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Daisy - Past

La prima volta che Daisy ebbe a che fare con Carolina era durante il primo anno della scuola superiore. Carolina risultava ancora espansiva, emotivamente coinvolta e tutto - tutto il resto la stupiva. Trovava la magia nei singoli attimi, astrusi momenti di grazia che donavano al suo visino un candido sorriso. Carolina era semplice, parlava molto e Daisy la trovò simpatica.

Avevano amato gli stessi cartoni, ascoltavano la medesima musica ed entrambe adoravano leggere -- seppur una per identità, l'altra per perditempo.

Ma non divago prima di presentarmi, che gran scostumata risulterei, altrimenti? Sono l'Autostima e v'avverto: risulto non delle migliori narratrici. Dicono che sono aspra, malinconica; potrete ammettere che questo racconto vi abbia dato sui nervi, se desidererete. Solitamente son ben viste le critiche.

Perché disperderci in chiacchiere annoianti, da prassi? State attenti, detesto la disattenzione ed accomodatevi. Una mano fra i capelli, l'altra all'oggetto attraverso il quale ne starete leggendo e deglutite. Fatto? Disgraziati, peggio per voi.

Dov'è, che c'eravamo fermati d'improvviso? Ma certo: riportavano fra le ovvietà le faccende che possedevano in comune. Entrambe avevano attraversato periodi non teneri e a stento riuscivano a legarsi alle persone.

Carolina invitò Daisy ad uscire quando si resero conto di avere non pochi corsi da frequentare insieme. Ne era contenta. Le scrisse di vedersi la sera e la seconda ne fu altrettanto colpita: lo voleva. Credeva che la ragazza dai capelli mossi e le spalle ricurve fosse un buon esempio di simpatia.

La serata trascorse, perché soffermarci?

«Te lo assicuro, ho adorato questa saga. Credo che Il signore degli Anelli sia la migliore mai stata prodotta.» annunciò Daisy. Allora aveva i capelli di un biondo acceso. Era il suo colore naturale, ma credeva non le stesse granché: stonava coi suoi occhi, un po' anche con gli abiti ed odiava come cadesse sulla sua pelle giallastra.

«Ehi - ehi. Vacci piano: Harry Potter è ovviamente migliore.» Carolina se la rideva, stringendo fra le dita la lattina di coca cola ammaccata. Daisy ricominciò a smarrirsi in una risata accesa, viva.

«La prosa di Tolkien è perfetta.» argomentò e prese l'ultimo sorso della sua aranciata, alzandosi dal tavolino del vecchio parco nel quale avevano speso del tempo durante quella serata ventilata.

«Quella della Rowling si accresce man mano che si arriva all'ultimo libro.» portava, fiera, una mano al petto ed insieme scoppiarono ancora a ridere.

Le ore volarono via, neppure si accorsero di viverle. Camminarono a destra e a manca, mostrarono l'un l'altra le serie tv amate e nulla pareva spezzare l'incantamento che le aveva con spigliatezza imprigionate.

Addirittura, a fine serata, «Puoi andare, Daisy. Papà arriverà presto.»

«Aspetto con te.» e Daisy odiava aspettare.

Il tempo volò via chiaramente e Carolina confidò a Daisy fatti personali, si fidò ad occhi chiusi e ripose in quel nuovo scrigno confidenze dalla natura nuova che vennero ricambiate da frasi gentili e buone e altrettanti segreti.

I giorni trascorsero, dunque, ma le mattinate in classe si adagiavano nella consuetudine e sembravano già avventarsi sull'abituale. E Daisy detestava la monotonia.

I sorrisi di Carolina, che dapprima le erano apparsi pieni di vita e di beatitudine, iniziavano man mano ad infastidirla. I suoi commenti e la sua dialogica stonavano alle orecchie della ragazza dai capelli oramai viola. E fu un giorno che «Stasera ti va di uscire, Daisy?» corrucciò le sopracciglia e, per qualche effimero attimo, tirò via gli occhi dal telefonino e «Certo.» sorriso smorfioso, mani distanti.

