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19 - Cadere



Layla

Mi dirigo verso il tendone, posando di tanto tanto i miei occhi su Ollie. Un quesito esistenziale brulica nel mio cervello: ha una macchia di caffè sul cavallo dei pantaloncini sportivi. È secca, frastagliata, e appare tut­te le mattine nello stesso identico punto. Perché tanta ripetitività? Non succede mai che si sporchi la parte su­periore del corpo, ovvero la maglietta, la camicia o la felpa. Sembra quasi che, ogni giorno, il caffè e il suo pene aspettino impazienti di incontrarsi per vivere chissà quale esperienza mistica insieme.

Ollie tronca il suo lungo discorso, forse intuendo che la mia mente è persa in chissà quale congettura. Mi schiocca le dita davanti agli occhi assenti, poi blatera: «Ehi, ci sei? Mi stai ascoltando? E smettila di fissarmi lì! Lo sai che il mio pisipisi non si emoziona così facilmente».


«Stai tranquillo. Non voglio fare del sesso con te» rispondo, alzando la vista sino al suo viso yankee, arricciato in una smorfia presuntuosa.
«Dicevi?»


«Dicevo che stamattina ho fatto una ricerca, Fragolina.»

«Quale ricerca?»

«Kenna Powell era la dea del fuoco.» Rallenta il passo, mi si piazza davanti e si gira, dando le spalle al ten­done che dovremmo raggiungere in fretta, visto che le prove mattutine stanno per iniziare. «È morta tredici anni fa, a Roma, durante una tappa del circo. Accadde all'improvviso: il giorno prima tutti l'avevano applaudita per la sua migliore performance, il giorno dopo la trovarono accasciata in strada.»


Oddio.


Sta parlando della madre di Bass?


Deglutisco, anche se la bocca è quasi asciutta. Di colpo, Ollie sembra perdersi nei suoi pensieri, come se non sapesse più come proseguire. «In strada o su una branda? Non ricordo... Ho finito il nero, e anche gli altri colori. Così ho stampato il vuoto.»


«Hai usato la stampante di Gérard per la tua ricerca?» chiedo. Lui annuisce. «Se ne accorgerà e darà la colpa a te, come sempre.»


«Non preoccuparti, lo ammalierò con qualche citazione dall'Orlando Furioso.» Si lecca il labbro con aria ma­liziosa. «Torniamo alle cose scottanti: Kenna aveva divorziato da Xavier Powell qualche anno prima. La ra­gione è "elementare, Watson!". Il Don Giovanni di Liverpool si era infatuato della cosiddetta sacerdotessa di Buddha e proselita del botox, adesso ormai quarantacinquenne.»


Melinda ha quarantacinque anni, quindi. Devo ammettere che li porta davvero bene, sembra quasi una ragaz­zina con quelle labbra a canotto.


«Quindi l'ha lasciata per lei» commento, riflettendoci su per un attimo. «Povera Kenna. Deve aver sofferto molto, soprattutto se lo amava davvero.»


Ollie mi rivolge un saluto militare. «Ecco la tua empatia: non le avevo ancora dato il buongiorno oggi.»

«Dopo la separazione, Kenna è comunque rimasta al Powell Circus» continuo, reprimendo un piccolo sospi­ro. «Hai idea di cosa questo significhi? Ha dovuto metabolizzare il danno di essere stata lasciata con un figlio adolescente e la beffa di dover assistere alla nuova vita di suo marito. Saranno stati anni infernali.»


«E pensa a Bass, poveretto: non solo ha dovuto affrontare il trauma del divorzio, ma anche la morte improv­visa di sua madre. E per di più, avere Annabelle come matrigna lo rende praticamente un martire» aggiunge, con acida enfasi. «Sembra che sua madre sia morta a causa delle complicazioni legate alle so­stanze infiammabili che assumeva per rendere i suoi numeri spettacolari. Era una perfezionista, non ne aveva mai abbastanza. Esattamente la fine che farai anche tu.»


Tiro su col naso e abbasso il berretto fino a coprirmi le palpebre. Meglio che Ollie non legga nel mio sguardo la smania che provo all'idea di voler morire anche oggi. Gli rovinerei la giornata, come ormai succede da due anni.

