Connor - Now
N/A: mi spiace, ma sono stati giorni stressanti e non ho avuto la forza di correggere un capitolo prima di oggi. Solito discorso riguardo le frasi di Bukowski (ci saranno per tutti i capitoli di Connor al presente e saranno delimitate da asterischi, non ho nulla di più fine i'msorry)
Non so che pensare di questo capitolo, a tratti mi fa schifo, a tratti ancora mi fa cagare. Volevo farlo coesistere con il prossimo ma è stato impossibile, tutti e due insieme sforavano le quattromila parole di sudiciume ed ho evitato.
Guess what, sto di merda, ditemi qualcosa di happy o magari datemi qualche parere. Metteteci dei cuori, sono momentaneamente triste grazie.
Oggi due persone, però, mi hanno detto che sono una bella persona (cacofonia), quindi non sto malissimo. Mi dispiace se divago, ok.
xx e ricordatevi di sorridere che nulla è la fine del mondo.🌹
Talvolta viene nutrito il falso pregiudizio che oggi è di moda – che se fai incazzare un uomo, questi ti dirà sinceramente chi è e tutto quello che deve dirti.*
E' indubbiamente ciò che quei ragazzi dai pantaloni a vita bassa e un casco nella mano sinistra avevano intenzione di ottenere, scalfendo con accuratezza la spessa muraglia che hai innalzato a pochi centimetri dal senso della tua incerta e misera anima: sciocchi uomini che non si interrogano – non si interrogano e basta. Eppure, guardati, piccolo Hank, stai camminando verso una vicepresidenza curvato nella intera postura, le mani dolgono per la frenesia e l'affusolato, tragico corpo trema comparato alla grandezza aberrante dei tuoi gesti. La schiena ti si piega ad un dolorino lancinante, altrettanto flebile. Così pacato – lo vedrai. Cosa la afflizione sia in grado di procurare. E' impossibile. Impossibile. Impossibile. Ogni eccesso si riduce, ogni riduzione si amplia terminando nell'estremo e ciascuno dei tuoi tratti scadenti, infimi, sezionati diviene il palcoscenico ideale per una bocca secca che ha da poco dimenticato le battute. Sarà entusiasmante dividere lo spettacolo con una tale stella, quasi ti mangiucchio le viscere dall'entusiasmo.
I tuoi occhioni blu bruciano dal rammarico, perfino si noterebbe un velo gelato di compassione adirata in coloro che sollevano il capo ed incontrano la tua figura dai passi altalenanti. Possono notare la tortura delle tue dita nei confronti dei polsi oramai rossi, grattati e pian pianino sgretolati, massacrati, mentre un lieve bruciore accompagna, perpetuandosi, i tuoi gesti animaleschi. Mani dentro mani, pelle contro pelle, scavi nel tuo candore fino a che il sangue non riveli la tua umanità. Può far più male di così, può struggere, può arroventare le sensazioni. E giochi con le mani. Giochi con le mani. Le tue unghie penetrano il tessuto delicato della tua pelle morbida. E le mani giocano. Le unghie lasciano incisivi segni, più profondi. Lascivo il tocco sconsiderato con il quale, masochista, procuri a te stesso un piacere malsano, una gioia incompiuta nel comprendere che soffi. E le mani giocano. Le mani giocano. I polsi, i palmi risultano mortificati dall'estenuato movimento, catatonico, a tratti fresco. E le mani giocano. Velleità – una dose di morfina per le tue velleità. Questo percuoterti – le unghie affogano nella pelle, paiono percepire il perforo delle vene – è la bramosia più intensa. Godi. E le mani giocano. Le mani giocano. Le mani sembrano spensierate e il tuo egoismo passo dopo passo imbavaglia la tua sanità e per cura ti regala delle catene. Avvolge il tuo corpicino fragile, le tira, non si preoccupa di non ferire i tuoi lembi di carne. S si stendono su di te, le catene. Ti soffocano, ma le mani giocano.
