Elizabeth - Past
Elizabeth conobbe Carolina con l'inizio dell'high school e non ebbe prime impressioni al riguardo.
La ragazza era ovvia, una quasi quindicenne divertita e logorroica. Le sembrava addirittura simpatica, ad Elizabeth; i suoi occhi la scrutavano spesso con attenzione durante le prime lezioni e se vi era una piccola fattezza che già innervosiva la mezza donna dai capelli rossi rispetto a Carolina, quella era il fisico.
In effetti, possedeva dei fianchi adeguati, curve giuste e delle gambe magre. Come piacevano a lei. E Beth era tutt'altro che in forma. Non si muoveva frequentemente, si reputava grassa, ma Carolina credeva che ciò non facesse una persona. Ma, d'evidenza, si sbagliava.
Non devio ulteriormente la narrazione: io sono il Carattere. Insomma, mi aspetto che strabuzziate con leggerezza gli occhi e diciate: Che diavolo ha da raccontarci il Carattere? Immagino ritroverete una risposta non di vostro gradimento soltanto leggendo.
Dov'è che eravamo? Certo, che impacciato. La ragazza in questione bruciava con lentezza di invidia. Non vi starò a raccontare cosa si intende per invidia: ve ne sono di eccessivi tipi perché io ve li illustri. Ma quella che scorreva nel sangue di Elizabeth era una tipologia di invidia sciocca, inconcludente. Un'invidia deplorevole e superficiale, direi, adepta al suo modo si essere.
Tutte le volte -- ognuna tra esse che si rivolgeva a Carolina iniziava ad abusare delle parole e a giocarci con malizia. I suoi discorsi diventavano accesi, taglienti e, se avesse saputo cosa questa fosse, con ottima probabilità ricchi di ironia. Assumeva un atteggiamento scortese e per nulla da prassi. In classe, date le diverse lezioni frequentate insieme, terminava nell'osservarla nelle movenze che la caratterizzavano e dimenticava ciò che non le conveniva.
Come, ad esempio, l'educazione.
La prima volta che Carolina, nei suoi capelli stranamente più lisci di altri giorni, si imbatté nel comportarsi non adeguato di Beth, poteva essere metà novembre e stava raccontando una delle sue storielle da annoiarsi. Ma era fatta così.
Elizabeth, seduta accanto a Louna, cominciò a ridere e «Stai mai zitta?»
Il tono che utilizzò risuonò sgradevole, intrinseco a cattivi comportamenti. Si adagiò al banco, la rossa, e la guardava con un disprezzo inesperto. Non è che possedesse un motivo, la divertiva.
Carolina deglutì, fingendo un sorriso. Lo interpretò con tutte le sue forze, ma dentro già avveniva una battaglia che non dava corda a buone ideologie. Abbassò lo sguardo e trattenne le lacrime, camminando a passo lento verso il suo banco, «Ma che cazzo di persona sei. Che carattere di merda, dai. Già piangi?» alzò gli occhi, li impiantò in quelli chiari di Elizabeth e «Non credo siano affari tuoi, se piango.» e lei rise nuovamente, indossò l'espressione più codarda di sempre e finse di mantenere la propria pancia, ignorando le seguenti domande di Carolina.
A fine lezione ne parlò con Catherine e lei sminuiva. Non spetta di certo a me il racconto dell'amorevole Cath, ma le disse «Tu pensi che tutti ti odino.» e l'accompagnò con un risolino sconveniente. D'altronde, ne avrete già ascoltato qualche traccia.
Carolina si sentì devastata da una piccola frecciatina inappropriata. Le crollava addosso un carico di rammentarsi non piacevole: intorno a lei percepiva un insano e sopravvalutato odio. L'accettazione di sé le riusciva complessa, non era affare per i suoi pensieri. Preferiva coprire lo specchio in camera e chiacchierare con personaggi tratti da un mondo fantastico, costituito di viaggi, illusioni (futili, per altri, ma per lei di eccezionale eleganza) e di bontà. Carolina riteneva che la gentilezza fosse la chiave per non destabilizzare alcuno --- ne avrete già sentito parlare.