Potevate tutti credere che quell'espressione, a guardarla, si ritenesse bastevole per approdare nella convinzione di star bene insieme. Pertanto, Carolina si preparò, quella sera, si truccò (cosa che faceva di rado) ed uscì per ritrovarsi al luogo di incontro. Le auto scorrevano con rapidità nuova, una velocità lentissima, tra quelle di instancabile durata celere. Come fosse possibile accertarsene non sarei in grado di affermarvelo, ma Carolina sedeva indisturbata su una panchina accanto alla gelateria e controllava se ci fossero messaggi nuovi. Dieci minuti - Daisy era solita nel ritardare - poi venti; il tempo si trasformò in mezz'ora, un'ora. Un'ora ed un quarto, un piccolo messaggio sotto la pioggerella di quella serata.

Dove sei?

La risposta tardò di qualche attimo di troppo e Non posso venire stasera.

Carolina abbassò il capo, strinse le sue manine intorno alla giacca verde che aveva indossato e respinse dentro le lacrime, provando a sorridere ai passanti devoti alla compagnia rumorosa. Tutti --- tutti apparirono ai suoi occhi felici. I ragazzi che giocavano con la cocacola ed urlavano, altri che preparavano i soldi per lo svago quotidiano; ed ancora quelli che semplicemente si sistemavano sotto una panchina al coperto e mangiavano qualcosa. Ovunque puntasse gli occhioni scuri sembrava esserci una contentezza che desiderava con sensazione ardita nel suo cuore.

La cittadina da ventimila abitanti, non l'aveva mai vista tanto spoglia. I palazzi si ergevano scostati, la tinteggiatura che li decorava - e che di giorno animava quelle strade - si stendeva come noiosa, spenta. I lampioni non davano la luce di giorni diversi, parevano aloni disconnessi, non disposti ad illuminare come era da prassi. I locali non donavano più un suono allegro e vispo, carismatico, bensì stonavano di un raro chiasso odioso. Tutto era statico, gli alberi - le cui foglie si muovevano con frenesia considerato il vento - erano secchi ai suoi sensi, non c'era natura che poteva confortarla davanti ad un'altra delusione.

I lineamenti le si spiegazzarono, il suo esile corpicino incominciò ad alienarsi in un tremolio assurdo e impiegò pochi secondi per afferrare di nuovo il telefono - sempre sotto la pioggia autunnale di quel giorno - e chiamò Josh per ricevere quell'abbraccio di cui con disperazione mostrava di aver bisogno.

Il giorno dopo Daisy non si scusò per niente, evitò la parola e gli occhi. La lasciò, con la maggiore cautela del mondo, a se stessa mentre una gentile amicizia che nasceva veniva repressa.

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Non dovete svalutare questi eventi reputandoli come singoli. Daisy deludeva Carolina proprio quando Catherine iniziava a distaccarsi, Josh a mutare il suo atteggiamento ed Elizabeth ad offenderla. Accadde insieme, mese prima, mese dopo. Anno prima, anno dopo. Ma in quindici, sedici, diciassette anni si può davvero prendere in considerazione questo tempo superbo come scontato e separato? Siate una gracile ragazzina vivente l'età che tutti abbiamo immaginato almeno una volta, vestiate di abiti larghi, abbiate i capelli crespi e scuri, le scarpe sempre sporche e parlate. Parlate! Perché lei parlava, parlate ed adesso sappiate che nessuno vi ascolta, che ognuno vi dà per scontato. Allora, com'è che si sta?

Ma che narratrice opportunista che risulto, non credete? Innanzitutto, dovrei non interagire. Prometto mai più avverrà, ma è raro che mi sia data la possibilità di raccontare -- mi sento emozionata.

Dove eravamo? Ma certo! Ve lo assicuro, di avvenimenti come questo ne seguirono tantissimi, che a raccontarveli perderei infinite lettere che potrei impiegare in altro. Quindi, sorvolerò come dei gabbiani in cerca del posto perfetto.

L'annata nelle classi in comune fu tremenda, le situazioni erano sempre comode a Daisy per manifestare il suo disgusto verso il comportamento di Carolina.

In risatine quando esprimeva un parere, in aggressività quando Carolina tentava un approccio o in disintegrazione delle sue opinioni nel momento in cui le esponeva.

«Non mi interessa la tua opinione.»

«Quando mi fregherà di quello che hai da dire, ne riparleremo.»

«Ma chi cazzo ti ha chiesto niente, Carolina.»

