Connor - Now
N/A: so quanto è passato e sono desolata, ma questo capitolo è stato un blocco che non avete idea. Capirete. E non ne sono poi così soddisfatta, ma meglio di così proprio non posso.
Ci sono scene pesanti e se non tollerate un determinato tipo di narrazione, vi prego smettete di leggere quando troverete il mio avviso.
Nessuno poi mi contatti con "ma che scrivi è un ff!1!1" o "ti segnalo la storia ok" perché vi ho avvertiti.
Ad una certa troverete frasi evidenziate - capirete - quelle non sono mie. Ma di una sceneggiatrice a cui ho tutto da invidiare: Sarah Kane. Vi consiglio ciascuna delle sue cinque opere, ma se siete disposti a sopportare una serie di tematiche difficili. Altrimenti fatevi una grazia e leggete solo Febbre (lo amerete).
Scusatemi ancora, adesso ho tutti - davvero tutti - i capitoli pronti e sarò rapidissima. Scusate. Capirò se non ci sarà anima viva ma ok.
Ciao ciao
Probabilmente ti massacra l'idea che i suoi genitori hanno definitivamente aperto la causa --- ti smantella il pensiero che abbiano dei nomi. Ne abbiamo, lo assicuriamo. Nostra figlia merita giustizia, hanno detto al giornale locale. E ti strazia. E ti divora. E ora lo sai, adesso sai che non puoi far sì che il segreto resti tale --- ma dov'è il cuore? Dov'è il cuore nel tuo rotolarti su un pavimento freddo mentre il Natale è alle porte? E ci sono così tante ombre, castelli infimi, inutili. E cosa ti fa completo se non una leggera e verace frase detta così: per caso. Come hai gettato Carolina dal ponte della vostra schifosa cittadina: per caso. Merita giustizia. E tu? E gli altri? E le vostre anime in pena neppure foste dei cani randagi in cerca di adozione che vi garantisca sensibilità? È andata, Connor, puoi rantolare ed esistere nell'unicità della tua facinosa vita, del volgarissimo camminare che adempi con delle spalle erette ed un candore tanto genuino -- disgustoso. E i tuoi occhi blu!, immagina, le iridi brune di Carolina sono piene di vermi. E le sue manine, le manine che tanto amavi ti carezzassero --- i vermi le stanno mangiucchiando. Pezzo dopo pezzo, la tua Carolina sta venendo smontata dal tragico andare dell'eternità e potrai pregare la luna quanto tu preferisci, scorre. Va. Sta andando. E tu stai rigettando metaforicamente l'orripilante maneggiare del tuo pentimento. Scorre.
E stamattina tua madre - una delle due, tra l'altro s'è fatta una tinta di capelli diversa - è corsa in camera tua e ti ha svegliato, nonostante a scuola fosse sciopero. «Quella ragazza che non ci hai mai fatto conoscere, è in tv.»
«Eppure sono certo sia tre metri sotto terra. Controlla bene,» ti sei voltato e hai posto sarcastico il cuscino profumante dei tuoi incubi - e del sudore inodore che da essi scaturisce - sul tuo capo, cosicché la sua vocina scioccata e altruista non ti persuadesse. E te l'avessero detto, che innamorarsi strugge le membra. Non l'avresti fatta entrare. O uccidere. Una delle due. Potevi scegliere, Connor, guardati, mantieni le braccia attorno allo stomaco che duole e anneghi nel tuo malessere.
Ma lei ha continuato, ad ogni modo, stamane. Ti ha urlato di smetterla con il tuo cinismo, ti ha tolto il piumone fradicio di dosso e «Non mi fotte se vuoi dormire. I suoi genitori stanno di merda e non ho potuto pensare come io starei: mi ucciderei con te.»
«Avviati.» non ti eri nemmeno reso conto di chi ti stesse parlando che il tuo lamento è stato più rapido e odioso. Le sue mani callose hanno abbracciato la tua schiena ed il profumo di giglio ha invaso le tue narici, inebriante. Hai ruttato e «Non sei nemmeno mia madre, Lily. Non rompermi il cazzo. Non stavamo insieme.»
