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13 - Riunire

Layla

Dubois, a causa di accertamenti medici, non parteciperà alla riunione. Di conseguenza, il compito di coordinarci sarà affidato esclusivamente a Melinda. Ora è seduta a gambe incrociate tra gli alberi. Il colore mogano della sua folta chioma, acconciata in onde perfette, quasi si fonde con le sfumature autunnali degli alberi.

Ollie ed io ci facciamo strada e raggiungiamo la seconda fila, dove Lorenzo è già seduto tra i rovi, con il suo spolverino rosso lievemente appoggiato sulle spalle.

Sì, indossiamo gli stessi spolverini: il mio è giallo, quello di Ollie è viola e anche Namira aveva il suo, azzurro. Li abbiamo acquistati più di otto anni fa da un mercatino in Italia, quando i dolori non ci sfioravano ancora e la frattura del nostro quartetto sembrava solo una possibilità lontana.

Lorenzo scarabocchia qualcosa sulla pa­gina bianca del suo quadernino e anche noi, dopo esserci seduti per terra, estraiamo i nostri dalle tasche, pronti a prendere appunti.

Melinda, nel frattempo, chiude gli occhi e soppesa l'ossigeno, che pare scorrere come un fiume invisibile dal naso fino all'addome in perenne movimento. Si abbandona a una sorta di trascendenza, con la schiena dritta e il volto inclinato verso il cielo cupo. Forse sta meditando per affrontare la riunione con il giusto approccio mentale?

«Sei noto per essere nato da un fiore di loto, circondato da un corteo di innumerevoli dakini» recita ad alta voce, scatenando il fragore nasale di Ollie, in preda a una lieve risata. «Imitare te è la mia pratica. Per favore, vieni a elargire benedizioni.»

«Tra poco ci proporrà la Tavola Ouija, me lo sento!» bisbiglia il mio migliore amico, dopo essersi avvicinato al mio orecchio.

«Calmati. Sarà buddista» gli spiego, coprendomi le labbra con la mano.

«Ah, ecco. Abbiamo la nuova Namira.»

Mi volto e osservo gli inglesi che, assorti nella loro introspezione, si tengono per mano.

Beh, che dire.

Non è qualcosa che si vede tutti i giorni.

È una scena molto suggestiva.

«Ma i dakini che diavolo sono?» sussurra Lorenzo, guardandomi per­plesso.

Dovrei rispondergli?

Certamente no.

Il momento mistico si avvia alla conclusione in meno di un minuto. Una scimmietta raggiunge Melinda e ini­zia a saltellarle su una coscia. Lei le accarezza la testolina e le parla con dolcezza. «Su, vai da Scarlett, Scor­buto.»

Sco.... che?

Ed è quando l'animale si dirige verso la prima fila dall'altra parte, che Ollie decide di attirare l'attenzione sventolando una mano in alto.

Chinando la testa verso il suolo per la vergogna, bofonchio un «Che fai?», mentre sento Lorenzo condividere il mio disagio con uno sbuffo di tensione.

«Fammi fare ciò che mi riesce meglio: il pagliaccio. Shh!» mi dice Ollie, e io lo osservo di sbieco: il suo sorri­so è talmente smagliante da far impallidire persino il Joker. Impossibile passare inosservato.

Le sue movenze esagerate, infatti, catturano subito l'attenzione di Melinda, che lo intercetta e gli fa un cenno con il capo. «Tu, con lo spolverino viola. Puoi parlare.»

Sento il grido della scimmietta e, per questo motivo, rivolgo lo sguardo verso di lei. È tra le braccia di una ragazzina dai lunghissimi capelli biondi come il grano.

Un momento.
Oddio.

Accanto a loro c'è il ragazzo con le ali. Eccolo. Un nodo ben stretto si forma alla base della gola.

Da lui sono scappata, per lui ho perso il tamburello di Namira, ma in lui decido ancora di immergermi, cer­cando di non provare più nemmeno una stilla di imbarazzo. Basta, ho deciso. Lo fisso. Lo osservo. Lo scruto. Finché non ricevo una reazione.

Mi sembra un altro rispetto alle ore precedenti. È, come dire, meno disordinato e più carino.

Il suo look è cambiato, ma in che modo?