Piccole frecciatine che si insediavano negli occhioni lucidi della ragazza dalla postura ricurva e decadevano in singhiozzi dalle sue labbra quando il bisogno di rifilarsi in un guscio realizzato per lei si faceva di una stramba insostenibilità. Un guscio dentro il quale le parole la facevano piombare, un rifugio d'apparenza adatto, ma dei più distruttivi per un individuo.

Accadde, invece, in un pomeriggio della seconda superiore, esattamente nei giorni in cui il rapporto fra Catherine e Carolina andava disintegrandosi, che la seconda passeggiava da sola e si recava nell'aula di inglese, proprio lì, senza discrezione o alibi, Daisy se ne stava in piedi invitando ragazzi alla sua festa. Persone con le quali mai aveva avuto un rapporto, non si poteva scorgere uno dei compagni che non possedeva quel bigliettino giallo.

Carolina non pretendeva, si sedette e fu quando Daisy le passò avanti, chiacchierando con Jennifer - d'altronde assisa accanto alla mora - riguardo i dettagli che la domanda sorse spontanea e «È il tuo compleanno?»

«No.» risposta fluida, ma marcata. Palesemente finta. Neppure ci provò a nascondere i dettagli, le ciocche di capelli neri ed aggrovigliò le sue pose beffarde in un cerchio di ridicolizzazione crescente. Si accostò al banchetto e le sorrise.

«Beh, sembra.» la ragazza mascherò un risolino e scrollò le spalle; lasciava intendere un non volere niente in cambio rispetto alla domanda, però «È la festa di mia sorella.»

«Non voglio un tuo stupido invito, Daisy. Era curiosità

«Tu sei troppo irritante.» le ridacchiò sotto agli occhi e sgambettò lontano da lì, continuando imperterrita ciò che aveva lautamente iniziato.

Carolina abbassò il capo e terminò in una messinscena ove falsificava noncuranza quando tutti i suoi compagni parlavano di quanto divertente fosse stata la festicciola della ragazza -- tutti, Catherine compresa.

Mangiucchiava le labbra, si chiedeva dove diavolo avesse sbagliato e se magari - dio solo lo sa - le fosse venuto in mente che fidarsi ad occhi chiusi può nuocere, con possente probabilità adesso non giacerebbe in una bara bianca.

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Poco dopo giunse all'orecchio di Carolina che Daisy spifferava ciò che lei le aveva raccontato in attimi di debolezza. «Dice che sei vittimista.»

«Daisy dice che Carolina finge di avere problemi in famiglia.»

«Daisy mi ha detto che Carolina si tagliava.»

«Daisy ci ha raccontato che Carolina non parla con la madre.»

«Daisy ha anche aggiunto che Carolina dice soltanto stronzate.» e questa era la preposizione che chiudeva quello che veniva affermato con calma assurda. Le veniva rigettato tutto contro, ogni brandello che aveva regalato alle mani di Daisy le era tirato contro pieno di cattiveria ed invidia.

Si ascoltò spogliata, muta. Incapace di assorbire altro. S'era fidata come di una sorella ad un primo impatto favorevole e sapete da chi andò per ricevere del minimale conforto.

Ma non concepiva!, cielo non concepiva come le persone desiderassero ridurre in rovinati pezzetti accartocciati l'anima di qualcun'altro. Come un segreto potesse pesare tanto poco e come quel nuovo sentimento andava via via sbocciando in lei e l'accolse in un abbraccio malinconico, rammentando il reale andazzo di un mondo di fretta. Un mondo che per la frenesia costante riesce persino a dimenticare il rispetto verso l'altro.

Un insieme di cervelli per niente in grado di dar una massa plausibile ai pensieri, ai discorsi. Un amalgamarsi di individui dalla sfaccettatura artificiale, non prossimi all'assimilazione della superficialità con cui si apprestano a camminare.

Figure che riempiono il tempo con chiacchiere nulle, effimere. Chiacchiere dalle fattezze incompiute. Chiacchiere che non badano alla convivenza. Chiacchiere che non badano ---  no, non le chiacchiere! Persone che non badano ai mostri di altri, alle debolezze. Persone che, se hanno le possibilità, distruggono il diverso, lo annientano e che mai, mai presteranno davvero attenzione ai sentimenti.

Ma, nonostante la comprensione di una verità per i suoi sensi, accolse il nuovo sentimento come una delusione asfissiante.