«Aspetta qui il preside,» la voce autoritaria dell'insegnante di biologia ti rincuora e le tue dita sottili e callose ritornano alle cinghie dello zaino grigio, mentre del sangue fuoriesce dal palmo destro. Lo ignori. Ti accasci semplicemente nella sala da attesa, assopito sulla sedia e attendi. Attendi sia tardi. Attendi che il male che ti corrode si estingua. Attendi e basta. Magari attendi che si faccia l'ora di pranzo. E così vorresti fare lo scrittore?* Tanto malinconico, a tal punto convinto di poter vendere le proprie sofferenze ad una banda di sconsiderati da dimenticare un tratto eccezionale, di eccezionale importanza (pure): gli scrittori fanno schifo. Puoi emularne uno, crearti qualche musa, innamorarti o avere dei sentimenti, ma rischieresti di uccidere di nuovo. Gli scrittori ti immortalano, è piacevole diventare i loro mezzi di ispirazione e poi boom, un giorno comprano della birra o qualche gomma da masticare mai assaggiata prima e capirai, o musa, di essere stata di passaggio. Ma ti avrà amata, uno scrittore. Ti avrà dedicati i suoi versi, i suoi personali orgasmi; eppure per lui sarai andata. O magari ti amerà in eterno e tu, con la tua macchina fotografica, pensandoti artista, ti assicurerai l'omicidio di un poeta. Scegli, piccolo Hank, vuoi essere uno scrittore?
Premi, premi nelle tue mani sudate. Spingi e ficca le tue urla in una bara che nessuno scoperchierà, troverai l'eterno, il fascinoso stato di beatitudine: sparirai. Che gradevole ed eccelsa memoria. Sparire, intendo. Non ti sarà concesso. Pertanto incidi tutti i segni che preferisci sulla tua pelle di porcellana, poiché lì resteranno, Hank, te lo assicuro.
La vicepresidenza non è il posto ideale per ammutolirmi, ma insisti per alzare lo sguardo e inchiodarmi alla parete verdastra con lo sguardo accusatore, traviato. I tuoi lineamenti sono inviperiti e scassati, totalmente sbracati. Pari aver svelato le tue incertezze, pari aver capito l'interminabile senso della vita. Spiegamelo. Deglutisci.
Le mura si rinchiudono su di te, hai la netta sensazione ti stiano cadendo addosso e che tu sia immobilizzato, che le tue catene siano garante di quel che avverrà. E viene a sfracellarsi ogni cosa. Mattone dopo mattone, colate di cemento e pittura, quadri, libri, tutto cede e vuole bucarti le membra. Ma non ci sei. Non ci sei. Tutto cade. Tutto si muove. Tutto si rompe e tu sei intatto. Non batti ciglio e sei intatto, il tuo cuore è intatto. Lucido, nero ed intatto. La schiena duole, però, la schiena ti conduce a chinarti in avanti, stringere i polpastrelli nella carnagione curata del tuo viso e appoggiarti coi gomiti alle ginocchia. E tutto cade. E tutto si frantuma. Tutto è tragicamente meraviglioso nella sua unica distruzione e tu assisti inerme, senza che alcuna azione ti sia dovuta. Sottomesso. La schiena vibra, non ci sarà posizione che placherà il fastidio via via più grave, più intenso. Vomiteresti.
Poche donne ti passano accanto, alle prese con fax o file di vario tipo. Nessuna ti nota. Nessuna nota il baccano che c'è nella tua testa, la loro cecità impedisce di cogliere il fiore geniale del tuo disturbo e la schiena viene a scandagliarsi, pezzo dopo pezzo e raggiunge le macerie sul pavimento.
«Che fai qui, Connor?» Adele, capelli rossicci e sguardo materno, ti si avvicina e gentilmente accarezza la tua spalla dolorante. Quasi gemi. I suoi occhi ti rincuorano, ti donano una speranza. E la schiena vibra. Le unghie, ora, scartano le schifezze del tuo volto e lasceranno dei segni.
«Ho combinato un guaio.» lo biascichi. Hai la voce roca. La gola secca. Hai il petto in fiamme. Il muro crolla, crollano i resti. Crolli tu.
«Vedi se non ti calmi, ragazzo. Andiamo, mica vuoi perdere un altro anno?» ci scherza su. Non ha idea.
Sorridi, eviti ciò che potrebbe seguire. La donna aggiusta il cardigan e si avvicina alla scrivania, canticchiando. Non se ne rende conto. Lei è forte, tu no. O lei non ha un peccato da sbucciare, ingerire e digerire. Deglutisci.
