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15 - Rifiutare


Bass

Quella di ieri è stata una serata memorabile: ci siamo riuniti tutti davanti al tendone e, accompagnati dalle melodie della fisarmonica di Corinna, tra balli, canti e qualche frittella preparata al momento dalle nostre contorsioniste, abbiamo acceso l'insegna al neon con la scritta "Carovana".

I suoi bagliori hanno illuminato il buio della notte, tingendo di colori vivaci le nostre facce, segnate dalla rinascita. Ora non desideriamo altro che tornare a esibirci davanti al nostro pubblico.

La scelta del nome del circo non ha nulla di straordinario, invece. Dopo aver riflettuto a lungo su varie opzioni, è arri­vato all'improvviso, come un lampo, facendomi vibrare il cuore. Fine.

Inizialmente lo avevo immaginato in inglese, ma sono bastati pochi istanti per rendermi conto che non sarebbe stata la lingua giusta.

Ho scoperto che la defunta moglie di Gérard Dubois era italiana, originaria di un paesino vicino Catania, così, oltre a cercare una soluzione linguistica neutrale, ho voluto anche renderle omaggio. Quando gliel l'ho raccontato, Dubois si è commosso, mi ha ringraziato e io l'ho abbracciato. Queste reazioni mi sciolgono. Mi scioglie vedere come un atto di gentilezza possa toccare le corde più profonde della sensibilità di una persona.


C'è però il rovescio della medaglia.


Da ore gli artisti continuano a mettermi al centro dell'attenzione. Accidenti. Sembra che sia diventato o una celebrità o un fenomeno da baraccone, ruoli che da sempre non sopporto. Mi fanno complimenti per la bel­lezza del nome del circo o mi chiedono come mi sia venuto in mente. Io, a parte dire «Boh. È apparso dal nulla e poi l'ho tradotto con Google», non so davvero cosa rispondere.


Mi stringono tutti, mi baciano tutti – persino quelli del Fleurs – e io mi sento quasi soffocare. Essere padre di un'idea comporta assumersi una piccola percentuale di responsabilità, giusto? Bene. Per non aumentare que­sto peso, devo promettere a me stesso di non intervenire più nelle decisioni direttive.


Tutto muore con quella parola.


Tutto muore con "Carovana".


A mio padre, forse, non sarebbe piaciuto. Troppo semplice, generico. Mi avrebbe dato dell'incapace. Scarlett stessa mi ha detto solo che va bene. Non mi stupirei se anche lei, come papà, a tratti mi reputasse un babbeo. Avrebbe ragione a pensarlo. Dopo tutto, non le ho mai dato prova di essere una persona da stimare.


Che cazzo ho fatto nella mia vita? Niente.


Ho mai concluso qualcosa? No, mai-mai.


Al pensiero di questa mia condizione, sbuffo insoddisfatto. Il mio letto, stamattina, non è un posto molto confortante, anche se ci sono tutti i presupposti affin­ché lo sia.

Scarlett oggi non aveva scuola, ma è comunque uscita presto. Aveva una colazione con alcune compagne e non tornerà prima delle undici. In pochi giorni a Lione ha fatto amicizia, contro ogni sua previ­sione. Prima di andare via, però, mi accennato che ci sarebbero stati anche dei ragazzi, dei maschi, e io per un breve lasso di tempo mi sono ricordato di aver acquistato una felpa nera da Zara, con un ampio cappuccio.
Indossandola, avrei potuto seguirla e osservarla da uno dei tavolini più lontani, senza essere notato. Ho ab­bandonato l'idea quando l'ho vista spruzzarsi un po' del suo profumo allo zucchero filato e saltellare allegra per la dinette. Vuole solo vivere la sua vita, e io non sarei altro che una seccatura.


Ora, però, visto che sono rimasto qui, mi chiedo perché Melinda ed io stiamo sprecando del tempo così pre­zioso. Potremmo trasformare questo van in un rifugio di passione, lasciando che il nostro amore si esprima liberamente. Invece, no. Lei preferisce dedicarsi ad altro.

Ho provato ad accarezzarla, a baciarla, a spogliarla, ad adularla come faccio sempre, ma mi ha risposto che adesso non ha tempo per queste cose. Perché negli ultimi giorni, se si scopa, lo si fa solo perché vuole lei. Io non conto.