Continuo a immaginare il tempo di qualità che potrebbe trascorrere lontano da me: costruirsi una vita, conoscere nuove persone, divertirsi, prima che l'agosto prossimo compia trent'anni e qualcuno inizi a chia­marlo "signore". E invece è sempre qui, a cercare di prendersi cura di me e dei frammenti polverosi della mia anima. Forse è lui il vero martire da calendario.


«La mia ricerca non finisce qui» riprende, sollevando con delicatezza la mia visiera e continuando il suo racconto come se ciò che ha appena detto non abbia più alcuna rilevanza, almeno in apparenza. «La tua nuova amichetta, quella che ti ha restituito il tamburello, è la figlia della bambola assassina e di patron Po­well. Quindi, a tutte le disavventure affrontate da "San Coniglietto", si aggiunge anche una sorellastra. Scar­lett è nata col cordone ombelicale attorno al collo. È un'informazione che ho annotato. Non so, potrebbe tor­nare utile.»

«A cosa, di preciso?»


«Cerco solo di non tralasciare nulla» risponde prontamente, accendendo la sua sigaretta elettronica. «Ah, vuoi sapere quanto calza Scarlett? Ha il piede piccolo come quello di un pisello.»


Se Scarlett sapesse che uno sconosciuto ha indagato sulla sua vita e sulle sue misure, credo che penserebbe il peggio di lui e urlerebbe sconvolta. Un po' come ha urlato Melinda, quando Bass mi ha permesso di re­stare una mangiafuoco.

Dio, se solo ricordo quel momento...


È solo grazie a lui se tra pochi giorni, davanti al pubblico francese, potrò esibirmi nella mia arte. Mi dispiace solo per quello che ho sentito nel dettaglio tramite Ollie riguardo a sua madre, perché è per questo che Me­linda voleva farmi fuori: per un lutto atroce che il mio capo ha vissuto in prima persona.


Mi tolgo il cappello e le mie ciocche sottili danzano con la brezza fresca che proviene dalla Saona. «Pensi che Melinda tenterà ancora di impedirmi di esibirmi?» gli chiedo.


«Mmh, è molto probabile, sì.»


«Ed eccola che ritorna, la morte, a mettermi i bastoni fra le ruote» allora ammetto, mentre mi spengo a poco a poco. «Quella di Kenna minaccia le mie fiaccole e mi impedisce di sopravvivere degnamente per il tempo che mi rimane. Un decesso che si sovrappone all'altro, ricordandomi di assecondarli tutti e di soccombere come hanno fatto i miei affetti più cari, come ha fatto Namira, come ha fatto il mio... il mio piccolino.»

«La morte non si asseconda, Fragolina. La si accetta per quella che è, perché nessuno sfugge al suo balletto raccapricciante. È un po' come Danza Kuduro con "la mano di Thanatos arriba, cintura sola," capisci?» can­ticchia e ancheggia, mentre il fumo della sua sigaretta all'odore di cheesecake al mirtillo lo avvolge. Poi mi sor­ride con i suoi denti bianchi. «Ma, da questo momento in poi, cagaci sopra e mostrati impassibile nei suoi confronti. Ormai sai come funziona. Pensa a questo: tu ed io non abbiamo più nulla da perdere. Tutto ciò che non doveva finire sotto terra ci è già finito, eppure siamo ancora qui a parlarne. Cos'altro potrebbe scalfirci? Niente.» Annuisce per confermare il suggerimento. «Ora che conosciamo la storia dei Powell, forse è arriva­to il momento di essere un po' egoisti: Bass ti ha dato l'okay e Kenna non ci riguarda. La sua morte non è affare nostro.»


«Non è affare nostro.»


«No, non lo è.»


«Non lo è» ripeto.


Ollie allunga un braccio intorno alle mie spalle e appoggia la sua tempia sulla mia. Io, in risposta, lo abbrac­cio. Quante volte ci siamo stretti così, specialmente nei momenti di dolore condiviso. È vero: non abbiamo più nulla da perdere, a parte rispettivamente noi stessi.

Ollie dice che senza di me è spacciato.


Ma io, senza Ollie, non sarei ancora qui.


Faccio un tiro alla sua sigaretta, prima che una musica da discoteca inizi ad accarezzare i nostri tim­pani. Proviene dalle plastiche del tendone. Il mio amico sogghigna soddisfatto, intuendo quale sia l'insolita vittoria del nostro circo rispetto all'altro. «Ho l'impressione che stamattina la direttrice non sia particolarmen­te felice.»


