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sabato 28 dicembre 2002

Notte fonda

La vita di tutti i giorni ci nasconde degli indizi sul nostro futuro. E io, questi indizi, li vedo nella mia merda.

Quella notte mi scivolò uno stronzo liscio e morbido: stava arrivando una bella notizia.

Quando uscii dal bagno, vidi che in cucina Michele stava bevendo una lattina di birra. A 56 anni, dopo una notte passata a guidare tassì, la sua unica consolazione era la schiuma che friveva sui baffi.

Michele era un intellettuale in incognito. Sapevo che era uno forte, da ragazzo. Ma lo era pure da adulto, solo che il Mondo non glielo riconosceva più.

Anni fa viveva sopra al Vomero, teneva delle fabbriche di spugne sparse qua e là, viaggiava dappertutto e giocava pure a tennis. Poi non so che successe tra lui e la moglie, ma di sicuro non fu niente di buono perché lo spidocchiò. Dopo il divorzio gli rimaneva solo una Ford Ka tutta scassata, e cominciò a mantenersi facendo il tassista abusivo per Napoli e dintorni.

Michele era il coinquilino perfetto per me, perché quando lo guardavo mi ricordavo che pure il più meglio degli uomini poteva accappottarsi. Quando pianificavo il mio futuro, quando mi azzardavo a sognare una vita migliore, pensavo a lui e tornavo con i piedi per terra: io dovevo rimanere un lavapiatti arreso al secondo anno di liceo scientifico.

La scuola non era bella. Io studiavo assai, forse più di tutti, ma andavo sempre una chiavica. Non capivo perché a casa era tutto facile, mentre là, davanti alla cattedra, le cose cambiavano. Ma cambiavano solo per me, perché gli altri studiavano poco e andavano bene. Comunque, se il primo anno l'avevo passato con un miracolo, il secondo fu una botta in fronte perché venni bocciato due volte.

La prima volta pensai che tenevo un po' di seccia, ma alla seconda capii che il problema non erano i professori, e nemmanco la seccia. Ero io. I libri non erano cosa mia, lo studio non era cosa mia, le cose non erano cosa mia.

Ci misi tempo per farlo capire a mamma, perché non voleva che diventavo ignorante come lei e tutta la nostra famiglia. Ma a che serviva buttare il sangue, se poi non concludevo niente? Lasciai la scuola e cominciai a lavorare. Pare strano, ma fu solo in pizzeria che ebbi la soddisfazione di venire promosso, perché iniziai lavando i cessi e dopo passai a lavare i piatti.

Intanto, quel diploma me lo sognavo tutte le notti e non riuscivo mai a prenderlo. Mica come gli altri della mia classe, che intanto ne avevano fatte di cose. Chi se ne andava all'estero, chi lavorava in alta Italia. E io ero rimasto in mezzo al niente.

Ma pure Michele era rimasto in mezzo al niente, e Michele, a quelli che avevano studiato, se li mangiava. Ma allora perché le persone finivano dove erano finite? Qualcuno ce le aveva messe, e io non capivo come. L'unica cosa che capivo, era che vivevo con Michele perché ci somigliavo.

Tutti e due tenevamo poco e niente, e ce lo facevamo bastare. Fuori dal palazzo non eravamo più nessuno, ma a noi andava bene così perché ci scocciavamo pure di essere notati.

L'unica cosa che eravamo diversi, era che lui teneva esperienza e faceva le cose perché conosceva il Mondo. Io invece facevo le cose perché mi andava di farle e basta. Non riuscivo a guardare lontano, tenevo un limite.

A quell'ora, comunque, Michele non si aspettava che ero ancora sveglio. Lo salutai, ma saltò e andò a sbattere con la testa contro la cappa della cucina. Cominciai a ridere, quando mi accorsi che tenevo i piedi bagnati: la lattina era caduta a terra, e si era fatta una pozzanghera di birra.

Bestemmiò come un cane, ma poi si raddrizzò, perché lo sapeva che tenevo la testa per spartire le orecchie.

Quella birra a terra, però, andava tolta: era la scusa buona per scendere giù al palazzo e chiamare Felce Azzurra, la signora delle pulizie su cui rattavo da quando non tenevo nemmanco i peli sul cazzo. In realtà si chiamava Antonella, ma visto che si lasciava dietro un odore gentile come lei, le diedi questo soprannome.

Felce Azzurra era una bravissima cristiana che viveva da sola nel piccolo scantinato del palazzo. Non teneva famiglia, non teneva amici. La buonanima di mia mamma mi raccontò che un figlio lo teneva, ma poi finì carcerato.

Per me Felce Azzurra era una donna forte, non una semplice signora delle pulizie. Ma il tempo passa, e pure lei, come Michele, finì fuori dalla carreggiata.

Scesi al pianoterra e presi la sua porta a cazzotti. Quando le spiegai il fatto, non si fece problemi ad aiutarmi. Anzi, era pure contenta. Secondo me aveva capito da anni che rattavo su di lei, in ogni piccolo dettaglio: sulle sue mani rugose, sulle sue zizze, sui suoi piedi venosi, sulla sua pelle bruna. Ma in qualche modo tenevo sempre paura che era solo una mia impressione, e che lei voleva solo essere gentile.

Con una vestaglia lilla e a piedi nudi, Felce Azzurra salì per le scale con il suo mocio, pulì il pavimento col Marsiglia, ci fece una zuppa di latte e tornò giù senza dire niente. Volevo dirle grazie, ma tenevo troppo scuorno e rimasi zitto.

Intanto Michele si era messo sul divano a girare tutti i canali della televisione. Lo faceva tutte le sere per rilassarsi: aumma amma, tra una televendita e l'altra, prendeva sonno.

