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Connor - Now

N/A: scusate il ritardo, sono troppo incasinata oddio. Tengo tantissimo a questo capitolo perché vediamo per l'ultima volta la fioraia SAD ME. Fatto sta, fatemi sapere quello che pensate. DAI.

Vorrei anche dirvi che ho aggiornato su Solo Voglia Di Scrivere una os per me intima e importante che vede come protagonista (in una maniera differente) uno dei personaggi che avete conosciuto qui. E la terza (delle tre). Mi piacerebbe un'opinione. 

ciao ciao (ricordatevi di sorridere).🌹

Da quel momento in cui hai lasciato quel grassone a spicciare i suoi fatti con la calma di un uomo in astinenza, hai percepito gli errori scorrere nelle tue vene. E potresti ascoltarla, adesso, varcando le soglie del cortile del vuoto cimitero, la voce di Carolina che «Non puoi controllarti sempre. Va bene se perdi il controllo, la mia luce sarà sempre accesa» -- no, ora è spenta. Ora non c'è più una lampadina alle pendici della collina che è il tuo egoismo che brilla in attesa che tu riacquisti la tua spigolosa ragione. Non abbatterti, Connor, non c'è bisogno che tu indossi un coraggio che non è tuo. Sei qui? E puoi sentire il freddo verace, il quale solca la tua pelle nuda e così delicata da poter essere scalfita con un soffio -- un soffio di quelli spensierati, gentili. 

Un magone è imperterrito nella tua gola e vorresti strillare: le parole sono corteccia contro le pareti sottili della tua anima. E vorresti urlare, strappare i tuoi abiti e avvertire per davvero il gelo maligno che vai denunciando. Ti accovacceresti e scopriresti il valore più nascosto e inevitabile della vita: il provare. Provare a parlare, a camminare; provare una canna o a togliersi la vita; provare e basta. Esattamente il significato più puro del termine. Gettarsi e acconsentire affinché i sentimenti camminino sulle proprie membra e corrano e saltino e mangino i muscoli: è provare. E tu non nutri alcuna emozione positiva o negativa, quale possa essere. Vuoi urlare, urlare, urlare. E nulla.

La voglia di sbiadire i tuoi sensi, di mescolarli e vederne il risultato ti sta divorando. Eppure, eppure, eppure viene a mancare la genuinità del generare agonia o felicità, gioia o tristezza e vedresti, se i tuoi arti fossero ancora in grado di produrre idee, quanto appagante possa essere l'avvicinarsi con spontaneità, disorganizzazione, impetuosità e con una neutralità umana ad un mucchio di sensazioni. Cortese sentimento di vita, di vivacità --- lo senti? È il tuo smarrimento, Connor. È l'avanzare della precarietà sotto la quale la tua esistenza soccombe secondo dopo secondo, viene divorata attimo che segue attimo e no, fermati. Non c'è alcuna luce accesa alle pendici della tua insoddisfazione. Ci sei tu, piccolo e sciocco viandante, vagabondo; perduta la tua necessità di agire da uomo, cosa ti resta? A parte il cumulo sconsiderato di insolenze commesse e due madri lesbiche -- cosa hai? Un padre ubriaco? L'avresti meritata, Connor, una quotidianità fatta di sorrisi e ambienti dolci, soavi, candidi. Ti meriteresti una madre presente ed un padre che ami il proprio figlio più di una bottiglia di brandy, ma guardati. Hai una vaga idea della discordia cui hai attinto?

La saliva non v'è nel tuo ingoiare urla e divieni pallido, un fantasma. Guardati, Connor, senza accorgertene sei mutato. Lo vedi? Non c'è niente. Accendi la luce, imbecille, che è spenta. Ed ecco, ancora un cazzo. È a questo che hai ridotto te stesso: all'ombra di un miserabile.