Ma quelle piccole parole, insite di veleno e sguardo arrogante, la gettarono in un silenzio incredibilmente rumoroso - chiasso ipocrita. E le infastidiva le orecchie.
Camminava, un altro giorno, non poco dopo e notò Elizabeth col suo sfavillante ragazzo che l'ascoltava lamentarsi della compagna troppo bella nel suo corso di tedesco. «La detesto, Chuck. La vedessi, o si uccide lei, o io.»
L'altro rideva, toccandole con affettività la spalla e fissandola con un sentimento che Carolina non conosceva e le piaceva sapere che una ragazza vi potesse venire a contatto. Certo, provò leggera invidia: ma di un tipo diverso rispetto a quello di Beth. L'invidia che corrodeva con genuinità Carolina era pura, disinteressata, una gelosia spinta un po' oltre.
Ma Elizabeth la vide osservarli, appoggiata alla fila di armadietti grigi e le fece un segno negativo, intimandole di andar via e lei impiegò qualche attimo - fra sospiri e risposte trattenute - per voltarsi e dirigersi verso la lezione di matematica. Si ritrovò - coincidenze? - presto affiancata dalla ragazza rossa e dalle gambe robuste che la guardava con curiosità maliziosa. «Ti piace Chuck?» le chiese.
«Sembra un bravo ragazzo.»
«È magnifico, premuroso, dolce e --- immagino tu sia interessata. Non credo tu sia fidanzata, o sbaglio?» le lanciò un'occhiata vispa, entrando in classe e accerchiandosi delle sue solite amiche. Le diedero attenzione le altre, soltanto per ridere di chissà cosa, indicandola con divertimento crescente. E fu a fine lezione che «Immagino di essere uno spettacolo esilarante.» Louna, in particolare, separò le labbra e scoppiò in una risata forzata. «Non immagini quanto.»
Si voltò, uscendo dalla classe con frenesia, ed urtò qualche spalla, scusandosi rapidamente. L'ipotesi di potersi definire ridicola non l'aveva mai sfiorata e fu travolta da una vergogna immotivata, mentre si rinchiudeva nelle pareti di un piccolo bagno e vi si sedette per piangere. Non era triste, soltanto delusa. Dalle aspettative, dai sogni. Era affranta per il mancato tatto degli uomini.
Da allora, gliene rivolsero di parole. Ed ognuna di quelle andava a solcare un baratro tra l'incertezza sulla sua stessa esistenza e l'incipit al cambiamento. Ogni parola - piccina piccina - tagliava un lembo di sicurezza e andava ad imporre un dubbio insolito in una ragazzina di quindici anni. Sono fatta male - si ripeteva - sono fatta male. Fatta male.
Gli sguardi, i silenzi irrisolti quando lei entrava in aula e il sorriso di beffa che attraversava i loro volti --- tante macchine perfette puntate sull'umanità di Carolina che la gettavano a terra. I commenti sgarbati e l'esclusione. L'allontanamento di Catherine -- o credevate fosse casuale?
«Catherine, a pranzo.» le dissero una mattina di Marzo che se ne stava seduta sulle scale della scuola con la sua amica. Lei girovagava fra le pagine di un libro, ignorando il piangere del cielo davanti ai suoi occhi. Cath le raccontava di un'insegnante e lei le rispondeva nonostante la lettura, persino dando assenso alle battutine sciocche, luoghi comuni.
Carolina, a quel punto, alzò la testa ed osservò Elizabeth e Louna in piedi. La prima le rivolgeva un ghigno beffardo, la seconda giocava col cellulare, dimenticando la motivazione che le aveva spinte ad allontanarsi dal gruppo.
«Non dovevi pranzare con me?» Catherine, d'altro canto, aggiustò i suoi capelli ricci e scuri; morse l'interno guancia e non era in grado di scegliere. Carolina scosse la testa, afferrò le sue cose e «Non ti preoccupare, sarà per una prossima volta.»
«Stasera?» rimuginò.
«Stasera pigiama party a casa mia, Catherine. Non puoi mancare.» intervenne la rossiccia, dondolando confortata sui talloni. Un piccolo sorriso si fece vivo sul suo volto e Carolina mise tutte le sue forze nell'atto del girare loro il viso e camminare a testa bassa, ricurva sull'aumentare delle insicurezze, verso degli spalti -- dove, forse, l'avrebbe raggiunta Josh.