«Avrà ceduto al nostro modo di riscaldarci prima delle prove?» chiedo.

«Claudine si sarà fatta valere. Melinda può ficcarsi lo yoga nel culettonsis rifatto!» Brioso, mi tira per un polso e insieme entriamo nella tensostruttura. La pista di scena ospita quasi tutti i circensi del Fleurs, vestiti con tute ginniche. Alcuni sono già in movimento al centro, mentre altri, immobili ai bordi, osservano la gio­vane contorsionista Claudine che si dimena vicino a uno stereo portatile.

Ollie mi lascia, accelerando il passo per unirsi alla mischia e ballare con i colleghi. Si sfila la maglietta con la sensualità di uno spogliarellista, la getta a terra e comincia a twerkare con le acrobate che gli si strusciano addosso.

Il tendone si è trasformato in una sorta di club esclusivo, dall'intrattenimento piuttosto peccaminoso e succinto. Anche Lorenzo, alle spalle di Ollie, si dondola a ritmo di musica. Non è euforico come il resto del gruppo, ma sembra quantomeno libero.

Gli inglesi, invece, osservano inermi i membri del Fleurs dai sedili della tribuna, e questo mi fa quasi sorride­re. Chissà cosa pensano nel vedere i miei colleghi produrre gridolini animaleschi o tribali. Probabilmente sono imbarazzati. Scarlett è l'unica a oscillare la testa, seguendo con divertimento la baldoria da uno dei pa­rapetti vicino alle gradinate. Corinna, invece, si copre le orecchie e ha tutta la mia comprensione: il volume della musica è troppo alto.


Quando dalle casse di amplificazione parte Mas que nada, un urlo congiunto si eleva, tanto potente da sem­brare quasi in grado di far tremare la struttura metallica del tendone.

Uno per uno iniziano a gridare «Per Na­mira!», perché questa era la sua canzone preferita, quella che spesso chiedeva durante i momenti dedicati alla danza di riscaldamento del Fleurs. È stato Ollie a far partire il brano, e sono quasi certa che finirà nella nostra playlist quotidiana per esorcizzare la sua dipartita.


Sedendomi ora in un posto laterale della tribuna, in completa solitudine, Namira mi sembra più viva che mai. È nel sangue dei miei colleghi, che affrontano con coraggio il futuro.

Avevo detto che i morti non si fanno sentire, eppure la mia migliore amica mi sta sussurrando che, in qualche modo, è ancora presente. È nei pen­sieri positivi che coltivo da quando è morta; è la mano invisibile che mi sostiene quando sono al tappeto. Credo che anche l'accettazione del fuoco da parte di Bass sia una sua manovra.


Ollie corre veloce come una lepre, facendosi strada tra i nostri amici per completare una missione personale: afferrare una mano di Scarlett. Con forza, la solleva fino a metterla in piedi. La ragazzina zoppica, perdendo quasi l'equilibrio. «Vieni a ballare con me, bimba con il piede di un pisello! E con "pisello" intendo le palline verdi che mi piacciono molto. Le mangio senza scongelarle, sono più croccanti. A te piacciono?»

Scarlett sbatte le ciglia, visibilmente perplessa. «Non mi piacciono i piselli, né i legumi, né le verdure. Man­gio solo le melanzane.»


«Vitamina C, K, B6, fosforo, magnesio. Non male, bimba-melanzana. Quelle bastano e avanzano nell'età dello sviluppo.»


E la trascina via con sé, conducendola tra gli artisti di Dubois. Sebbene i suoi metodi possano essere critica­bili, Ollie sta compiendo un gesto meraviglioso: attraverso la sedicenne, cerca di includere gli artisti del Po­well Circus nelle nostre tradizioni, a nome di un'inclusività necessaria per far funzionare le cose.

Scarlett, in­coraggiata dal gruppo, inizia a sorridere. Batte il piede a ritmo di musica e poi comincia a ballare, muovendo le braccia a scatti per simulare un burattino robotico.

Parte una calorosa ovazione da parte del Fleurs, che provoca un'onda di entusiasmo visto che anche i membri del Powell Circus cominciano ad applaudire. Poco a poco, si avvicinano alla pista e si cimentano nelle danze.