Lei non s'è scomposta, mica è una che trasalisce. Hai perfino osservato i suoi lineamenti scavati, i capelli prima scuri, ora supponi di un rossiccio che non ti dispiace, le ornano sempre il viso e le labbra sottilissime, quelle labbra ricche di buoni propositi e canzoni pop mai scadute - se è lei a cantarle strillando - e le sue dolci attenzioni non ti nuocciono quanto invece avresti sperato. È adorabile il modo con il quale tenta di salvarti. Stupido, ma pur sempre adorabile.
«Ascolta,- ti ha detto ad una certa, i suoi occhioni verdastri ti hanno scrutato le grinze del viso grigiastro, imbruttito, scostante, e - C'è una cosa che io e tua madre pensiamo sia ora che tu abbia.»
Non ha impiegato chissà quanto ad alzarsi dal molle materasso su cui distendi i tuoi sconfortati sentimenti ed esce dalla camera azzurra. I suoi piedi scalzi, dalle dita curate, hanno impiegato anche meno nel rientrare nella stanza e le sue mani tengono stretta una scatola di un rosa che non puoi non riconoscere. Un rosa soffice, elegante. Un rosa da amare. Un rosa da sfottere. Quel rosa ed un ulteriore rutto indigesto lasciava le tue labbra di solito da rampollo. E «I genitori ce lo hanno lasciato due settimane fa. Ti sono grati per essere stati accanto a Carolina (sbam, primo colpo) e credono questo lo abbia lasciato perché tu lo avessi (sbamsbam nuoce, ti sovrasta) e hanno ritenuto opportuno dartelo perché tu potessi salutarla (e boom, il tuo cuore se ne sta sfracassato sul pavimento). Spero tu ne faccia quel che ti fa stare bene.» ma tu non la ascoltavi mica, ruttavi, «Lo vuoi, vero?» hai annuito. Supponi di averle biascicato un mollalo lì e lei avrà considerato di tuo modesto gradimento lasciarti solo affinché la mancanza di Carolina potesse penetrarti la misera esistenza. Hai ruttato di nuovo.
E sono passate non poche ore e la situazione non è mutata di un singolo senso di colpa --- tu non conti o guardi più il tempo, oramai, perché l'ansia non ti macini. Tu osservi il pentimento - le varie sensazioni che esso comporta - ripetersi con violenza nella tua mente insana ogni sera prima di andare a letto ed ogni mattina quando i tuoi occhi macabri si aprono e il tuo stomaco fa capriole assieme al tuo orgoglio. E la guardi, lì, sul pavimento. Lì dove non può scalfirti. Lì dove una volta o due ti sei raggomitolato con la ragazzina dai capelli crespi fra le braccia. Lì esattamente dove hai rimesso la dignità poche ore fa --- non sei nemmeno sicuro di aver dato l'adeguata ripulita. Attendi. Che sia sera. Che l'angoscia si plachi. Che divenendo sera l'angoscia vada a dormire per zampillare nuovamente il giorno che segue. Non ha fine. Disturba, diagnostica agonia, ma non ha fine. Quante altre notti insonni deve sopportare un uomo riempito di scheletri altrui e vermi?
Adesso lo fai. Ti immagini il sorriso candido di Carolina nel mentre. Ti alzi, strisci i piedi sudati lungo il parquet impolverato e rovinato fino alla scatola. Rosa. La afferri e ci metti il tuo, di tempo, per tenerla tra le mani - per di più tremando flaccidamente - questa dannata scatola color rosa confetto. Ed è una processione funebre quella che ti accompagna alle coperte da cambiare. E ti siedi. La scatola è rosa. Ti siedi e tieni la scatola rosa fra le gambe intorpidite. Fuori è buio, dentro è rosa, ma un rosa sornione, indurito, sporco. Non il suo rosa --- quello lì era tutto bello e da scopare; questo qui è sadico, distaccato. Inerme. Che razza di rosa sarà mai, ti chiedi.