*****
Non alludo ad ulteriori situazioni di questo tipo, risulterei ripetitivo e nuocerebbe al mio ego. Ché mi direste: e questi sono motivi che uccidono? Dovrei dirvi di sì, che l'abbattimento di una persona è progressivo, dettato da grandi cose ed altrettante ingenue. L'addio ad una persona, d'altronde, non risulta ai vostri ricordi come lento, dispersivo e crudele? Abbindolato dai cliché, leggermente esagerato e tanto altro. Allo stesso modo, miei adorati, risiede la malignità della distruzione.
Ma non spenderò righe e righe per raccontarvi di insulse frecciatine scolastiche tipiche dei momenti adolescenziali. Le faide di corso, le differenziazioni sociali e qualche antipatia di troppo. . . sciocchezze che avrete vissuto e di cui bramate con solennità e rimpianto il ricordo.
Pertanto, scivolo alla metà del secondo anno. Carolina intraprese la già discussa relazione con Connor e credeva di aver trovato il velato amore. Quel sentimento positivo, che ti rende entusiasta. Certamente, lo era. Entusiasta. Si introduceva, coi suoi capelli mossi fino alle spalle, in comportamenti adulatori, quasi con fugace espansione di attimi che reputava imperdibili. Le piaceva intendere la sua relazione come una polaroid, voleva immortalare.
Postava screenshots, foto, non nascondeva la sua felicità e non ne aveva l'intenzione. Stava bene. Parlava, ne parlava e lo sappiamo, le voci di corridoio tardano ad arrivare se vi è interesse affinché avvenga.
Una mattina, quando Catherine aveva dimenticato il cellulare al tavolino del bar andando via con foga, lei si rimbeccò a sbirciare fra i messaggi che legavano l'amica al gruppo. Sapeva di star sbagliando, ma non se ne pentiva. Pochi caratteri e ciò che vide la devastò: insulti, prese in giro e affermazioni che la riguardavano. Atroci, per una giovane illusa, che le toccavano l'animo. Come carta, come vetro. Desiderava sparire, diventare mare. Che, frastornato, si abbatte sugli scogli e pare non pensarci.
Guardate la foto profilo di Carolina. Chi glielo ha scritto? La madre?
Ma Carolina ha davvero amici?
Carolina è stupida.
Ragazze, Carolina è idiota. Crede a tutto quello che le si dice.
Ma quanto è irritante la voce di Carolina?
Carolina - ed era Catherine - mi ha invitata a dormire da lei. Incubi.
Ti ha invitata? Ci vuole coraggio a passare del tempo con quella.
Ma Carolina parla sempre?
Ma avete visto com'era vestita Carolina?
Ma Carolina piange sempre? È cretina mica?
Carolina e un fidanzato? Deve essere cieco e sordo.
Raga, Carolina parlava da sola oggi. Quella è scema.
Ma quanto è vomitevole il comportamento di Carolina?
Ma Carolina che ha alzato la mano oggi? Tiene sempre da dire.
Ma come fanno i suoi genitori a sopportarla?
E altri, altri, altri -- tutti della medesima persona. Alcuni delle sue amiche, ma Elizabeth pareva odiarla. Le parole si riversavano su di lei come una cascata, un inappropriato senso di nausea le scombussolò lo stomaco, la gola non reggeva e rimise nel bar (e la presero in giro anche per quello) quello che non aveva mangiato. Erano coltelli -- lame appuntite che degradavano le sue membra. Su e giù, su e giù, il contrastante rigettare andava su e giù e deturpava, annullava, svuotava. Si rialzava e correva via, lasciando il telefono lì dove Catherine l'aveva dimenticato. Correva, cercando il bagno, e si rifugiò nelle lacrime salate che accompagnare il vomito dritto nel buco del cesso.
Ma Carolina piange sempre? È cretina mica?