Ah, sì, ci sono: ha tolto la barba, il che mette in risalto dei lineamenti molto mor­bidi e dolci.

Ora, osservandolo meglio, credo che abbia persino un po' di anni in più di me e forse... una fede al dito?

Non ho nemmeno il coraggio di abbassare lo sguardo per capire se nell'effettivo sia convolato a nozze.

Che mi importa, dopotutto.

Gli occhi sono fatti per guardare, e se guardo uno sposato non è di certo un reato.

«Una domanda: perché quel topo ha il nome di una malattia? L'avete contratta e volete ricordarla per sem­pre?» chiede Ollie a Melinda. «Confesso che è originale. Anche il mio cane si chiamava Sifilide.»

Gli inglesi scoppiano a ridere in coro. Sorride perfino il ragazzo con le ali, ed io sorrido di rimando per­ché, dannazione, mi sono rimessa a giocare.

Voto-sorriso: 200 MILA, PORCA PECORA.

Non ho mai visto una dentatura più candida e perfetta della sua, e io ho sempre avuto un debole per i sorrisi. Ah, e per le vene sporgenti che si evidenziano sui muscoli scolpiti. Mio Dio, sembro un'adolescente al primo colpo di fulmine. Ma lui è un tale pasticcino che... aiuto... ma pasticcino dove?
Ma chi lo conosce?
Ma se è un estra­neo?

Dov'è finita la sua maglietta arancione? Mi sembrava la sua seconda pelle. Oggi indossa una polo color cielo che stona un po' con la sua abbronzatura da surfista.

Le braccia sono entrambe macchiate da tatuaggi raffiguranti le sagome di due acrobati appena stilizzati che si esibiscono ai tessuti: un acrobata uomo sul bicipite destro e un'acrobata donna sull'avambraccio sinistro, immortalati nell'atto di cercarsi l'un l'altra.

«È una scimmia scoiattolo, a dirla tutta» risponde intanto la sua padroncina.

«Da noi, oltreoceano, gli scoiattoli sono creature spregevoli» replica Ollie, con un tono allarmato.

«Ma non hai sentito? È una scimmia, deficiente.» Lorenzo lo corregge a denti stretti, superando il mio corpo per avvicinarsi al suo e pungolargli un ginocchio con il quadernino chiuso a cilindro.

Melinda cerca di riprendere il controllo della situazione. «Come ti chiami?»

«"Nel magico mondo dell'Allegria, i nani sono otto, di cui uno è un pagliaccio. Sbrodolo è il mio nome, e a lavorar non...» cantilena Ollie, ma viene prontamente interrotto.

«Anch'io sono un clown» esclama un uomo dal forte accento britannico.

«Anch'io!» si aggiunge un altro, con un paio di occhiali da vista squadrati.

C'è troppa concorrenza. Le narici larghe di Ollie indicano che stia crescendo in lui il desiderio di farli fuori entrambi.

«Beh, allora vi dico che mi chiamo Oliver Davis. E ora? Quanti ce ne sono come me? Quanti?» sbraita con uno sguardo sfidante, come volevasi dimostrare...

«Bene, Oliver» riprende Melinda, inclinando la testa su un lato in maniera cordiale. «Mi piacerebbe molto spiegarti la storia dell'animaletto di mia figlia, ma al momento ci sono questioni più importanti da affrontare, non credi?»

«Giusto-giustino-giustarello.» Smette a fatica di mitragliare quei due e annuisce con viso ancora furente, agi­tando nel vento il suo quadernino verde fluorescente con i cupcake. «Sono pronto a prendere appunti, infatti.»

«Respira, dai. Dovevi aspettartelo che ci fossero altri pagliacci nel Powell Circus» gli faccio notare con un mormorio.

«Zitta tu» ringhia, e a me viene quasi da ridere. Boh, ora sembra che sia arrabbiato anche con me.

In seguito, Melinda si muove tra di noi, cercando il contatto visivo con tutti i dipendenti. «La prima dello spettacolo è stata posticipata di una settimana, un tempo prezioso per lavorare bene. Lione ci sta offrendo una grande opportunità e non dobbiamo deludere le aspettative. Garantiremo il miglior virtuosismo possibile: ci concentreremo su noi stessi, sulle performance, sulla condizione fisica, ma, prima di tutto, sui rapporti so­ciali, sulla dimensione comunitaria e sull'interconnessione.»