Procedi, procedi, che hai appena diciannove anni. Se potessi datare la tua morte, da qui all'eternità, e chiederti perché ora e non fra cent'anni o mille o in un tempo precedente, noteresti un solo piccolo dettaglio: sei andato via, sparito, totalmente epurato dalla umanità il giorno in cui una vipera dai capelli crespi ha affogato il suo corpo in un fiume sporco. C'entra, intendiamoci, che sia sporco. Voleva che tu la percepissi, la marea che riaffiora nel tuo stomaco al sentir parlare di sudiciume. I sub l'hanno ritrovata dopo due giorni --- due giorni nei quali la spazzatura le ha accarezzato le guance scavate o le mani sottili. Due giorni durante i quali i suoi capelli sono stati consumati dalla sporcizia e i suoi occhi aperti dall'aspetto maleodorante della sua eternità. E quando, capiamoci, quando l'hanno trovata - non è mica stato perché si sono immersi in tutta quella merda, ovvio che no, - era stesa, sporca, con un ratto --- uno di quelli enormi, te l'hanno proprio detto, che le annusava il collo un tempo profumante di vaniglia. Macabro? E perché? Non c'eri tu, lì, ad essere attraversata dal quesito fondamentale: dov'è dio? E dov'è l'uomo? Tu, dov'eri? Oltre che a crogiolarti nel beffardo esito del tuo camminare, dov'è che ti nascondevi? Dov'è che evitavi di pensare alla bara bianca che l'avrebbe accolta? Dov'è che stavi, esistevi, respiravi, mentre lei si era strappata a morsi la possibilità di fare altrettanto? Ma è più semplice: dov'era dio? Ci piace --- ti piace, lo ami, lo adori, credere che altri abbiano deciso. Guardati, Connor, perfino la tua ombra sta scappando da te.

Fai un passo, ne fai un altro. Non sai dove andare, hai perso di vista quella sbandata boena della tua insegnante di lettere. Vuoi rimettere. E poi cammini, percorri, calci dei sassi. Ancora nulla, ancora è come se tu non ce l'avessi, una dimensione o una forma. Sei vuoto, neppure pieno di fenditure. Proprio vuoto. Goditi il tuo divertimento giornaliero, ma la noia, la disperazione verranno e raderanno al suo le tue convinzioni. Cercati, ma è un labirinto di cristallo.

Ad una certa, ti rendi conto di essere all'entrata, comprendi. Non puoi presentarti a mani vuote lì: l'hai già fatto, non preoccuparti, ma hai constatato che sia disgustoso.

 Hai sempre odiato i cimiteri. La religione, d'altronde, va bene negli ospedali. Dio gode di una certa popolarità in posti del genere.*

Noti una donna sulla quarantina, grassa come poche, dalle ascelle sudate e i capelli unti. Propone ai tuoi tratti un ribrezzo nuovo, poi ti accerti di nutrirlo nei tuoi riguardi e non in quelli di una giovane sudicia. Deglutisci --- niente saliva. Ti rialzerai, Connor, non temere.

Lei a stento si accorge della tua presenza, sta limando le sue unghie lunghe e di colori differenti, poi gratta la sua pancia e «Ciao.»

«Buongiorno.» racimoli lo scarso e scevro orgoglio che perviene superstite nel tuo organismo e ti guardi intorno. È isolato. È sempre isolato, lo brami. D'altronde, è un'esperienza personale. [N/A: cogliete il riferimento, vi supplico. E stavolta non è il vecchio Charles, quello di cui parliamo.]

«Che posso fare per te?» darti una ripulita, diresti. Prendi un respiro, non ricordavi che i tuoi polmoni lavorassero.

«Ho bisogno di qualche fiore.»

«Otto.»

«Mi scusi?» ti sporgi in avanti e lei appoggia la lima accanto ad un gatto bianco, rachidico e senza coda che siede sul bancone. Strizzi gli occhioni blu, vorresti provare.

«Ho detto che te ne servono otto.- poi inizia a contare dei tulipani bianchi, spalanchi la bocca, -Che bel numero, otto. Non è né nove, né sette. Proprio un bel numero.»

«Anche il dieci non è né nove né sette.- ti risenti, -E non le ho chiesto dei tulipani.»

«E non le ho chiesto dei tulipani.- scimmiotta, poi li raccoglie, quei magnifici e delicati, nonché stranamente puliti rispetto al resto, fiori e li unisce con un nastro rosa, -E io non ho chiesto di essere così grassa. Ma a quanto pare non si puó avere tutto dalla vita.» sputa la gomma, storcendo il naso. «Ci credi che fanno sempre più schifo?» ti dice.

«Non le fa paura lavorare qui?» lei ti osserva, non se l'aspettava. Poi sospira e avvolge quei fiori in una carta rosa, «No. All'inizio, sì. Poi una volta ho conosciuto una persona che cercava un posto per farsi seppellire e ho capito che non posso sapere cosa ci sta dopo --- la morte è un'esperienza personale, Connor.» aggrovigli le dita intorno al tessuto verdastro del tuo giubbotto e pam, un colpo al cuore. Pampam il tuo petto non regge. Pampampam è tutto tuo. Questo star male, è tutto tuo. Goditelo.