Ho cercato di farle capire che c'è l'ho doloran­te e duro come il marmo stamattina, ma tutta distratta mi ha detto che posso anche procedere da solo. Sì che lo posso fare, lo so benissimo, ma questa sarebbe la solita prassi di ogni giorno, visto mi esploderebbero le palle se dovessi aspettare le sue voglie e le occasioni giuste. Semplicemente, mi piacerebbe poter venire mol­to più spesso mentre lei mi ama e mi bacia. Tutto qui.

Nulla le suscita la mia mano che percorre il pendio dei suoi seni esposti. È un ulteriore richiamo, ma lei non mi considera. Sono arrivato a pensare che sia malatamente assorbita dalle dinamiche gestionali del Carovana e dal cercare un modo per annientare la boria di Dubois.


È seduta sulla parte esterna del mio letto, con il cuscino appoggiato in verticale sulla spalliera. Si sistema gli occhiali per l'ipermetropia, che le scivolano puntualmente sul naso, e sostiene tra le mani un quadernetto. Sta tentando di redigere l'imbastitura del nuovo spettacolo, apportando gli adattamenti necessari a causa dell'allargamento del corpo circense. Appunti su appunti, cancellature e asterischi, rimandi in fondo alle pa­gine e numeretti. Nomi su nomi, fogli strappati e riscritti. Io non dico che non siano cose importanti, però anch'io vorrei tornare a essere importante per lei.


Secondo me, si preoccupa troppo. Non ho dubbi riguardo le sue capacità di gestire lo spettacolo in qualità di direttrice artistica. Infatti, al Powell Circus ha ricoperto questo ruolo con successo. Siamo riusciti ad accaparrarcelo anche al Carovana, grazie al compromesso stabilito con Dubois: a noi sono stati tolti gli animali, mentre a loro è stata negata la possibilità di creare e predisporre.


«Dunque, veniamo a noi» interviene, e io ritiro la mano per portarla sotto le coperte. Mi sfioro il boxer, è fra­dicio. Lei, invece, non distoglie lo sguardo dal quadernetto, ma ruota leggermente il busto, mostrandomi la frontalità delle sue tette enormi. Mi si secca la gola. «Ho deciso: Lorenzo Fabbri in duplice esibizione, una delle quali in apertura. Prima i kiwido, poi le clave. È un contentino per patron Dubois. Dicono che il ragazzo italiano sia il suo beniamino, quindi apprezzerà.» Appunta delle parole nervose sul foglio e le osserva con intensità.

«Il m-mmmatematico, è così che lo chiama» le faccio sapere.


«Gli artisti del Fleurs sono abituati a un filo tematico che unisce tutte le esibizioni. Lo spezzeremo, così che possano scoprire come si fa il vero circo. D'altronde, per queste esplosioni di creatività ci sono le compagnie teatrali, giusto?» Mi lancia addosso uno sguardo, finalmente. «Nessun tema, nessun musical impegnato. Si entra, ci si esibisce e si esce, e così finché non finisce, senza rifletterci troppo.» Riprende a scrivere, poi si blocca improvvisamente. «Corinna. Dio, Corinna. La gravidanza è una sfortuna enorme. Che ne pensi? Do­vrei cacciarla?»


Strabuzzo gli occhi. «S-solo perché aspetta un bambino?»

«Perché non è più utile alla compagnia» ribatte, con tanta noncuranza nel tono di voce. «E non possiamo per­metterci impiastri, non ora.»


Gesù Cristo.
Sta parlando così di una sua amica.

Inchiodo un gomito al cuscino e sollevo leggermente la schiena. Alcuni ciuffi arruffati mi cadono sugli oc­chi. «E quindi? Che facciamo? La r-rispediamo a Liverpool e qui ci teniamo suo m-m-marito e suo figlio?»

«Sì.»

«E ti s-sss-sembra normale?»

Mi sbatte le ciglia in faccia. «Sì.»

Mi ammutolisco, sconvolto dall'insensibilità che percepisco fino alle profondità della mia pelle d'oca.

«Co­munque, mi prendo del tempo per riflettere.» Torna a fissare quel cazzo di quadernetto. «Il trio di clowneria: Morgan e Nathan partono dal basso, con la solita corsetta ostentata, mentre facciamo piombare quel disagiato di Oliver Davis dall'alto, a bordo della bicicletta volante. Entrata impattante, effetto scenico assicurato. Wow-wow: è come dici sempre tu, giusto?»