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Quello stesso anno Carolina decise che avrebbe fatto un'eccezione alle sue regole rappresentanti un esistenzialismo che da piccola l'accompagnava e si incammino in un abito blu al ballo di Natale. Esatto, la conoscete già questa storia.

Non aveva ammiratori o spasimanti che si manifestavano, non se ne rendeva conto. Pertanto, optò per andarci da sé e l'aveste vista, era stranamente certa del suo aspetto. Aveva ingentilito le gote con della cipria che le dava un'aria esuberante, i suoi occhi vivevano nel vispo, indossava un abito largo che le stava a pennello e un po' zoppicava sui tacchi, ma la divertiva.

Con quel carisma aveva ballato l'intera serata - sebbene non fosse granché nell'atto - e aveva riso a tal punto, insieme a Josh, che le doleva la pancia. Si sentiva bene, felice, a casa. E fu quando Josh era troppo ubriaco per darle conto che successe.

Girovagava in cerca dei bagni ed incontrò gli occhi liberi nelle catene di Daisy; le sorrise, parve propensa ad evitare il contatto, ma i suoi schiamazzi furono pressocché assordanti e «Carolina, che cazzo ti sei messa, una tenda?» tono acceso, lingua biforcuta e lame affilate taglienti quei limiti che la curavano da che era piccola. Quella cortese sicurezza venne scandagliata e poi gettata al di sotto delle scarpe di chiunque, lo sguardo non sapeva reggere e impiegò poco per assorbire altro, «Ora piangi ancora? Ma che palle che sei, Carolina. Schizzata e vittimista.» e tutte risero.

Corse fra le persone, non trovò con la vista appannata una eventuale direzione, si rimbeccò a buttare uno dei suoi tacchi perché spezzato e rinchiudersi nelle quattro pareti di un silenzioso bagno che di tanto in tanto veniva occupato da gemiti.

Singhiozzò e non fu piú certa di sé. Improvvisamente era con eccessività magra, storta, i denti erano ingialliti, i capelli gonfi. Si lanciava in un inferno di piena consapevolezza delle sue scarse capacità estetiche. Gli occhi erano di un colore di merda, la mascella troppo grande, le labbra infinitamente sottili, la fronte alta piú del necessario. Le sue mani piccole e quel che vedeva non le permetteva di associare un adeguato riflesso a se stessa.

Piangeva pari ad una stupida, toccandosi davanti ad uno specchio rovinato. Distorceva l'immagine già contorta che possedeva della sua figura e nulla le calzava bene. Cosí, si incurvό, ché dal guardarsi non ottenne risposte - totalmente in disquilibrio, fasulla, infima, imperfetta, - e iniziò a far cadere le lacrime salmastre sul bel vestito blu nel bagno sporco.

La parte della storia che seguì l'avete sentita in precedenza, sapete chi entrò e cosa non fece. No? Pessimi in memoria, tornate indietro e non dimenticate nessuno dei passi di una distruzione progressiva, razza di screanzati.

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Un altro giorno, erano un po' più grandi e Carolina fu invitata da Daisy ad andare in bagno. «Devi vedere che ci hanno scritto.»

Sembrava preoccupata, per niente interessata, ma vestiva alla perfezione i panni di una ragazza premurosa. Carolina alzò la mano nel suo maglioncino giallo e l'insegnante di letteratura le conferì il permesso di alzarsi. Contò i secondi prima di affacciarsi dalla porta del bagno e notare una grafia conosciuta.

Una scritta grande quanto la parete posteriore si estendeva in un Carolina P. ed una freccia partiva da essa terminando nel cesso. Da lì si aprivano una serie di richiami alla sua persona.

Carolina è stupida.

Carolina è lamentosa.

Carolina è una troia.

Carolina fa schifo.

Carolina parla troppo.

Deglutì, un rimorso si aprì nello stomaco e i suoi mostri vennero a galla. Pregò per il sentimento di incessante fastidio che la rendeva trasalente, si insediava nella gola, la disgustava, viaggiava ad una velocità moderata e si dondolava fra le parete di un corpicino. Come il mare, immaginando delle onde che, coccolandosi nella beatitudine di una leggera tempesta, ritornavano agli scogli con maggiore forza della volta precedente. E i muscoli di Carolina erano quegli scogli, la sua gola era il centro disturbato della morbosa inquietudine, ogni taglio trafiggeva la figura incurva che, man mano, cedeva per terra fino a raggiungere con le mani il bordo del gabinetto. Quella fu la prima volta che Carolina vomitò per una stupidaggine. Si percepì oltraggiata ed inorridita per l'indelicatezza che le persone sanno dimostrare. Si insofferente, ma soprattutto meritevole di una malignità a tal punto prorompente.