Mi permetto di volgere una seconda volta lo sguardo verso il ragazzo con le ali e mi accorgo che sta ancora guardando nella nostra direzione.
Nella mia.

Eh? Perché? Per come? Per quando?

Aiuto, che qualcuno mi salvi.

Un burrone sembra aprirsi sotto di me e il cuore è sul punto di cedere. Sono nel panico. Talmente nel panico che, senza pensarci, mi faccio il segno della croce. Non sono nemmeno cattolica, ma i miei ex "suoceri" lo erano, e li vedevo mentre lo esegui­vano prima di ogni pranzo.

Non so perché l'ho fatto, non so neppure perché mi sia svegliata così scema stamattina e non so neppure perché io stia reagendo in un modo così sconclusionato.

Forse perché non ho vissu­to per due anni e ora non ricordo più come si faccia a vivere decentemente. Tutto mi appare nuovo. Sembro nata ieri. O oggi, o un minuto fa.

Lorenzo mi guarda in malo modo e, per cercare di dissimulare il mio atteggiamento, torno a concen­trarmi su Melinda.

«Lo so, non è facile chiedere a due sassi di unirsi per formare la stessa montagna» continua. «Come possia­mo fonderci, se la diffidenza ci attanaglia? La risposta è questa: dobbiamo fare uno sforzo. Noi circensi sia­mo abituati a sacrifici e adattamenti. Accettiamoci, facciamolo per il bene di un circo che, finalmente, ha tro­vato un nome che lo unifica.»

Ollie sta prendendo appunti, anche se di tanto in tanto ai margini delle pagine disegna peni enormi a sette palle.

Solo per darmi qualcosa da fare, lo imito, prendendo la matita dalla tasca. Scrivo la parola che più mi ha colpita: interconnessione.

La cerchio, osservandola come se ne fossi ipnotizzata, mentre un tenue ardore risveglia la mia indole percossa da tempo.

Collegamento, concatenazione, legame, nesso: sembra strano, ma non accuso il fa­stidio di amalgamarmi a qualcosa di così inedito e differente. Il divario, in verità, mi stimola in senso positi­vo e lo scopro solo ora.

Nuove anime, nuove facce, nuove vite.
Nuove storie da conoscere, magari più fortunate della mia. Anche se voglio sempre lasciare questo mondo; anche se la morte è sempre la mia unica via d'uscita; anche se io, una persona normale, non lo sarò più.

Quelle carogne delle mie pupille non riescono a rimanere incollate sul foglio. Eh no. Si sospingono di nuovo alla ricerca di lui.

Il ragazzo con le ali sta guardando Melinda, che cammina tornando davanti a tutti noi. Non si sa come, però, ma percepisce di essere nel mio mirino e delicatamente riporta lo sguardo su di me, senza muovere la testa di nep­pure un millimetro. L'espressione è imperturbabile, la mandibola affilata.

Mi vibra lo stomaco.

«In assenza di Gérard, mi vedo costretta a coinvolgerti.» Melinda allunga una mano proprio verso di lui, invitandolo ad avvicinarsi. Questo gesto lo distoglie da me. «Dopotutto, l'idea del nome è stata tua. Mi farebbe piacere che ne parlassi tu» spiega lei. «Ci sono io a tradurti, figlio mio, non preoccuparti.»

Tradurlo?

Il ragazzo con le ali è forse filippino e non me ne sono accorta?

Ma l'ha chiamato "figlio mio", per cui...

Sì, certo.
Come ho fatto a non pensarci prima?

Quel concentrato di muscoli, tatuaggi, occhietti da Bambi e testosterone è qualcuno che io dovrei già conoscere. Artiglio con impeto il cappuccio di Ollie. «È lui, vero?»

«Sì, fragolina. Lui è il nostro coniglietto.»

«Coniglietto?»

Fa spallucce. «Ha un non so che di "carota rosicchiata" nell'aura.»

«Coniglietto per Oliver; Sebastian Edgar Powell per il mondo» spiega Lorenzo, roteando la sua penna tra le dita. «È quello che ha demandato la gestione dell'intera baracca alla sua matrigna, ma che ci comanderà a bacchetta non appena capirà che stare ai vertici è quasi divertente.»