Leggi e muori un pochino. Connor, c'è scritto. Ma non è che tu lo sappia con certezza, il petto accelera e il polso, non lo controlli. La gola è secca. Le labbra dolgono. Gli occhi vacillano e sono rossicci. Il cuore è morto. Connor, ci ha scritto Connor. Apri. No. Apri. Apri. Apri. Scartoffie. Apri. Lettere? Cedi. Foto? Piangi e non lo stai tenendo sotto il tuo comando. Ricordi, ricordi, ricordi. Un nastro rosso --- le tue lacrime lo bagnano. Un anellino con due cuoricini --- ci sbavi sopra e la tua saliva è disgustosa. Un paio di occhiali senza una stanghetta --- li porti al petto denigrando la tua sensibilità. Tremi. Altro, c'è tanto altro. Tanto. È troppo. Mica lo reggi. Mica lo digerisci. Rutti.
Per ultimo, spostando cianfrusaglie, ritrovi un libro che conosci alla perfezione. Piccolino, delicato, non si direbbe.
«Che stai leggendo?»
«Sceneggiature.»
«Che roba è?»
«Sarah Kane.»
«Sarebbe?»
«Non conosci Sarah Kane?»
«No, mai sentita. Chi è?»
«Era.»
«Cosa?»
«È morta.»
«Ah quindi non è di adesso.»
«Più o meno.»
«Che?»
«Si è suicidata a ventotto anni.»
«Cazzo dici.»
«Ti dico che si è suicidata a ventotto anni impiccandosi con i lacci delle sue scarpe. Mentre era in un manicomio.»
«Macabro e stupido.»
«Banale.»
«Il suicidio? Ovvio che è banale; il suicidio fa schifo, Carol. Tu non puoi toglierti qualcosa che non dipende da te. È banale, magari. Certo. Ma è macabro e stupido.»
«I lacci delle scarpe.»
«Eh?»
«Dicevo: i lacci delle scarpe sono banali.»
Sfogli le pagine. È languida la discesa della tua poca compostezza rimanente lungo il tuo esofago e scende, scende, scende. È amara. È vipera.
E poi ci arrivi. Psicosi delle 4:48. Sai di cosa stai parlando. Sai di cosa stesse invece lei parlando quando ha segnato queste pagine vittime di usura. Un po' rovinate, un po' vissute. Un bel po' morte. Ecco la prima. Rutti. Rutti. Rutti. Piangi.
ed erano tutti là
tutti dal primo all'ultimo
e sapevano come mi chiamavo
quando scappai come uno scarafaggio lungo gli schienali delle loro sedie
Il tuo nefasto aggrapparti alla nostalgia di una docile e amabile Carolina, della sua gentilezza, del suo modo affabile, della sua grazia inesperta e dei suoi sorrisi delicati --- il tuo aggrapparti con gli artigli martiri diviene totalmente inutile. Mentre le lacrime avare, insidiose percuotono la tua pelle bianco latte e i tuoi occhi a stento notano la disgrazia che veste la tua figura nello specchio che la sorte ti ha piantato di fronte, quasi affoghi nel - per me soave - suono dei tuoi lamenti. Soffochi nell'attutire i colpi allo stomaco. Hai le mani che si aggrappano ai piedi e non contieni il tuo alito sgradevole. Il petto non ti regge. Tu non reggi la gravità della pietà che il tuo camminare porta desolata su di te. Oh non reggi. Oh duole il gracile petto. Oh tremano i polsi dai quali le vene sono visibili. Oh alzi lo sguardo e oh la vedi. Carolina è in piedi accanto a te. I suoi occhioni marroni ti osservano imperterriti, il suo sguardo non è giudice --- oh, come la ricordi. Oh, sorride sterile di emozioni. Oh ti cammina accanto con il corpo coperto soltanto da una delle tue felpe --- non sai dove possa essere finita questa felpa, non lo sapevi. Ora la vedi. Ora piangi. Oh, non ti può toccare. Oh, vorresti toccarla. Oh, il sangue affluisce, il petto accelera accelera accelera e il respiro non è regolare. Oh, è così bella. Oh, la guardi. Oh, le budella ti stanno esplodendo.
«Non riesco a dormire,- te lo sta leggendo lei. Ti legge Sarah Kane. Noti come cammina, come si muove. I suoi piedini - trentotto - tracciano il pavimento macchiato di vomito e disgraziati momenti e i suoi capelli paiono così soffici, quasi di seta.
