sfilo una rosa dal fascio che sorreggo sull'avambraccio e mi rivolgo con educazione alle due persone intorno, che osservano con dolore e rammarico il sorriso del piccolo angelo, impreziosito da un apparecchio a stelline. «Scusate, posso lasciare un fiore? Ne abbiamo p-portati tanti.»
La ragazza con i capelli castani raccolti in una coda annuisce, e io mi inginocchio per sistemare lo stelo nel vaso, accanto al ceppo di un bouquet di margherite.
In meno di mezz'ora, le rose sono finite. Mi rimane la carta di giornale che appallottolo tra le mani, mentre Layla si sbottona un po' il trench, forse avvertendo caldo visto che è spuntato un sole davvero brillante.
In seguito, mi indica una donna poco distante. È fuori dalla cancellata e stringe la mano di un bambino in età prescolare che addenta un croissant.
«Io ero una così» mi sussurra così debolmente che credo di non averlo neppure sentito. La guardo interrogativo e lei annuisce, dandomi conferma di ciò che ha detto.
Quella donna mi sembra la mamma di quel piccolino, ragion per cui credo che Layla si stia riferendo a un rapporto di parentela... interrotto?
Essendo oggi in un cimitero, penso allora che stia facendo accenno a qualcuno che è morto.
No.
Mi auguro solo che non sia un figlio, perché potrebbero mancarmi le forze.
Mi inibisco. Non cammino. Non voglio pensare oltre. Meglio omettere domande su chi sia e interrogarla su cose diverse. «Dove r-r-riposa? Se posso chiedertelo.»
«A Vilnius. Quando è successo, eravamo lì vicino con la compagnia» risponde, dondolando appena sulle gomme delle Converse. «5 ottobre: sono passati due anni dalla sua salita al cielo e da allora non sono più tornata a casa. Ho voluto che rimanesse lì perché ci sono i miei genitori. Si prendono cura della sua sepoltura.»
«Ora capisco tutto. S-so perché siamo qui.»
«È come se questi fiori li portassi a...» Si blocca, la voce le trema, ma guardandomi dritto nelle pupille si fa coraggio e aggiunge: «mio figlio».
Cazzo, aiuto.
Ora svengo.
Che faccio? Che non faccio?
Mi viene voglia di darle una pacca sulla spalla. L'abbraccio?
Starò girando gli occhi all'indietro per quanto mi senta male.
Povera Layla.
Di certo, non dispongo dei mezzi per risollevarla da una sofferenza così lacerante, ma devo cercare un modo, uno solo per tentare di frenare quelle lacrime che già le stanno impregnando le ciglia. Immagino abbia pianto tanto da quando è accaduta la tragedia e io non voglio che pianga anche oggi, qui, con me.
Mi piacerebbe vederla sorridere ancora.
Ma sorridere di gusto.
«Che ne d-dici se ne prendiamo delle altre?» mi invento, segnando con il mento la carta di giornale.
«Per oggi può bastare, non preoccuparti. La maggior parte dei bambini ha avuto una rosa e...»
«Questa volta li p-pa-ago io e li offro a te» la interrompo, donandole un debole sorriso. «E dopo ti porto a fare colazione. Mettiamo le rose sul ta-ta-ta-ta-tavolino, fingiamo di essere due persone d'affari della Lione che c-conta e poi ordiniamo un éclair.»
La vedo illuminarsi appena, e il mio cuore batte più forte. Solo per esserci riuscito, mi sento un vincente.
«Tavolino: dillo ancora, Bass. È bello come lo dici.»
«Ti porto a fare colazione: ecco cosa ti dico ancora» rispondo con decisione, non balbettando per la prima volta davanti a un estraneo nella mia puzzolente vita.
Grazie, Gesù bambino.
Grazie, nonnina Elín.
Grazie a tutti coloro che vegliano sulle mie figure di merda in fatto di linguaggio.
Spero sia chiaro che non sono previsti rifiuti o repliche.
Devo dire che funziona, perché accetta immediatamente. Torniamo al chiosco dei fiori e poi mi metto a cercare dal telefono la pasticceria più buona.
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