Taylor - Now
N/A: chi aggiorna di domenica sera? io perché stasera fa titanic e non esiste che io non lo reciti per intero.
Questo è il capitolo più lungo tra quelli del presente: cioccatevi taylor e la sua strana mania di essere il più complesso
La dolce nenia che ti coccola si protende come acqua gelida rigenerante per ciascuno dei tuoi sensi affranti. Nemesi di una leggera ninna nanna, custodisce macabra le tue orecchie e dimora nella tua testa confusa perché tu possa ascoltarla senza poterlo evitare.
Ti costringe a muovere il capo al medesimo ritmo, un insano, rumoroso brusio che percuote le pareti offuscate del tuo cervello e che, con lentezza malinconica, scende. Scende, scende, si disperde nell'animo tormentato e invade il petto con vorace vendetta.
Il lato meschino delle tue parole - da sempre rivolto ad emozioni d'eccessiva prepotenza - risiede in una mescolanza brusca che prende luogo, macinante ognuno dei tuoi sensi positivi, nelle più trascurate viscere del tuo frastornato organismo.
Compite sono le mie parole, così come il senso di inquietudine che si evince dai tuoi occhi spalancati e sospesi nel vuoto della cucina chiara. Tua madre continua a parlare, a chiedere a tua sorella se la giornata è andata bene e non nota. Non si cura del buio che vige sul tuo volto spento.
I suoi tacchi battono nel percorrere le mattonelle di finto legno sicuramente fredde. Muovi un attimo il tuo sguardo verso la donna dalla capigliatura ordinata e la camicia abbottonata fino all'orlo. Fingi di non ricordare e stringi la presa alla forchetta con la quale rigiri fino alla noia il cibo nel piatto.
«Taylor, è maleducazione giocare col cibo. O lo mangi, o posa il piatto.» il suo tono rigido si flette lungo il tuo udito insidioso, non ti lascia alcuna affettività mentre ti attraversa. La donna dagli occhi verdi continua a rivolgere l'attenzione a Ginevra.
«E quanto hai preso a matematica?» c'è una curiosità avvilente; ti disturba.
«A meno.» è incerta se riportarlo o meno alla madre austera, intrisa di valori pessimi da tramandare.
«Perché non un'A?»
Nel suo lamento nei confronti di un voto leggermente più basso delle tue aspettative, tu vedi la bocca di Carolina che parla, che dice la sua. Accantoni l'idea.
«Ho sbagliato un passaggio.» tua mamma batte il piatto con nervosismo sul tavolo, permettendo alle posate di sfuggire dalla sua altrimenti ferrea presa e osserva arrabbiata il viso corrucciato ed angelico di quell'affranta di tua sorella. I suoi occhi emanano paura ed aspettative che probabilmente verranno esaudite dal temperamento della donna che vi ha cresciuti.
Adesso, vedi questa bocca richiudersi e non aprirsi più. Giureresti che sia fredda, gelida. Scacci via il pensiero, non ti frega.
«Io faccio dei sacrifici, mi spacco la schiena in orari a dir poco disumani e voi non vi impegnate neppure un minimo!- si alza in piedi, le sue mani stringono il vetro del tavolo sul quale è appoggiato il cibo e in poco il piatto di Ginevra è sul pavimento. Frantumato, la cibaria è sparsa e gli occhioni verdastri della ragazzina si incupiscono, facendosi abbindolare dalle lacrime. -E sono inutili le lacrime di coccodrillo, Ginevra! Sei un'ingrata. Maledetto quel giorno!» inizia ad imprecare e sei perfettamente consapevole che non reggerà la tensione a lungo. Scatti in una posizione eretta e tralasci la tua solita indifferenza, mordendo il labbro per attenuare l'acidità nascosta nelle parole che andrai a sussurrare, «Puoi non urlare ogni volta.»
Guardi a mezz'aria, ove trovi gli occhioni di Carolina - dapprima vispi - ora putrefatti in una sorta di miscuglio di pregiudizi. Scuoti il capo.
La presa della donna castana diviene più profonda e scherzeresti che rimarrà il segno di quell'impugnatura tanto salda mentre dalla sua bocca escono frasi odiose. «Siete degli ingrati! Io non ce la faccio più. Vi do tutto! Tutto. Dallo sport al resto, non vi manca niente! Quando muoio? Eh? Quando muoio?»
E proprio ora, scorgi il corpicino di Carolina disteso ed avvolto in bende di odio gratuito, di prevenzioni assurde e parole cattive. C'è nausea, nausea e nausea. Nausea per cosa?
«Mamma, scusami.» Ginevra è in piedi e tenta di avvicinarsi a tua madre. Il suo sguardo è avvelenato, tu persisti nella tua posa noncurante. Lo fa sempre, tutte le volte. Non ti importa delle sue necessità poco flemmatiche, del suo parlare costante e del suo bisogno di etichettare gli altri come inferiori. Ha sofferto, non ti riguarda.