I suoi tratti provavano soddisfazione rassicurante ad ogni rigetto, le sue dita mollavano di poco la presa, la sua vita appariva indebolita e rafforzata. Le gambe tremavano, il sudore era palpabile mentre le scendeva lungo il collo e si infiltrava nella saliva rimanente dal rigurgito impertinente.

Le lacrime allo stesso modo, divenivano un tutt'uno con quel vomito dall'odore disgustoso, neppure si stringesse tutto in un ciottolo - un riassunto malizioso di una cattiveria dalla pelle dura - di cui ci si poteva liberare.

Con la manica della felpa asciugò la fronte bagnata e cercò di rialzarsi contro il muro freddo per riassumere le sue gracili forze. Afferrò della carta igienica e con lentezza la portò alle labbra, constatando che non fosse il caso di tornare in aula. Tento, ad ogni modo, di camminare e di non rimanere offesa dalla meschinità altrui, ma cadde miseramente là dove aveva anche vomitato.

Se si fosse guardata da fuori, negli abiti profumati di un'altra figura, - pensò - avrebbe per la prima volta percepito della vergogna al posto di un secondo individuo.

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C'è un altro fattarello di cui bramo affinché ne siate partecipi. Un fatto sciocco, misero, che da solo direste E quindi?, ma poi ricollegherete.

Anche qui, faccio franchezza rispetto a quel che già avrete assimilato e ritorno con voi al terzo anno, alla relazione spezzata di Josh e Carolina.

Daisy risulta possedere rapporti sociali carismatici, per niente statici. E fu caso o destino che Josh si ritrovò nella combriccola della ragazza dai capelli colorati di blu e venne a contatto con una persona diversa da quella che Carolina descriveva. Più disponibile, più tranquilla. Una persona divertente ed energica. La adorò. Le volle a tal punto rivolgere la sua frivola ammirazione che prese parte ad uno scherzetto infantile.

Daisy iniziò ad inviare sul gruppo della classe differenti foto che la rappresentavano vicina al ragazzo dalle sopracciglia folte e con l'aiuto delle sue amiche creò una situazione sgradevole.

Ma come siete belli tu e Josh, Daisy.

Si vede che vi volete bene.

Quando una persona è bella, amicizie così sono scontate.

Ma che bella coppia!

Devo davvero descrivervi la sensazione che si fece largo in Carolina, adagiata fra le coperte rosa del suo letto, a gambe incrociate ed il suo pigiama delle winx? , suppongo.

Fu come un lamento che s'espandeva per la gola, quel piangersi addosso, nello stringere non confortante di uno stupido pupazzo rosso, e l'angoscia le cadeva sulle spalle. Teneva a stento il respiro. Le parole, le parole le pesavano sull'anima con nonchalance inaudita, la disintegravano taglietto dopo taglietto e per la prima volta Carolina sentì di non essere stata abbastanza. Di aver fallito nell'affetto, la più lieve delle virtù umane. Comprese - o credette di comprendere - di non poter permettersi delle persone al suo fianco se non era in grado di dar loro ciò che meritavano. Capì - o credette di capire - che il suo carattere fosse in realtà non una gran cosa e che l'allontanamento non era di certo opera di altri. L'allontanamento era opera sua. L'allontanamento l'aveva causato la sua nullità, l'incapacità di indossare serenità e divertimento. L'aura pesante. La dialogica continua.

L'universo circostante non la toccava con scarno egoismo di cui era degno portatore, piuttosto era lei a manomettersi pezzettino dopo pezzettino, granello dopo granello in un osceno gioco di autodistruzione.

Per la prima volta Carolina si rese conto - o credette di rendersi conto - di non avere un valore. E non avere un valore è come annullarsi.

E l'avrete già sentito, ma. . . Sapete a cosa assomiglia l'annullarsi? Al vuoto. E non c'è cosa piú mancante di respiro.

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