D'un tratto, vedo Lorenzo emergere dal gruppo e avvicinarsi a me. Che cazzo vuole?


Si appoggia al parapetto dove sono io e inclina il busto. La canottiera grigia si allarga, rivelando i suoi petto­rali, i quali mi suscitano un certo disgusto e brutti ricordi.


«Vuoi ballare con me?» mi chiede, con un velo di schernente ironia nella modulazione del timbro.


Ma che faccia di bronzo.


È così vicino che il suo respiro amaro si fa sentire sulla mia guancia. E i suoi lineamenti, Dio, quanto mi tor­mentano. Sono identici a quelli del nostro bambino, quasi come se stessi guardando una sua fotografia.

Il mio cuore inizia a battere forte e l'impulso di allontanarlo diventa irrefrenabile. Così premo una mano contro il suo petto e lo respingo.

Poi mi pento. Non di averlo respinto. Mi pento di quei tempi in cui mi ostinavo a rendere sopportabili i detriti di un'indole tanto pestilente come la sua.


«Stammi alla larga, bestia.»


Il suo sguardo si indurisce. «Smettila di chiamarmi così, va bene?»

«Perché, altrimenti?» ribatto, drizzando la schiena in segno di sfida.


«Perché altrimenti un giorno ti farò cadere, Layla. E ti farò molto male.»


«Tu mi hai già fatto cadere.»


«V-vv-vedessi quante volte cado io.» Una voce balbettante interviene nella nostra triste discussione. Provie­ne dalle mie spalle.


Lorenzo solleva gli occhi e io mi giro di scatto. Bass è seduto su un sedile più alto rispetto al mio, con un foglio di carta piegato in tre sulle cosce. Ha un'espressione seria, segno che ha ascoltato la nostra conver­sazione. Quasi me ne vergogno, perché non voglio apparire bellicosa agli occhi del mio capo.

Si alza in piedi, abbassandosi il cappuccio della felpa nera. Ha un elastico sportivo che tiene fermi i capelli fluenti e delle garze intorno alle mani ferite. Sospetto che siano ridotte in quello stato a causa dei tessuti aerei e di quanto li manipola.

Scende alcuni scalini e arriva alla mia postazione. «B-b-ballo io con te, Lorenzo, se hai proprio voglia di di­menarti con qualcuno in pista. Alla signorina Urbonaitė n-non va, okay? Lasciala i-in pace.»


Accidenti.


Ho bisogno di qualche secondo per metabolizzare quanto ho appena sentito.

Ha pronunciato male il mio cognome, ma chi se ne importa. Ciò che sta mandando in cortocircuito il mio raziocinio è che abbia appena preso le mie difese.

Quando si finisce in una relazione tossica, si perde l'abitudine a questo genere di atteggiamenti. Si è portati a pensare che il prossimo possa calpestare il tuo cuore e la tua anima per errori che tu stessa, solo tu, hai commesso. Ti senti colpevole di tutto e finisci per credere che forse i soprusi te li meriti. Il suo intervento, invece, mi fa capire che il male che si riceve non è mai una nostra responsabilità.

Lorenzo non risponde, Bass non mi degna di uno sguardo, ma entrambi si avviano in pista.

Quando gli inglesi vedono il capo unirsi alla mischia, esplodono in un applauso simile a quello fragoroso de­gli artisti del Fleurs. Scarlett gli corre incontro e lo abbraccia completamente con un'espressione di sorpre­sa sul volto dolce. Forse non si aspettava che suo fratello si unisse a loro.


Bass balla con poco impegno, incollato a sua sorella, facendole fare delle giravolte. Anche se i passi sono solo abbozzati, wow... devo ammettere che sa come muovere quel gran bel culetto.

Io, invece, sono ri­gida come il legno. Ho abbandonato un corso di balli latino-americani dopo un mese per disperazione mia e del mio maestro.

Se avessi un diario di bordo, scriverei questo su una pagina bianca: oggi, il contatto con l'anima di Lorenzo mi ha trascinato nel torbido fiume del passato, ma l'incontro con Bass mi ha immediatamente riportato sulle rive del presente. Quello del Carovana.


E menomale, direi.





Ci siamo. È il 4 ottobre.


Non so cosa riserverà la funebre giornata di domani, ma so cosa sono stasera: una mangiafuoco pronta a in­cantare.