«Maledetto quel giorno. Maledetto.» continua, non abbandona la sua presa disgustata e il suo sguardo d'odio verso l'appena dodicenne figlia che oramai è ai suoi piedi, abbracciandoli.
«Va via.» le dà un calcio nello stomaco e getta la sedia per l'aria, così come con i restanti piatti - il tuo compreso - e ciò che è presente sul tavolo. Sta piangendo e chiama la nonna perché se la venga a prendere, un giorno o un altro.
«Voi siete come vostro padre! Dei buoni a nulla.» strilla inviperita, si piega in due per il dolore che pare le trapassi lo stomaco e dalla sua espressione ricavi un disprezzo verso chi sei e chi sarai. «Avrete una vita di merda. Ma mi pagherete quello che mi avete fatto? Mi avete capito?» urla ancora di più, sembra che fra poco le cederanno le corde vocali dalla forza impressionante che immette per rendervi degli sventurati. Ginevra continua a singhiozzare con le manine pallide allo stomaco, ben ricurva su se stessa, e tu niente. Hai il capo basso e non osi proferire parola. «Tu!- ti indica maligna -Tu mi pagherai tutto. E anche tu. Tutte queste intossicate dio ve le farà scontare, stronzi. Avete capito?»
Ora lancia contro la parete i suoi tacchi a spillo, gridando e maledicendovi in nome della sua religione ripetutamente. «Me la dovete scontare tutta. Voi e quel maledetto di vostro padre. Dannato giorno, dannato.»
Vuole andarsene, dovresti lasciare che si calmi e che venga a ripulire questo casino, ma «Ed è colpa nostra?» si ferma, «È colpa nostra se siamo figli di quello che si è rivelato essere un drogato? È colpa nostra se hai deciso di avere dei figli? Eh, mamma? È colpa nostra?» lei è stupita, il tuo tono è severo, incontrastabile. Senti le tue cicatrici bruciare davanti a questa presa di coscienza.
«Non abbiamo chiesto noi di nascere.» queste ultime parole stridono contro le pareti della tua gola secca e tieni una espressione rassegnata quando lei va via gridando che se ne andrà. Che andrà via su una montagna e che quando i carabinieri la cercheranno, dirà loro di rinchiuderla in carcere. Così, magari, troverà pace.
Scuoti il capo, c'è quella piantina che oramai è quercia in te, perfora la pelle del tuo corpo allenato e fa sì che tu rimetta il più infimo brandello della tua apatia. Deglutisci quando ti alzi e ti appresti ad alzare tua sorella da terra, presa dalle convulsioni, e disinfettarle il taglietto procuratole dalle schegge del piatto disintegrato.
Disintegrato: che parola inopportuna. Mi sa della tua integrità. Già, mi ammonisci. Mi guardi con quel visino da disgraziato quasi a chiedermi conforto, ma temo di dover supporre che la tua integrità sia sollennemente disintegrata fra le tue mani grandi. «Zitta,» sibili, «Zitta, cazzo.»
Ginevra ti guarda con fare inquisitore, ma tu termini di coprirle con dell'ovatta la ferita e sali al piano di sopra.
Di solito, ti rinchiuderesti nella tua stanza e prenderesti il telefono per far sì che qualcuno si senta idiota online.
Ma la tua corsa ha una fine al capezzale del cesso, con il tuo viso ben impiantato nella tazza e la tua bocca - man forte della complicità dell'intestino, delle budella, dell'intero organismo e della tua testa manomessa - non ti dà tregua finché non percepisci una sensazione tediosa, perfino orribile.
Essa nasce per casualità e pare distendersi in te per volontà. Sboccia dalle dita dei piedi, sale con affabile armonia e dilania i tuoi muscoli doloranti. Perseguita ciascuna delle cellule che trova - migliaia e migliaia di esse: pare che le soffochi tutte. Una ad una, senti questi esserini venir soppressi ed una scaglia di dolore è presente per ogni addio sadico, - e cammina nello stomaco. Tale sensazione è pura afflizione, una sorta di empatia e tu odi l'empatia. Girovaga intorno ai tuoi organi e li sopprime, percepisci una fitta sudaticcia ad ogni secondo passante. E sale, sale, sale, risparmiando il detestabile cuore, ma pare scalciare finché le costole non si sgretolano nel tuo corpo massacrato. Un po' più su e brucia lungo la gola, persino a tratti non resta incastrata nelle tue fessure di falsità, e finisce la sua corsa nel già rigettato vomito.
Non perdi tempo nel notare che quel dolorino che non aveva intenzione di fermarsi, di porre un punto di misericordia, che proseguiva in una corsa nauseante, distruggendo tutto quel che trovava con cattiveria, altro non porta che il tuo riflesso.
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