Annuisco e mi interesso alla questione, visto che questo numero lo sento un po' mio. «Oliver mi ha chiesto aiuto per l-la sua esibizione. V-voleva un mio parere. Ieri abbiamo preparato qualcosa e devo dire che se la cava molto bene.»

«Ha un viso molto carino. Troppo carino. Bisogna imbruttirlo. Da quando i clown sono così affascinanti?» Segna con più sottolineature l'appunto riguardo alla necessità di rendere Oliver meno attraente e io... io sono sempre più allibito. «Gli acrobati, le gemelle francesi, il contorsionismo. La mia entrata in scena, il gioco dei brillantini, tu e Scarlett ai tessuti. Poi Scarlett alle altalene fiorate, il treno di Alice. La giocoleria. Dopo, il numero dei trapezisti, i prestigiatori e la gabbia della morte. Doppia esibizione con tutti i funamboli. E le danze? Dove le mettiamo?» Sbuffa. «Dio, quanto le odio. Ma saranno il secondo contentino per Dubois. Gli concedo persino i giochi acquatici. Dimmi che te ne pare.»


«Uno spettacolo in p-pieno stile Powell. Nulla da dire, anche se...» Non sono dotato di chissà quale estro arti­stico, ma vanto una memoria che negli ultimi due giorni – solo negli ultimi due – sta funzionando. «Loro hanno u-una mangiafuoco, e tu non l'hai menzionata.»


«Giusto, sì. La lituana.» Annuisce e riprende a scrivere. «Non si esibirà. Nel suo curriculum c'è un corso di latino-americani seguito per un mese. Ha abbandonato, non ha attestati, ma non importa. L'ho inserita ugual­mente nel corpo di ballo. Abbraccerà la mia decisione.»


«Mancano pochi giorni allo s-spettacolo. Quando pensi di dirglielo?»


«Oggi» risponde. «Prima affronterò il discorso con Dubois.»

«E pensi davvero che una che ha ballato Salsa e Merengue p-p-ppper un mese vorrà lasciare le fiaccole per partecipare a qualche breve stacchetto?» insisto. «Quando si parla di fuoco circense, sappiamo e-e-entrambi che non si tratta solo di passione. È qualcosa di serio, un'arte tramandata di g-gen-enerazione in generazione.»


«Pochi giorni fa parlavamo al gruppo di quanto sia importante accettare e accettarsi» replica, chiu­dendo di colpo il quaderno. «Accettare significa anche perdere un po' di autono­mia e sottostare agli ordini di chi sta ai vertici. E lei lo farà.»


No. Tutto questo non mi piace. Non sono d'accordo. Mi rifiuto. Melinda sa quanto io tenga al fuoco.

Come può pensare di annientarlo se è presente?

È una mancanza di rispetto verso me e mia madre.

Ora avrei quasi vo­glia di andarmene. L'unico lato positivo è che l'amichetto dei piani bassi è collassato e sicura­mente non avrà voglia di entrare nei suoi spazi per un po'.


Notando il mio silenzio, mi accarezza la mandibola con dolcezza, già coperta da una leggera barba in cresci­ta. «Sai perché lo faccio, Bastian» sussurra. «Lo faccio per te.»

«Per m-me?» ripeto, diffidente. «Ne sei sicura?»


«Anche per Kenna, amore mio.»

Kenna.


Quanto vorrei perdere la memoria per dimenticare cosa ho fatto a mia madre. Ma non succede mai. Il ricordo rimane sempre intatto e continua a essere come sale sulle ferite aperte. Martellato dal passato, arrotolo le co­perte verso il basso, scendo fino a raggiungere la pediera e abbandono il letto.


«Che fai?» mi chiede.


«Ho bisogno di una boccata d'aria.»

Prendo uno dei miei pantaloni infeltriti, indosso la maglietta arancione e mi schiaccio un berretto qualsiasi sulla testa. Le scarpe le infilo senza neppure slacciarle.

«Quando incontre­rai la mangiafuoco, chiamami. Voglio e-esserci anch'io» dichiaro, prima di scomparire oltre la porta.

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