Il burroso profumo dei popcorn si mescola alla frenesia dei bambini che pulsa sotto il tendone. Poco fa li ho osservati da dietro il sipario: sono tantissimi, sparsi tra i loro genitori, con cestini di snack ac­quistati al foyer. Mai avrei immaginato una prima così gremita. Abbiamo fatto il tutto esaurito. La curiosa Lione è pronta a vivere la magia del primo spettacolo del Carovana.


Il tempo per esercitarci è stato breve, ma Melinda e Gérard ci hanno infuso la carica sufficiente. Faremo del nostro meglio, e il "meglio" è qualcosa che trascende i nostri limiti. Perché noi fabbricanti di magia sia­mo così: con la testa tra le nuvole, il cuore colmo di sogni e la determinazione di superare ogni confine.

Im­mersi in questa adrenalinica voglia di brillare, nel backstage tutti sembrano concentrati. Io, forse, sono l'uni­ca con lo stomaco stretto in mille nodi, visto che il mio compito non è solo quello di strabiliare il pubblico, ma anche di rispondere alla sfida di chi mi ha messa alla prova.


Con l'intento di prendere l'ultima boccata d'aria, lascio il camerino e mi avventuro sotto il cielo scuro, intes­suto di stelle scintillanti.

Vorrei accendermi una sigaretta, ma evito.

Nella piccola tasca del mio body color oro conservo uno specchietto per la cipria. Lo estraggo e mi scruto per capire se sono in ordine: il fondotinta, spesso e denso, mi conferisce una tonalità più vivace di quella reale. Le ciglia finte, lunghe e ornate di brillantini alle punte, donano al mio sguardo altrimenti spento un luccichio di vivacità. Nelle mie iridi azzurre quasi vedo riflesso il fuoco che sto per accendere sulla scena.


"Vediamo se riusciremo a sentirti anche noi": sono state le parole di Bass. Risuonano incessantemente nel mio petto, come un'eco impossibile da dissipare.

Il fuoco è la mia unica consolazione, il velluto nel catra­me della mia vita. Mi sentirà. Lui deve sentirmi. Non ho altro scopo se non quello di conquistare i miei capi e mantenere il mio ruolo al Carovana.

«Urbonaitė, eccoti finalmente. Ti ho cercata ovunque.» La voce di Melinda mi distoglie dai pensieri tormen­tati. Si materializza davanti a me con un'espressione quasi imperiosa. Indossa una tutina in lurex che accentua ogni sua curva femminile. I capelli, raccolti in una coda alta e impreziositi da extension blu elettrico, le regalano un'aura ultraterrena.


«L'altro giorno, in ufficio, non scherzavo riguardo al fuoco. Mio figlio è immerso nell'entusiasmo della fusio­ne circense e nella prefigurazione di nuove avventure. Non è lucido. Io, invece, sì.» Mi regala un sorriso denso di minaccia. «Un passo falso e ti licenzio, zuccherino.»

Ma questa qui è nata per darmi la caccia o cosa?

«Mi sentirà, signora Powell» rispondo con determinazione. «È la mia unica certezza.»

«Non ti sentirò. Questa è la mia, di certezza» controbatte. «E un po' spero persino che queste mie parole ti facciano cadere.»


Come, prego?

Strabuzzo gli occhi.


Forse dovrei strapparle il costume e controllare le sue parti intime per capire se si tratti di Melinda o di Lo­renzo travestito da Melinda. Ma il viso è troppo ben fatto per essere un falso, il che mi fa pensare che questa donna abbia seriamente già preso la sua decisione.

Nulla farà la differenza, né la mia migliore condi­zione migliore in pista, né una performance straordinaria. Il fuoco non verrà mai accettato.


Posso dire che percepirmi una causa persa mi sta facendo tremare le gambe? Non è piacevole non sentirsi so­stenuti da chi dovrebbe stipendiarti. Mi abbatte.

Va bene, calma.
Ho passato di peggio nella mia vita. Posso solo andare in pista e fare ciò che è giusto: stupi­re almeno il mio pubblico, offrendo loro la mia arte.


In ogni caso, Melinda è un po' stronza.
Namira le avrebbe già lanciato un sortilegio.


