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6. RISOLUZIONE I.

risoluzione, I, Milo.



Milo è un verme, e come tutti i vermi, posto di fronte ai propri errori, ai chiodi piantati nelle mani altrui, torna a scavare buchi nel terreno, nascondendosi. Infila la testa il più a fondo possibile, accanto agli altri animali, alle formiche, ai fossili pietrificati, in attesa della prossima alluvione. Quando piove, spinti dall'istinto di sopravvivenza, dalla voglia di vivere, i corpi sottili e viscidi dei vermi si contraggono e si agitano fino alla superficie, in una sorta di psicodramma hitchcockiano che termina in una schifosa distesa marrone. Tentano di non affogare, ma facendolo, rispondendo ad un bisogno primordiale, si espongono all'ennesimo pericolo: al mondo di sopra, illuminato, arieggiato, popolato da predatori pronti a beccarli, afferrarli, seccarli, infilarli in un amo e gettarli in un lago d'acqua dolce. La scelta è tra annegare od essere mangiati. In ogni caso, è una morte atroce, e quella di Milo arriva all'improvviso: si muove, cammina nervosamente, si passa le mani sulla faccia, tra i capelli, tirando ed afferrando ciò che riesce a raggiungere, in modo da fermare i pensieri disturbanti e sconnessi che gli colano dal naso, dagli occhi, dalla bocca secca, un'epistassi invisibile che gli fa tremare la lingua, e tutto per colpa di Tito, quell'insensibile ed egoista testa di cazzo con le vene rovinate ed il cervello annebbiato.

Tira fuori le chiavi dalla tasca dei pantaloni, bestemmiando tra i denti, e le infila nella toppa della porta con un movimento brusco, girandole un paio di volte. È in quel momento che le contrazioni del suo corpo magro ed anellato, nel tentativo di non morire affogato, di sfuggire all'inevitabile, lo portano in superficie, di fronte alle fauci spalancate della verità, dei voti nunziali, della fedeltà tradita: il salone di casa è silenzioso, il televisore, acceso ed impostato al minimo, illumina il profilo di Bea e quello della donna seduta di fronte a lei. Sul tavolo, a dividerle, ci sono due tazze vuote. Bea - la graziosa, innocente Bea, tutta capelli biondi e sorrisi innamorati - alza lo sguardo, una mano poggiata sul ventre gonfio, sull'accenno di pancia dietro cui si nasconde il loro bambino, poco più grande di un pugno, ancora cieco, una creatura all'alba della propria evoluzione, raggomitolata su se stessa. Si sfila la fede, lasciandola cadere sulla rigida tovaglia di plastica che pulisce ossessivamente dopo ogni pasto.

L'ago nel braccio livido di Tito perde valore: l'immagine si liquefà, scivolando via, e le cavità orbitali di Milo iniziano a pulsare, martellandogli la faccia. Non c'è bisogno che la seconda donna si giri: la riconosce dall'odore, dal profumo dolce, intenso e nauseante che si è introdotto abusivamente nell'appartamento, attaccandosi al suo divano, a sua moglie, ai suoi muri, a tutto ciò che gli appartiene e che R., in quell'esatto istante, seduta su una delle sedie che lui e Bea hanno scelto insieme, gli sta portando via. Il flirt occasionale che fugge con la sua vita matrimoniale, lasciandolo solo.

Milo resta a guardarle, il portachiavi che penzola e Bea che tira su con il naso, tentando di non piangere. Non sa cosa dire. Sono due, le possibilità: ritirarsi, scappare, pregando Tito di perdonare ogni suo errore e di accoglierlo sotto al suo tetto, offrendogli un pasto caldo; o restare e buttarsi in ginocchio, recitando un rosario profano, pieno di menzogne e parole buone a cui, però, non crede. Implorare la sua dolce, innocente moglie fino allo sfinimento, chiedendole di ignorare R., le loro notti insieme, i letti condivisi, il suo profumo impresso sulle magliette di Milo.

Ha commesso uno sbaglio, e se ne rende conto quando si sofferma sul volto umido ed arrossato di Bea, che non riesce a guardarlo: nessuno degli orgasmi avuti con R. vale le sue lacrime; neanche il primo, il più intenso di tutti, amplificato dal brivido del tradimento e dall'adrenalina data dall'avventura, dalla poca familiarità che aveva con la voce di R., spezzata dalle labbra di Milo sul suo corpo e dalle sue promesse vane, vuote, inconsistenti.