-Non riesco a pensare
Non riesco a vincere il senso di paura, di solitudine, di disgusto
Non riesco a scrivere
Non riesco ad amare
Galoppo verso la morte
Non riesco a stare sola
Non riesco a stare con gli altri.»
Il tuo cuore galoppa nell'innegabile sconforto che le sue manine - delicate così delicate sì delicate - provocano nel volerti avvicinare, baciare, amare, ma non possono. Oh, che sorriso. Oh, cedevole attimo, la guardi. Oh, ti innamori. Oh, piangi ancora più disperato perché lei sgambetta nella tua stanza, come quando era viva e recitava Gatsby. Oh.
«Altri capiranno solo la sofferenza
Sta diventando la mia normalità» ti sussurra. Oh, quei tratti piccioli e desiderati. Oh, quella vocina sicura e imposta.
«Mi manchi tanto, Carol. Mi manchi tanto. Torna qui. Torna qui. Torna qui.» vuoi abbracciare le sue gambe lisce e sottili, ti getti a capofitto nell'intento. Batti le ginocchia a terra e ad attenderti il nulla. Lei è davanti a te. Strisci e vuoi raggiungerla e capirla e apprezzarla e baciarla ma lei si allontana e svanisce e poi è sul letto e tu gattoni. Fuggi dal disperato tentativo di strapparti le viscere e regalargliele. Ha già tutto. Oh, Carolina ha già tutto. A parte un corpo. E una vita. E un respiro. E un cuore. Carolina ha te.
«Io ti amo.»
«Ogni complimento mi ruba un pezzo di anima» è in piedi sulla tua scrivania, comincia a ballare. Ma non tocca nulla. Non sposta nulla. Balla benissimo.
«Tutto passa
Tutto muore
Tutto viene a noia
Trovami
Liberami
da questo
dubbio angosciante
lamento inutile
orrore a riposo»
Vorresti supplicarla di spiegarti. Eppure gattoni di nuovo. Il tuo petto non è raggiungibile. Il tuo polso non regolabile. Straziato, marci sui tuoi sensi attoniti e batti il braccio contro la scrivania e lei è dall'altra parte. Sornione il sorriso che ti regala con quelle labbra sottili ed è come se ti supplicasse. Di prenderla. Di starle accanto. E strisci sul sudicio pavimento. Ma lei non c'è di nuovo. È sulla finestra.
No, non buttarti. Le dici. Non lo fai. Forse, lo aspetta. E non lo fa. E la ami. E batti allo spigolo dell'anta bianca e lei ridacchia. E urti di nuovo un mobilio e poi uno ancora e un altro e ancora e ancora e ancora. Sì, la ami. Sì, lei ride.
«Tu mi manchi. Hai riempito la mia esistenza.»
«Posso riempire uno spazio
riempire una giornata
ma niente può riempire il vuoto del mio cuore
Il bisogno vitale per cui morirei»
«Perché non mi parli più di Gatsby? Sembra che non respiri; cosa c'è? Io ti amo.»
«Una dose di sofferenza
che mi fora i polmoni
Una dose di morte
che mi spreme il cuore»
«Ma io ti amo - batti di nuovi contro il tuo letto, ci saranno i lividi, - Perché non posso abbracciarti?» stai diluviando. Sei una tragica tempesta da abbattere. Sei un albero che cade, un centro commerciale. Pubblico e rotto. Rotto e amareggiato e disidratato e disperato e solo. Così solo.
«il mio corpo scompensa
il mio corpo vola in pezzi
più nulla cui aggrapparsi
più di quanto non abbia già fatto» ora è vicina alla porta del tuo bagno, vorresti fotterla contro quella porta. Ma lei non c'è.
I tuoi gomiti aiutano il tuo intento di raggiungere i suoi piedi scalzi e incorporei - inesistenti - e «Dov'è finita questa felpa?» osi chiederle.
Lei scosta una ciocca di capelli setosi dagli occhi e inclina il capo gentile, i suoi tratti sono comprensivi, «Ce l'avevo quando mi sono buttata a fiume. Io ti amavo, Connor.»
Stai soffocando. E non capisci. Poi comprendi. E sono le tue mani quelle intorno al tuo collo.
