Molly - Now
N/A: questo coso fa schifo ma vabbè teniamocelo così. Penso sia il peggiore fino ad ora, può esserci qualcosa di più piatto? amen.
«C'è qualcosa che non va?» è la terza volta che la donna dai tratti delicati ti pone questa sgradevole domanda. Tu te ne stai seduta con le gambe accavallate, il respiro taciturno e le regali solamente risposte sorde e mute. I suoi occhi castani ti innervosiscono, la tua presa allo zaino è ferrea e ti assicuri - di tanto in tanto - che le lettere siano ancora nella tasca anteriore. Non sai che farne, ma sai che vuoi che stiano lì. Lo necessiti.
Scrolli le spalle, di nuovo, e lei sospira. La professoressa Atwood si appoggia con la schiena eretta alla poltrona dalla pelle rossiccia, le sue dita lunghe e sottili vanno a scorticare il fastidio, grattando al di sotto delle occhiaie accentuate una volta che ha alzato gli occhiali dal naso. «Eri in classe, a dormire per giunta. Il professore ti chiama e tu urli che non è colpa tua. Ripeto: va tutto bene?» non è scocciata, ma prova a rimuginare sulle informazioni che possiede. Vorrebbe intraprendere un sicuro viaggio nella tua testa - d'altronde è quello che fa ad ogni compito che consegni - e cercare di sganciare la bomba che tieni stretta stretta nelle tue membra, avvolgendola con la carne in eccesso e assicurandoti che essa sia protetta --- al caldo, insomma.
Deglutisci, scuoti il capo. Ti lasci fuggire una misera risatina quando lei dischiude le labbra fini e si rinchiude in una postura scartocciata. Le spalle, adesso, le ricurva ed indurisce i lineamenti prima gentili. «Cosa è successo?»
Cerchi di starci, in questa situazione. Ma non ha la minima idea di come tu, nell'esatto momento in cui le dedichi uno sguardo fugace, ti percepisca abbandonata nell'oscurità. Le scarpe impiantate nel fango più disgustoso, le mani sudate, gli arti smossi dai fremiti e la voce che ti si blocca in gola. Che il respiro viene retratto, gonfi il petto e le fossette ai lati delle tue spalle si intensificano: tutto è pronto per urlare quanto tu ti veda persa. Ma è lì --- lì e ti gira il capo, vedi la stanza ruotarti attorno. Guardi il tuo riflesso schiarirsi, si sbiadisce senza cautela e nessuno ti può salvare; perfino quando ti specchi nel portapenne argentato dell'insegnante: sei sull'orlo di un baratro e sei agonizzante. Non riesci a strillare il dolorino che ti martella al centro del petto. È attanagliante. Sboccia e non sai come definirlo. Neppure le lacrime gli danno giustizia.
Porti una mano ai capelli tinti e li sposti da davanti agli occhi, afferrando dallo zaino nero un cerchietto ed indossandolo. Lei ti sorride e «Hai delle occhiaie profonde.»
Giochi con i tuoi capelli, li attorcigli e fingi sia noncuranza quella di cui ti stai vestendo con abbondanza. È un lunedì, per questo sei stanca o annoiata. È così, il lunedì.
Peccato non sia lunedì, ma tu preferisci ritenere non vi sia alcuna importanza di che giorno si tratti.
«Non dormo molto.» ammetti in un bisbiglio, lei distoglie per qualche secondo l'attenzione e la presta alla stampante dietro di sé. Prende dei fogli appena venuti fuori e li spilla, poi li posa avanti a sé e lega fra loro le mani, vi appoggia il mento e sgranchisce la ragione. Poi fa cenno di sì -- non hai capito a cosa, però non vi badi.
Lo studio attutisce come morfina di una leggera dose il crepitio che intercede la tua tranquillità e la pugnala, la strugge, la abbandona per terra affranta e non si preoccupa nemmeno di assicurarsi respiri. La tua calma è riposta in uno scrignetto dalle pareti di afflizione pura. Devastante. Deglutisci; c'è un'angusta nausea a corrodere la tua gola mentente.
Le pareti color ciliegio sono egregie per l'aspetto raffinato ed un tantino retrò della donna sulla trentina, adepta al suo lavoro. «Voi ragazzi dovreste dormire di più. Quando vi svegliate il vostro corpo continua a produrre melatonina e questi sono i risultati.» infine si schiarisce la gola, invitandoti a raccontarle cos'è che tormenta i tuoi occhioni sempre ben spalancati. Oggi sono socchiusi, cercano nello scuro un pizzico di speranza. Ove c'è certezza pare essersi dissolta.