E voleva smettere, impiegare quei secondi per arrabbiarsi e pretendere rispetto. Le sue mani divennero rosse per il contatto intenso con le piastrelle bianche. Cercava di sorreggersi, i capelli si sporcavano di saliva e gli abiti emettevano un tanfo disgustoso. Abbandonò i freni inibitori, asciugò i rimasugli con la mano ed appoggiò la testa al muro. Non provava sentimenti, neppure la delusione. Le labbra separate, le lacrime che avevano terminato di renderla fragile ed accolse un sentimento sbocciante: indifferenza. Lo accarezzava come particella di una persona scomposta.
Seduta in una solitudine avvincente, quella di altri tempi, magari identificabile nello scorrere delle pagine di Sartre. Vedeva fuoco, fuoco che bruciava ogni cosa, fuoco al di sopra del suo capo, fuoco che aleggiava nell'aere seppure brillasse in eterno --- quel fuoco non consumava. Divorava, asfissiava, districava tutti i lembi che componevano il suo mondo abbiente fatto di piccole caratteristiche spacciate dall'abitudine per eque, giuste.
Sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio e prese un respiro: sarebbe tornata a casa. Avvolta nelle candide sfumature della sua fantasia, avrebbe immaginato atmosfere che la vestissero a pennello. Che le calzassero come adeguate, che non la giudicassero. Qualche parolina scambiata, canzoni appostate di fianco all'animo intristito e riletture delle righe di Jane Austen. Sì, sarebbe tornata a casa.
Uno squillo del suo cellulare, una rapida notifica. Era Connor, ma la ignorò. Aveva bisogno di respirare, percepiva un'insalubre desolazione per la mancanza di --- cosa esattamente le era venuto a mancare?
Uscendo dal bagno, decise che avrebbe saltate le ultime due ore, scansando occhiate e commenti per l'aspetto osceno che l'accompagnava e cammino fino al suo armadietto, prendendo i libri che le occorrevano. Poi, fino all'uscita. Passo pesante, trascinava con sé la sua intera persona ed attraversò l'atrio, ritrovandosi chi meno desiderava.
Louna, Gennie e Elizabeth. Poteva andare via, fingere di non sapere e lasciarle marinare l'ora di lezione in comune, sedute su un tavolo a fotografarsi coi libri aperti davanti a loro. Ma vi si avvicinò, disgustosa come riteneva di presentarsi, e inerme le guardò. Negli occhi di Carolina - se li aveste potuti osservare con accuratezza - vigeva non rabbia, non repressione. Curiosità. Lei era così, avreste mai il macabro coraggio di cambiare una persona?
La salutarono -- due di loro, le porsero un ciao affrettato, incitandola a parlare e «So quello che dite di me e vorrei parlarne.»
«Che diavolo ti è successo?» nel tono di Ginnie persisteva una preoccupazione fraterna, quasi affettuosa. Si sollevò, con le sue mani impacciate e grassottelle tirò fuori dei fazzoletti dallo zaino e glieli porse. Carolina li lasciò cadere a terra.
«Voglio solo parlare. Perché dite quelle cose? Potreste dirmele in faccia e non alle spalle.»
«Non so cosa ti abbiano detto --» iniziò Louna.
«L'ho letto. Come non importa, ma so per certo che è così.»
«Allora, non so cosa tu abbia letto, ma ti assicuro che non ti odio. Non ti reputo la persona più simpatica al mondo,» gesticolò e afferrò con le labbra piene la sigaretta dapprima presa dal pacchetto economico, «Ma se queste cose le ho dette anche io, mi dispiace. In effetti, non è maturo parlare alle spalle.» concluse, scrollando le spalle come una faccenda di poco conto. La ragazza dai capelli mossi annuì, rivolgendo lo sguardo a Ginnie che sorrise e «Io sono certa di non aver detto niente. Forse ho riso, ma non ho problemi con te, Carolina. Scusa, ad ogni modo.» le credeva.
L'ultima continuava a messaggiare quando alzò la testa, masticò in maniera più accentuata la gomma e «Guarda che anche tu ci parli dietro, carina.»
«Non so chi te l'abbia riferito, ma è una stronzata.» il tono di Carolina era forte, più alto del solito. Stringeva tra le mani sudate ciò che doveva portare a casa e impiantò i suoi occhi in quelli dell'altra. Vuoti.
«Bellina, io non parlo senza sapere.»
Rise, lei. Era ridicola. «Allora, quando porterai le prove, ne riparleremo. Ora potresti scusarti.»