«Io ti amo ancora.» ma ancora le mani sono lì. Stai soffocandoti. Non ti fermi. Poi lo fai. Lei ti osserva come se non fosse questo il modo di procedere.
«Non vuoi andare avanti?» ti chiede. Sta passeggiando curiosa e calma nel tuo piccolo angolo di marcio riposo e tu giaci con le gambe al petto e la schiena contro la porta di un bagno che non pulisci da troppo.
«Tu mi stai sempre accanto. Non te ne vai, cazzo. Mi perseguiti.»
«Forse allora dovresti venire con me. Mi manchi, Connor.»
«Ma ti ho ammazzata.»
«Il cuore ha ragioni che la ragione non comprende.» si volta di scatto, che ti stava si spalle. I suoi occhioni sono vispi. Oh quegli occhioni. Oh sono come li ricordi. Oh mentre li socchiudeva all'acme del piacere. Oh quando li strizzava per il nervosismo. Oh gli occhi. Oh oh oh oh. Hai tutte le cicatrici aperte. Quanti altri tormenti dovrai sopportare prima di ottenere il suo miserabile perdono?
«Come ti tolgo dalla mia vita, Carol? Io ti amo, ma tu non ci sei più.»
«tu avrai sempre un pezzo di me perché hai avuto la mia vita tra le mani»
(FERMATEVI SE NON SIETE DISPOSTI A LEGGERE OLTRE. QUI SOTTO CI SARÀ UNA SCENA DESCRIVENTE UN ATTO DI SUICIDIO.)
Poi ti raggiunge e tu la guardi e lei è come se ti invitasse ad amarla con gli scatti saporiti del suo carattere e cammina e tu la segui e tu strisci e lei apre la porta del bagno alla quale ti eri appoggiato e lei ti dice di entrare senza guardarti e «Andiamo, Connor. Chiudi le porte e metti quella canzone che tanto ti fa pensare a me.» e tu lo fai. E accenti lo stereo e la canzone è già il non dolce suono dei My chemical romance si irradia nelle tracce sbiadite della tua personalità e faresti di tutto perché la luce che ore aleggia negli occhioni di Carolina non svanisca di nuovo e lasci scorrere l'acqua all'interno della vasca.
E ti spogli. E il tuo membro è pendente nel mezzo delle tue gambe. E non si rizza. E lei non è qui. E vorresti non aver mai permesso a quella luce di andare via dai suoi lineamenti. E cammini nel cesso e i tuoi piedi lamentano fastidio al contatto con le piastrelle fredde e chiudi la porta e asciughi - con il pene di fuori - le lacrime rimanenti e la guardi. E lei ti guarda. Capelli di seta, occhioni astuti e pelle liscia ed è lei, senza dubbio. Senza dubbio.
E la luce nei suoi occhi. Vuoi vederla di nuovo vuoi capire cosa ti sei perso vuoi amarla vuoi abbracciarla e raggiungi con le dita infreddolite e soffuse il cassetto dove tieni le lamette. E ne prendi una.
«Ti amo.»
«Lo so.»
L'acqua scorre e copre ogni rumore ogni segno ogni agonia e il tuo corpo non lo senti più e il tuo respiro è tenue e il tuo petto batte gentile e non senti le viscere aggrovigliarsi.
Starai bene. Starai bene. Intanto lasci la vasca riempirsi di ciò che pulirà la tua anima sporca e ti ci siedi e il culo tocca la superficie riscaldata. E lei siede dal lato opposto al tuo, i piedi non si bagnano seppure giocano con il liquido e lei ti osserva ti vuole e brama il vostro riunirvi.
Le hai dato tutto. Non puoi lasciare mance. Ma puoi regalarle ciò che le hai tolto. E puoi farlo.
«Andiamo, Connor, non vuoi stare con me?» lo dice non appena realizza che potresti fermarti e tu annuisci e tu la ami e tu vuoi che il tuo corpo spezzato divenga un tutt'uno con la tua anima grezza e spoglia. E la ami. E tremi.
Le dita vacillano e la mano sinistra impiega un attimo a raggiungere la parte destra della vasca e il suo bordo e il tuo braccio disteso e faresti di tutto perché la luce all'interno dei suoi occhi torni a risplendere.