Io me ne volevo andare a dormire, ma mi chiamò per dirmi che a Felce Azzurra dovevo ringraziarla. Ma non con le parole: dovevo prenderle un regalo. Sennò facevo una figura di merda.

Anche se non ero abituato a queste cose, presi coraggio perché Michele teneva ragione: Antonella se lo meritava. Che potevo regalarle? Non tenevo nessuna idea, ma me la sarei fatta venire la mattina appresso. L'avrei aggraziata, e speravo che ricambiava il gesto. Pure solo con un pesce in mano.


Pomeriggio

Mentre lavavo i piatti, mi spremevo il cervello per trovare il regalo di Felce Azzurra. Potevo pure rubare qualcosa. Ma che cosa? Una teglia di pizza margherita? Qualche forchetta che era passata per le mani di tutta la scumma della gente? Non mi convincevano assai.

Quando uscii dalla pizzeria, pensai che Felce Azzurra non mi poteva mai perdonare per quella birra a terra. Ma proprio in quel momento mi trovai a passare dirimpetto al fioraio.

Perché non ci avevo pensato prima? I fiori piacciono a tutte le femmine, quelle serie. Alla fine, me la cavai con un mazzo di cinque rose rosse e un biglietto: "Splendi la mia vita -Franco".

Alzai il passo, perché se qualcuno mi vedeva con un mazzo di fiori in mano, mi pariava addosso a vita. E infatti, un gruppo di brutte facce mi accerchiò in mezzo alla piazza.

Erano assai, e io potevo solo scappare. Ma il più tamarro di loro mi riconobbe. Era Giorgio, il mio unico amico alle superiori, che zittì il branco per farci fare quattro chiacchiere da soli.

Mi ero proprio scordato di Giorgio. Il tempo era passato, la vita era andata avanti e io non avevo più pensato a lui, nemmeno per un attimo.

È vero che a scuola non ero il migliore, ma quando stavo con Giorgio mi sentivo un genio. Mentre io cominciavo il secondo anno, lui era già stato bocciato altre tre volte: due al primo, e una al secondo. Mi prese in simpatia, forse perché vestivo a zingaro come lui, e a un certo punto cominciò a venire da me con la scusa di studiare. In realtà voleva guardare la televisione, e faceva sciacqua Rosa e bive Agnese con le birre di Michele. Quando tornava di notte solo con quel pensiero, non le trovava e bestemmiava come un cane.

Vedendomi coi fiori in mano, Giorgio mi chiese se erano per Lucia, la ragazza che ero innamorato da anni. Pelle e ossa, naso inquilino, sboccata, figlia di un pescivendolo, eppure teneva qualcosa che mi attirava. Capitò che a scuola ci parlammo, ma mi presi scuorno. Perché io sono sempre stato tutto spigoli, e le chiacchiere mi hanno sempre messo paura. Lucia lo sapeva che ero innamorato di lei, e sicuramente ci godeva a pensarlo.

Risposi di sì, ma aumma aumma cambiai argomento. Giorgio mi raccontò di come se la passava. Viveva in bici, rubando di qua e di là, mangiando poco e bevendo molto. Si scocciava di lavorare. Se non guadagnava bene diceva che era roba da poveracci, e se guadagnava bene si giocava tutto nei centri scommesse. E il bello è che ne parlava come se morire prima dei trent'anni era un vanto.

Lo lasciai ignorante, e lo ritrovai ancora più ignorante. Ma non mi stupii, perché da quando lo conoscevo non si era mai impegnato a fare niente, manco a piangersi addosso.

Alla fine ci salutammo in fretta e ripresi a camminare fino al palazzo.

Mi fermai al pianoterra, davanti alla porta di Felce Azzurra. Che potevo fare? Darle i fiori, sorridere e aspettare che me lo faceva in mano? Era una cosa troppo sfacciata.

Bussai, lasciai i fiori davanti alla porta e salii le scale per vedere che faceva.

Uscì col suo vestitino delle pulizie, quello bianco e nero che mettono le domestiche pornografiche, e si abbassò per raccogliere il mazzo di rose. E che fu. Uscirono le zizze dalla scollatura, e a quel punto non capii più niente. Non mi accorsi se era rimasta contenta, se aveva letto il mio bigliettino, se aveva odorato le rose.

Salii subito sopra.

Michele aveva quasi finito di preparare la minestra del sabato. Aveva fatto una tirata a dormire, perciò quella era la sua colazione. Io, intanto, tenevo fame, ma Felce Azzurra mi aveva fatto arrapare: andai in bagno per farmi un pesce in mano.

Lo cominciai ad accarezzare, e nella mia testa si fece una fantasia che mi stuzzicava da quando ero piccolo.

Immaginavo di acchiappare Antonella sulla tromba delle scale mentre puliva, come sempre, e che mentre le parlavo, tutto timido, all'improvviso lasciava il suo mocio per venire ad abbassarmi i pantaloni. Niente baci, niente carezze. Me lo faceva in mano con quelle sue mani grandi, vissute e umide di pulizie, mentre mi guardava negli occhi, e inciuciava alla sua maniera dei fatti degli altri, di quanto ero un bravo ragazzo e di quanto ci teneva a me. E io facevo solo sì con la testa, perché tenevo troppo scuorno. Alla fine mi divertivo a pensare che venivo in un attimo, sporcandole la scollatura, le mani, gli zoccoli. E lei rideva di me, piena di meraviglia e in qualche modo contenta, per lasciarmi lì da solo e tornare alle sue cose.

Proprio quando ero al limite del piacere, pronto a godere come una povera anima, Michele bussò alla porta del bagno: una ragazza al telefono mi andava cercando. Diceva di chiamarsi Lucia.

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