La scrivania di legno di cedro è ben tenuta, intravedi le foto che la ritraggono con la figlioletta e apposti stretto a te lo zaino, prendi un respiro «Io non dormo proprio.»
Spalanca la bocca. La sua mascella delicata si serra all'espressione confusa che la pervade, fin troppo eloquente perché tu possa anche solo credere di poter evadere il seguente quesito. «Da quanto?» fa piano, non vuole nuocerti. Un po' ridi, perché sei qui? Lei è come te --- come voi. È tediosa la consapevolezza di star fallendo persino nella più spontanea dei sentimenti fra i rancori: la compassione. Non dovrebbe spingerti col culo sul fondo e farti fare da schifo? Poi finisce. Ma non sta agendo. Lascia a te l'incombenza di giudicarti e l'autocritica non è il tuo meglio.
«Qualche giorno.» confessi. Vuoi liberare il peso che è cementato sul cuore. Mattone dopo mattone sta venendo su un muro che permette alla tua importanza di evadere e di lasciarti sola con la colpa. Ah!, odiosa colpa. Lo ricordi ancora quel pomeriggio e i conati di vomito, desideri scordarlo ma è fermo, è come roccia. Se tutto mutasse, sai che starà lì ad annientarti.
«Non chiudi proprio occhio?» le sue mani tracciano i contorni dei suoi jeans - ne sei certi - al di sotto della scrivania. Il suo visino aggraziato un po' attiva in te della pena. Invece, persisti. Annuisci. «Non dormo.»
«Cosa c'è che non funziona?» a chi cazzo pensi, avrebbe la netta e astrusa voglia di fartela, questa domanda di merda. Eviti il mio scherno, stai per raccontarle di quanto facciate schifo, dello xanax che hai assunto per una settimana in dosi eccessive, lo vuoi. «Lei --» inizi, ma delle urla bloccano l'intera conversazione.
La docente balza dalla sua posizione accomodata, quasi tozza con la pianta verde che tiene costantemente dietro di lei e la tua nausea aumenta. Cheta cheta sta intorpidendo i tuoi muscoli, un formicolio si protende e stai per rimettere. Lei ti supera, gli strilli hanno conseguenza. Diversi professori escono dalle loro classi e si domandano cosa diavolo sta capitando. La preside è uscita dal suo ufficio, senti il telefono squillare e non puoi concepire di vivere in una totale confusione. Ti giri, ti rivolti, ti alzi, ti siedi; spalanchi la tua bocca quando entra un bidello, dietro di lui due ragazze in lacrime - il mascara se ne sta colato sulle loro guanciotte - e ti sollevi, premendo il tuo corpo alla scrivania. Le tue gambe fra poco ti mollano, imperterrite sono scandagliate dalla paura. Hai uno squarcio che ti fa a metà netta.
«Professoressa, che cazzo ---» urla il bidello. Si appende alla maniglia e la donna - dagli abiti casual e il cardigan beige. Gli stivaletti solennemente brunastri, - lo assiste, lui scuote la testa.
«Cosa succede?» le ragazze piangono, si abbracciano fra loro. Una di loro cade, non capisci. Il caos è ottemperanza di qualsivoglia giudizio: lo dissuade e lo ammattisce. Lo rende inconscio e lo assorbisci con discrezione e avvia un processo di agonia insalubre. E tutto si muove, la stanza ti gira attorno.
«Una ragazza -- una ragazza si è ---» tiene una mano al petto fremente, non regge l'adrenalina.
«Clare, prof.» ti spezzi in due, letteralmente e metaforicamente parlando. L'Atwood scuote il capo e cerca di interpretare i singhiozzi tra i quali Tara prova a spiegarsi, «Si è tagliata una vena, professoressa.»
«Nel bagno.» piange l'altra. Sono sotto shock.
Non ti trattieni, girovaghi attorno alla cattedra e vomiti lo spettro di te stessa nella fottuta pianta verde mentre altre urla si propagano. Il dolorino adesso è un dirupo pronto a risucchiarti e farti soffocare. A te manca già l'aria e non ci sei neppure - del tutto - entrata.
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