«O tu potresti andare a piangere. Ti risulta facile. Che merda di carattere che hai.» e si alzò, rispondendo al telefono al suo adorato ragazzo, mentre le altre lasciavano Carolina in piedi, sola e confusa, seguendo l'amica.
*****
Di avvenimenti come il precedente ne fu pieno anche il secondo anno. Frecciatine, battute sboccate ed insulse, riferimenti scortesi e quant'altro. Persino un post su facebook, al termine del secondo anno, che riconduceva alla prima dei corsi frequentati anche da Elizabeth: È inutile che prendete bei voti, se poi fate schifo come persone. Un abuso alle parole, letteralmente. Un disgraziato abusare nei confronti di chi si crede diverso. E siamo ostinati, --- anzi voi umani lo siete. Determinati nel resoconto: il differente va abbattuto, demoralizzato; il diverso va scacciato, che può oltraggiarti nella corsa alle scarpe nuove.
E quindi giungiamo all'estate fra il secondo anno ed il terzo: diciassette anni da compiere e foto postate su instagram che rimandavano ad una rottura. E a Carolina, che aveva tagliato abbastanza i suoi capelli, sdraiata con un buon libro fra le mani e dei lividi sul corpicino esile, non erano passati sotto gli occhi inosservati.
Elizabeth aveva rotto col fidanzato e, nel mentre, dimagrita in un modo eccessivo, esorbitante, addirittura esoso per il suo fisico sommariamente debole.
Carolina non riusciva a lasciarsi nei suoi limiti e soffriva della dispersione che Beth appariva vivere. Così, le scrisse. Come stai?
Non impiegò molto tempo a rispondere, era sempre online. Ci siamo lasciati. Lui sta con un'altra.
Carolina le parlò, le raccontò aneddoti alla Charlotte Bronte e le disse che nessuna -- nessuna persona meritava di annullarsi per il piacere di altri. Le raccomandò di stare di bene, di contattarla se avesse avuto l'occorrenza e le suggerì delle cantanti che l'avrebbero divertita.
Grazie Carolina. Le rispose, con uno di quei smile sorridenti ed un cuore. Carolina ne visse le sensazioni con pienezza, amava rendere felici altri.
Poi, So che tra noi non scorre buon sangue, ma davvero, se ti occorre, sono qui.
Ciò che venne dopo, la strusse. Di nuovo. La paralizzò. Permise alle lacrime di corrodere con forza, ancora, le pareti delle sue iridi. Non è che non scorre buon sangue. Se tu parlassi di meno e fossi meno estroversa mi piaceresti, davvero. Sei tu, ma non è che ti odio.
Parole che si conficcarono come pugnalate nella pelle genuina di Carolina, la strapparono. La tagliarono con esuberante disinteresse. Dall'alto verso in basso. Su e giù. Le parole la spezzavano in due. È che ora Carolina è morta, andata, spiritata. Cosa importa il male che le procurarono delle banalissime parole? Non potrebbe in alcun modo raccontarvene.
Ma ne rimise. Interiormente. La musica divenne ripetitiva, i pensieri superficiali, i discorsi talmente frivoli da non reggersi e fluttuare lontani da lei al primo alito di vento.
Altre occasioni ed Elizabeth non ne perse nessuna per ripeterle quali parti di lei detestasse. I commenti sul fisico, «Ma tu sei anoressica, che ne sai.» che parevano inaugurare la futilità che vagava nelle membra di quella ragazza. Odiosa, perfida, bruciante di un'insana invidia irrevocabile.
Una lettera pesava e non se ne rese conto. E ad ogni parola apportata, ad ogni sillaba pronunciata, un pezzetto di integro di Carolina cadeva in frantumi sotto scarpe altrui -- si annullava per godimento di sciocche oche giulive. Una parola si infilava nelle budella e le attorcigliava, si insidiava nella gola e bruciava, si imprimeva sconsolata sulla pelle destabilizzando. Mancavano gli occhi dell'innocenza, mancava il guardarsi attorno e la gentilezza che preserva le persone che ci stanno attorno dal morire dentro.
Le parole sono piume. Pesano, ahimè, come piombo.
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