Il cuore fragile e delicato di Bea, sanguinante, è trafitto da sette dolori; sette spade che lacerano i tessuti, trapassandola, vestendola del velo immacolato della Madonna. È una Maria Addolorata dei tempi moderni, una ragazzina di periferia cresciuta con i vestiti smessi della sorella maggiore e destinata alle braccia di un uomo egoista. Di un verme che emerge solo con le alluvioni.

I sette dolori di Bea - china in avanti, con i capelli biondi che le ricadono sulle spalle, in attesa di una rivelazione, di un miracolo - riguardano Milo e la loro vita insieme. Non c'è un prima né un dopo, perché la sua intera, traballante esistenza è sempre girata attorno a lui e al suo sorriso carismatico, allo sguardo affascinante, ai modi spigliati ed intraprendenti. Uno bello come lui con una normale come lei, invisibile agli occhi di chiunque altro.

La prima spada l'ha colpita il giorno in cui si sono conosciuti, stringendosi la mano. Due ragazzi inesperti, con il viso unto e la voglia di fare, di esplorare, di vivere. La seconda è arrivata con i baci che sradicavano l'anima, strappandola via da quel corpo gracile, adesso sede di una nuova esistenza. Poi la convivenza, la proposta, il matrimonio (il sacramento con cui Milo ha inaugurato una lunga, interminabile stagione di tradimenti e notti trascorse fuori casa, lontano da Bea e da tutto ciò che rappresenta — stabilità, amore, sicurezza, normalità). Poi la creatura. La vita allo stato embrionale che porta dentro di sé, che custodisce, premendo una mano sul ventre come se, ancora minuscolo, il bambino fosse in grado di sentirla. Ha letto qualcosa, Milo, in una rivista abbandonata in una sala d'attesa; qualcosa sulle donne incinte e i film dell'orrore, con i feti non ancora sviluppati che percepiscono lo spavento della madre.

È un legame inimitabile, quello tra madre e figlio, ed in questo momento, piazzato in mezzo al salone come un fantoccio, Milo si chiede se il disprezzo di Bea nei suoi confronti stia nutrendo il loro bambino, facendolo crescere nell'odio. Si rivolterà contro di lui come Alessandro Magno ha fatto con Filippo di Macedonia, preferendo l'esilio. È questa, la settima spada: rovinare la famiglia prima che si consolidi. Milo l'ha spinta così in profondità da riuscire a vederne solo il manico. In alcune tribù, guidato dalla necessità di creare una progenie forte, orientata al bene della comunità, il padre tenta di imitare l'allattamento. Nutrire un figlio - azione primaria, fondamentale - si trasforma in un gesto simbolico con cui il padre si eleva allo stesso livello della madre, masticando il cibo per poi infilarlo nella bocca inesperta del bambino.

«E te...» Milo deglutisce, tentando di lubrificare la gola secca e fermare i lievi balbettii che sente scalciare alla base della lingua, pronti a saltare fuori. Si prende un istante, alternando lo sguardo tra le due donne. «Te che ce stai a fa' qua?»

R., finalmente, si gira. È sadica, la luce nei suoi occhi. Tagliente.

«Ho detto la verità» risponde lei, pacata.

Gli sorride, le labbra piene coperte di rossetto. La rabbia gli monta nel petto, pulsando, espandendosi, riecheggiando nelle cavità — è un nucleo di energia che brucia, sfrigolante, minacciando di sciogliergli la carne. È violenta, perché la verità di R. - utopica, surreale - è una verità relativa, fatta di parole dolci, di regali, di pranzi condivisi con le mani che si cercano, irrefrenabili. La sua verità è una menzogna, una bugia che Milo ha costruito a causa del suo malsano bisogno di allontanarsi da Bea e dalla staticità opprimente del matrimonio.

Le ha mentito, convincendola di provare qualcosa, ma il cuore di Milo è fatto d'amianto, e ha smesso di battere nel momento in cui ha deciso di cedere se stesso, rimpiazzandosi con un altro, un uomo adulto, maturo, senza le crepe che correvano lungo l'io adolescente che lo teneva al guinzaglio. È questa, la differenza tra R. e Bea: la moglie si è innamorata di lui poco più che ragazzina, quando a guardarla, a toccarla, a parlarle c'era il Milo di una volta - insicuro, curvo, silenzioso, la fronte perennemente corrucciata -; R., al contrario, ha conosciuto la versione semplice, plastificata, di cui ci si innamora in un attimo. Il Milo sicuro di sé, scolpito nella pietra, che guarda al mondo con un cinismo ed una leggerezza che affascinano, tirandoti nella sua bolgia personale. La vita non gli ha mai dato niente, e lui ricambia il favore, spremendola fino all'ultima goccia, prendendo senza mai restituire.