E tocca la pelle candida. E ferisce. Il tracciare è doloroso, cazzo. È straordinario, cazzo. Stai liberandoti, cosa cazzo fai, muoviti, no non farlo, forza tornerà a brillare, tu non brillerai più, tu la ami, tu puoi stare bene, andiamo, chiediglielo: tu puoi stare bene.
E brucia e irrita ed è rosso e brucia ed è di metallo ed è freddo e odi e ami ed è meraviglioso e muori e vivi e bruci e consuma e infettta e brucia e ti consumi e ti odi.
Scava la lama ed è impervia, pare soggiogare le linee scure che contraddistinguono i tuoi tratti chiarissimi. E scanala. E mangia. E divora. E ti dissipi. E scende e ansimi. E lo senti? Stai lasciando il tuo corpo. Com'è? E cedi. E respiri. E sale e scende e il petto sale e scende e scende e sale e il respiro non c'è e c'è di nuovo e non c'è e sale e scende e brucia e lama scende e scava e penetra e taglia.
E il sangue sgorga sprizzante dal tuo braccio, si mescola con l'acqua prima pulita e scavi e premi e la lama è poco tenera e fa male e godi e la vuoi e la luce? Non c'è luce. Un sorriso che non riconosci. Luce? No, niente luce e «Perché sto facendo questo? Perché non posso stare bene senza te?» e balbetti e tremi e ansimi, il dolore nuoce e l'esistenza sta defluendo dal tuo organismo. Datti un colpo per sopravvivere. Non hai mance. Paghi il pezzo più alto sul mercato.
«tu avrai sempre un pezzo di me perché hai avuto la mia vita tra le mani» sta attenta a dedicarti la più temeraria tra le espressioni e la lama fredda è penetrante, ben incastrata nelle fenditure della tua carnagione lattea e scanala scanala e scanala ed è assieme - ora - al tuo corpo macchiato. Taglia e scende e quelle mani brutali ti dice e l'odioso sorriso maligno con cui si aizza ai bordi della tua umile condizione di pietà è devastante per il gesto che stai compiendo. E non capisci. E banale. E incompiuto. Ecco la tua Helena, si rialza di fronte al tuo stordimento e oblio e banalità. Gioca. Ride. Non è Carolina. Tu non capisci. Il metallo scende e scava e induce infezione e datti un colpo, Connor, è finita. Lo noti, lo percepisci, lo assorbi, ti stai dissipando.
Gli occhioni - nei quali cercavi con genuinità la luce - adesso virano in un nero stordente e massacante. È andata.
«Eppure ti ho amato,» chiudi gli occhi e accoccolati ed è finita e non hai più alcuna possibilità e cedi e cedi e cedi e chi sei? E cadi e chiudi e dormi e riposa. Non lo senti, Connor? Non c'è più nulla e chiudi e niente e niente e brucia e il metallo taglia e graffia e infetta e brucia e brucia ed ansimi e il respiro manca e lei ti osserva soddisfatta. E lei non è Carolina. E «È finita.»
Sta finendo e non ce lo racconterai e cosa hai fatto e hai fatto bene e sei banale e cosa succede?
«Mamma!» il tuo respiro si restringe e lo sforzo è enorme per il tuo corpo agonizzante, disteso in una vaschia colorata di acqua e sangue. E «Mamma!» il suono prodotto dalle tue labbra supera il rumore della musica e «Mamma!» lo senti o forse no o forse non capisci, ma è finjta e gli occhi arrabbiati del mostro che hai dinanzi testimoniano.
«Cosa stai facendo? È finita! Finita!» e no. Potrà battere i piedi e i pugni e urlare e bruciare e gridare e perderti, ma i corpi veloci e preoccupati di tua madre e Lily accorrono e in poco sei nelle loro braccia, sussurrando soltanto «Non ti amo come ieri.»
«Oh, ma è straordinario, cazzo. Perché domani farai anche peggio.» e come un albero che cade sparisce dalla tua vista annebbiata e socchiusa. Stridendo al tessuto migliorato che è la tua esitenza, ti promette tormento eterno. E che ne sanno gli altri, tu ora dormi, domani vedrai.
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