Pochi minuti dopo mi trovo dietro al sipario, al riparo dagli sguardi, ma non dalla burrasca "melindiana" che mi agita l'animo. Il fruscio delle stoffe fa da sottofondo alla mia preoccupazione mentre, con due dita, scosto appe­na il velluto per sbirciare oltre.

La pista centrale dello chapiteau è illuminata da un bagliore accecante, e il pubblico, seduto in cerchio attorno a essa, freme per l'attesa. Il corpo di ballo è già in scena e danza in perfet­ta sincronia. I loro volti, pitturati da un lato con un sorriso rosso che si estende dall'angolo esterno della boc­ca, e dall'altro con gocce di lacrime, riflettono l'ironia del mio stato d'animo: una maschera di allegria su un cuore triste.

All'improvviso, un odore inaspettato mi colpisce alle spalle.

Non il solito acrume delle plastiche che compongono la struttura del tendone, ma qualcosa di mai sentito pri­ma d'ora.

Una fragranza agrumata, quasi esotica, che evoca la freschezza del lime amalgamata a spezie calde come zenzero e cardamomo. Si unisce a lievi spostamenti d'aria, facendomi capire che, in questo piccolo e buio angolo del backstage, non sono sola.

Aiuto.

Per un attimo, il diluvio dei miei pensieri si arresta, ma i tremiti lungo la mia schiena si scatenano e aumenta­no.


Chi c'è?


Chi è dietro di me?


Ora percepisco un respiro caldo solleticare la mia nuca. Solo quando una mano grande, maschile e graffiata mi sfiora la tempia e prende un lembo del sipario insieme a me, capisco che è lui.


Bass.

La sua presenza mi fa tremare ancora di più nella penombra. Tremano le dita, tre­mano le caviglie, stridono le arcate dentarie.


Giro appena la testa, poggiando il mento sulla clavicola e lo osservo da sotto le ciglia. È appostato su di me, silenzioso come un'ombra. E il mio cuore che fa? Perde un battito.

Il suo sguardo, segnato da righe geometriche di eye-liner nero, risale lungo il pendio del mio collo, messo in evidenza dall'acconciatura che ho scelto per questa sera: un alto chignon, reso voluminoso da alcune extension color biondo platino.


Mi chiedo perché sia qui, cosa voglia, a distanza di un soffio di fiato. In pochi attimi si allinea al mio fianco. Osservo meglio il suo viso a diamante. Lui ricambia, esplorando ogni dettaglio del mio.

«Vi ho ascoltate. E-ero dietro di voi, fuori» mi dice e io cerco di tornare a respirare, anche se l'aria sembra mancarmi. Le mie dita perdono di forza. Si staccano dal sipario e questo si chiude, spegnendo l'unico raggio di chiarore che c'era. Il buio ci avvolge completamente ora e lascia spazio solo agli odori, alle sensazioni, alle emozioni. Passano secondi interminabili. Poi, nel vuoto, riemerge ancora la sua voce roca, ma dolce. «È vero: Melinda conta, ma ti assicuro che qui d-dentro conto qualcosa anch'io.» Fa una pausa. «Posso parlarti ss­senza us-usare un linguaggio formale, vero?»


«Sì, certo.»


«Pensa solo a e-esibirti, conscia che farai la mangiafuoco al Carovana fino a che tu lo vorrai. 'Fancu­lo al resto. 'Fanculo gli altri» mormora. «Ti sento, Layla. Ti sento ancora prima che tu p-possa farti sentire.»

Dio.

Le sue parole sono il nastro sottile a cui mi aggrappo in questo momento per non sprofondare nell'abis­so delle mie incertezze.

Ha sentito Melinda dire che sono già destinata al fallimento e ora cerca in ogni modo di contraddirla, per farmi capire non solo che devo continuare a credere in me stessa, ma che anche lui crede in me, nonostante non mi abbia mai visto esibirmi. È molto carino da parte sua.


Il ricordo della morte di Kenna torna a galla, una storia di perdita che ci accomuna e che ci lega in modo im­percettibile anche se siamo due perfetti estranei. Raccolgo tutto il coraggio che ho e gli dico con un soffio di voce leggera: «Guardi il fuoco, più tardi. Arderò al meglio che posso e, lo giuro, lei non avrà più paura, signor Powell.»


Credo che stia annuendo, oltre l'oscurità. «Lo farò.»

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