Ora sì, ora è ufficiale: ho fatto pensieri impuri sul mio nuovo capo.

Dannazione.

Fine dei giochi. Basta voti.
Con lui devo rigare dritto.

È off limits.
Fuori dalla mia portata.

Deve diventare asessuato.

Posso dire però che... un po' mi dispiace?

Mi dispiace tanto quanto dispiace a lui alzarsi dall'erba per raggiungere la nostra direttrice. Si tasta la parte alta dell'addome, quasi come se accusasse dolore. Lo sento mormorare mentre si posiziona davanti a noi.

Dal movimento delle labbra e da come ci indica, sembra chiedere a Melinda perché non lo abbia avvisato prima della possibilità di dover parlare davanti a tutti.

A conferma di ciò che ho intuito, le sue guance iniziano ad arrossire.

Le braccia sembrano gravargli lungo i fianchi come pezzi di ghisa ac­catastati in una fabbrica metalmeccanica. Un enorme paradosso per uno che, data la sua professione, dovreb­be fare della leggerezza da volatile il suo marchio distintivo. Vorrei quasi aiutarlo, ma come?

Trattiene il fiato e si gratta la nuca, forse indeciso su come iniziare a parlare. Tentenna ancora, affondando gli incisivi nel labbro inferiore, storcendo la bocca, arricciando tutta la faccia.

Melinda, che appare così mi­nuta rispetto alla sua statura che sfiora il metro e novanta, gli accarezza una spalla e poi sorride a noi presenti, chiedendoci di pazientare perché suo figlio ha i suoi tempi.

Passano una ventina di secondi.
Forse trenta.

Poi si fa coraggio.

«Okay» dice Sebastian, poco dopo aver emesso un ulteriore sospiro. «Le parole di Melinda e-esprimono l'approccio che... si dice approccio?» chiede quasi tra sé, e mi si stringe il cuore vedendo quanto sia in difficoltà. «Sì, approccio, cioè... quello che... q-quello che dobbiamo fare da qui in avanti. Una parola da non d-dimenticare è accettazione. E... aggiungerei anche fiducia. Sì, fid-fidiamoci gli uni degli altri, perché... perché convivremo a lungo e per­ché non abbiamo altra scelta.» La voce si abbassa man mano che le frasi si susseguono. Se ne accorge e, ri­volgendosi a noi con uno sguardo timido e imbarazzato, chiede: «Mi... mi sentite, vero?»

Getto il quaderno tra le foglie secche, scuoto la mano in alto e rispondo con una voce mai stata così chiara e limpida. «Ti sento!»

In segno di riconoscenza mi accenna un sorriso tremante. Gli trema anche il mento. Gli tremano le mani. E io non lo so, e io vorrei piangere, perché mi sembra quasi di averlo rincuorato, proprio come lui e i suoi delicati tessuti aerei hanno fatto con me.

Tenta di portare a compimento il suo discorso. «Fiducia. Fidiamoci perché da a-a-adesso siamo una-una nuo­va famiglia, una più grande, unita dall'arte e da quello che ci riesce meglio fare: muoverci, spo-spostarci.»

Dai.

«E, allora, da qui un nome da sss-scrivere su tutte le locandine. Non inglese, a ricordare il Powell Circus, non francese, a ricordare il Cirque des Fleurs.»

Forza. Ce la fai.

«Ho scelto una li-lingua neutrale: l'italiano.»

Sai parlare.
Puoi parlare.
Qui c'è gente che ti ascolta.
Io ti ascolto.

«È questo che ci accom-accomuna, al di là di come facciamo le esibizioni e di come co-costruiamo lo spetta­colo: il cammino.» Prende un respiro e poi dichiara: «Quindi, da oggi saremo Carovana».

Si leva nell'aria un applauso unanime, una generale approvazione, e io non ho mai battuto le mani con così tanta forza.

Il nome mi piace?
Sì, ma anche se non mi fosse piaciuto avrei esultato ugualmente.

«Il circo Carovana si esibirà il quattro di ottobre e...» riprende dopo l'attenuarsi dell'applauso. «Nes-nessuno, neanche Lione, ricorderà che abbiamo fallito, perché da oggi noi siamo rinati.»

«Ac­cettiamoci e fidiamoci.» Melinda fa eco alle sue parole. «Ora vi mostro come.»

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