«Lei non si rende conto, Jennifer, - nemmeno tu, in effetti, ma scuoti il capo neppure se quelle parole fossero un richiamo e sei ben attento ad ascoltare la discussione che ha alzato i toni dall'altro lato della porta grigia. Pare che i mobili, grigiastri a loro volta, vibrino al campanellino di litigio e persino le scrivanie si svegliano, l'architettura è pronta per il suo dramma. Per la sua arte. - Lei non può testimoniare contro di noi. Lei semplicemente non può.» la voce del preside grasso è ottusa alle tue orecchie, inclini la testa per apprendere meglio.
«Invece credo che posso. Davanti al giudice dirò che scuola di merda sia questa, che preside del cazzo sia lei e che insegnante disgraziata sia stata io.- te la immagini, la Atwood, a gesticolare incazzata, ti si piazza del piombo alla base dell'intestino - Una ragazza è morta. Una ci era vicina. E lei è in grado di appendere soltanto dei cazzo di poster ai muri.»
«Io so quale è il mio dovere, ---
«Mi fa piacere, che lo sappia, intendo, io ---» strillano, entrambi. Adele scatta e ti osserva, sa che stai ascoltando e «Ragazzo, penso ti faccia male. Era la tua fidanzata, quella lì.» la ignori.
«Io so quale è il mio dovere, Jennifer, ed è ora che lei impari il suo. Non se può andare in giro a denunciare le persone soltanto perché non ha eseguito un buon lavoro. Non ci sono sempre studenti giusti, se ne faccia una ragione.» vomiteresti.
«Studenti giusti? Aveva diciotto anni, diciotto. Ovvio che non era giusta, chi cazzo lo è a quella età.»
«Lei non può, ed è chiuso il discorso. Se ce ne andiamo tutti quanti in giro a filosofeggiare, il mondo non si evolverà e basta. Andarsene in giro e essere filosofi: non si può e stop. Gesù Cristo, lasci quella ragazza riposare in pace, è morta.» senti un rumore e delle bestemmie provenire dalla presidenza. Adele si muove freneticamente e lascia cadere al petto gli occhiali. Tu ti alzeresti, ma la schiena freme e nuoce alla tua volontà. «Ha rotto i miei fottuti trenini, stronza.»
«Cresca, grassone. Io denuncio questa scuola, denuncio pure le sue segretarie del cazzo se occorre. Denuncio anche le fioraia . . . » immagini che stia continuando. Il tuo petto si blocca, il respiro è decadente e sai tutto. Improvvisamente sai tutto. Tutto ciò che hai, nel mese precedente, ascoltato e intercettato. Tutto. Tutto assume un senso e la schiena vibra dal dolore quando ti sollevi di scatto e pare sia destino, pare sia combinazione: la porta si spalanca, ma è tutto senza suoni. È tutto muto.
La Atwood gesticola frenetica, ha perfino lanciato i suoi occhiali contro il muro e incastra le mani sottili nei capelli, disperata.
Il preside, sudato e affaticato, ha arrotolato le maniche della camicia rosa al di sopra del gomiti e non gestisce con i suoi quattro menti la situazione.
«Lei mi deve dei cazzo di trenini, Jennifer.»
«Io le devo solamente una denuncia, Jack. E non a lei solo. A tutti. Sapesse a quanta gente.- raccoglie gli occhiali, Jennifer Atwood, e aggiusta il suo abito prima di sgambettare odiosa al di fuori della stanza.
«Io le ordino di tornare qui o la licenzio!» strilla, avvicinandosi a carponi alla porta spalancata.
«Le mie dimissioni sono lì. Vada a fare in culo.» si sgola dalle scale e percepisci un lieve sfinimento. Si ingrandisce e pare inghiottirti e, difatti, appariva così genuino, così dovuto. La schiena ti massacra.
«Lei scopa anche male!» glielo urla, il grassone, afferrando con le mani cicciottelle gli estremi della porta e affacciandosi. Una volta all'intrno, si asciuga con il fazzoletto la fronte umidiccia.
Questi uomini sono tutti ostacolati da ciò che pensano di non potere ottenere* e ti disgustano ampiamente, fino alla nausea penetrante.
La sua attenzione, quando il respiro si è calmato e il battito pare divenire regolare, si sposta su di te, piccolo Hank ineffabile, ma tu già sei via. Tu già stai correndo. Tu non ci sei più. Ed hai la vaga sensazione che la vita possa essere una gran cosa.*
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