«Tante persone vengono a scegliere il posto in cui essere sepolte.» salti il riferimento al nome.

«E tante persone le vengono a trovare una volta che l'hanno scelto.» scuote la testa.

«Non capisco.»

«Se tu ci pensi, trovi quello che non ti piace o ti fa paura ovunque. A me non piacciono le galline, ad esempio. Non che è un male, che non mi piacciono le galline, ma dico: ci sto proprio di merda. Se sento una gallina, strillo.- si gratta la scollatura e aggrotti le sopracciglia, -alla fine la morte è come una macchina per strizzarti il fegato o una gallina. Puoi averne paura, strillare, fare delle uova o mangiare un uovo all'occhio di bue: la morte arriva e ti strizza il fegato o starnacchia.»

«Non capisco, di nuovo.»

«La morte è come le galline, ti ho detto.»

  Il rapporto sessuale è prendere la morte a calci nel culo mentre si sta cantando*, ti dico io. Tu stringi i pugni. 

«Ancora non prendo il concetto.»

«Puoi pensare di avere delle scarpe di cuoio, che non ti morderanno.- ti porge i fiori, tu li tieni con un'accuratezza innata, carezzando ogni dettaglio con lo sguardo meticoloso, - Ma arriva, la morte o la gallina, e ti becca.»

«E quindi?»

«Quindi la vita è una scaletta per raggiungere il pollaio. Tutta pulita, ma stai sempre in un pollaio.»

«Ma ---»

«È il trucco delle galline: farti credere di essere stupide e non permetterti di capire che stanno per attaccarti. Il gioco per fare ogni cosa, come non avere paura o non farsi attaccare dalle galline, è il ricordare che non siamo solo noi.»

«Lei ha una fobia.»

«Sì e tu sei un tacchino.»

«Eh?»

«Il tacchino fa festa pensando soltanto ad ingrassarsi e poi viene il ringraziamento. E lo ammazzano.»

«Lei ha un problema con i volatili che non volano.»

«No, è la tattica di cui ti parlavo. Ciao, ragazzo.» ti molla, praticamente ti ignora e torna a dedicare le sue cure sbracate alle unghie rovinate. «È inutile che fai, Gaspare, l'ho mangiato io il tonno.»

Ora lo sai, che i furbi ci fottono sempre al momento giusto, nel posto giusto, col sorriso giusto. Camminano con sprezzo anche sopra la loro merda.*

È quasi alleviante, il dialogo che hai potuto mettere su e non ci pensi, non pensi a nulla mentre raggiungi la tomba. Niente, nulla, alcuna cosa. Cammini e muovi le mani come per abbracciare i fiori bianchi --- «Quando mi sposerò, vorrei che la festa fosse piena di tulipani. Gialli, rosa, rossi, e il mio buchè li deve avere bianchi. Tanti tulipani bianchi.» congelato.

E lei ti vede. Lei è ancora piena di terra e le sue guance perfino bagnate. Ti nota, fermo, impietrito. Stai affogando. I fiori cadono dalle tue mani, puoi vedere altri sei mazzi di fiori, uguali ai tuoi. Due, tre, quattro, cinque, sei, sette e ora il tuo: otto. I tulipani cadono e il mondo riprende a far rumore sulla tua consapevolezza. Vi marcia, la innalza e vi è devoto. E lei ti osserva.

Non hai la lungimiranza di parlare. Sei vuoto. Adesso, e non nella eternità prima, nemmeno in quella dopo, ora non hai niente e non pensi. Ora sei un ragazzo con dei tulipani accanto ai piedi ed una giacca verdastra. Vomiteresti --- no, neanche questo privilegio. Non ti rendi conto di quel che l'altra persona sta facendo, chinata, accartocciata, e poi ti si avvicina. Raccoglie i tuoi fiori e li poggia dove sono gli altri.

Sperando che abbia trovato la sua pace, c'è scritto. E la tua?

La persona ritorna, apre i tuoi palmi con la mano sinistra e con la destra poggia sette pezzi di carte - qualcuno più rovinato, altri di meno, uno appena scritto, - e «Non sei solo in questo.»

Non concepisci, non avverti, ma per quando ti volti e sei pronto per urlarle qualcosa, Mrs Atwood è già andata via.

Per Carolina. Per la Morte.
A Carolina. Alla Morte.
Di Carolina. Della Morte.
Carolina. Morte.
Con Carolina. Con la Morte.
Da Carolina. Dalla Morte.         Cara Carolina. Cara Morte.

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