«E chi —» sospira, forte, irruente, premendo le mani sul viso e conficcando le unghie nella pelle, «chi cazzo t'ha detto di farlo, di venire qui, in casa mia, a parlare con mia moglie —»

«Dove sta la fede?»

La voce di Bea è poco più che un sussurro, ma gli perfora il cervello, rimanendo incastrata in mezzo agli occhi spalancati ed iniettati di sangue. Si è quasi dimenticato di lei. È una cosa che succede spesso, con Bea, talmente riservata da infilarsi in un angolo e scomparire, immersa in una stanza piena di gente. La guarda. È incredula: spera che Milo neghi tutto, che le menta per l'ennesima volta, mettendo una pezza anche su quella situazione. Ce ne sono tante, di pezze; stracci buttati casualmente, tentando di coprire un buco, una perdita, una voragine: (ti amo; sei l'unica; siamo felici; no, non ho dimenticato l'anniversario, usciamo a cena?).

«Ce l'ho...» si inizia a tastare le tasche dei pantaloni, rivoltandole. Controlla anche il pacchetto di sigarette, ma la fede non c'è: deve averla lasciata da Tito, sul lavandino del bagno o sul tavolo, accanto al bonsai morto. Sospira. «L'ho dimenticata a casa di Tito, dopo passo a prenderla.»

Sperando che Tito non sia svenuto con la bava alla bocca e l'ago nel braccio.

«Dimmi che non è vero» mormora ancora.

Ha la testa china, le mani in grembo. È il dolore personificato, e non la sofferenza lancinante di una perdita, di un male fisico, ma quella subdola e sorda della delusione, della fiducia mal riposta. È sempre stata cieca di fronte alle avventure di Milo, perché, in alcuni casi, quando non si ha nient'altro al mondo, la cecità conviene: è facile, veloce, senza grida, insulti o lacrime. Il buio conforta, caldo ed imperscrutabile, celando ciò che avviene alla luce del sole, e non si può soffrire per qualcosa di cui non si è al corrente. Le scuse di Emiliano sono sempre state valide, calibrate al millimetro: turni lunghi, nottate da Tito. Situazioni che gli si addicono come un abito di sartoria. È meglio crederlo sotto la cattiva influenza di Tito - avventato, incosciente, convinto di poter decifrare le persone attraverso il loro odore - piuttosto che nelle braccia di un'altra, di una donna bella e notevole come R., con i lunghi capelli castani, il corpo perfetto e la sicurezza di chi, certo delle proprie capacità, affronta la vita a testa alta. Bea non è niente di tutto questo. È solo ingenuamente innamorata di Milo.

Emiliano la guarda, ci pensa, vede il tempo trascorso insieme, il trasloco, le foto appese ai muri, la cerimonia con cui hanno suggellato la propria unione — è la sua via d'uscita, la terza alternativa: annegare, essere mangiato o scappare, negando tutto. Se lo facesse, Bea sarebbe disposta a credergli, perché è fatta così: ha bisogno di qualcuno che le stia accanto, che la rassicuri, e da sola si sente persa. Meglio l'infelicità alla solitudine. È lo stesso motivo per cui, in passato, ha insistito tanto per rimanere al capezzale di Tito, anche se fatica a sopportarlo, se teme la sua imprevedibilità: per non lasciarlo solo. Per non farlo svegliare in una stanza d'ospedale, tra macchine che controllano il battito cardiaco ed infermieri senza nome. Voleva impedire che, una volta aperti gli occhi, si spaventasse. Era rimasta, nonostante guardarlo in viso le stringesse lo stomaco.

Milo abbassa lo sguardo, puntandolo sulle lucide mattonelle del pavimento. Bea deve aver pulito casa, prima di accogliere R. I capelli gli ricadono sulla fronte e lui li tira indietro con un gesto nervoso, passandoci le mani sudate. Non gli serve parlare: Bea ha già capito. Scoppia a piangere, ed Emiliano si rivolge ad R., indicandole la porta con un rapido cenno del capo.

«Vattene.»

Si alza. Per un istante, mentre sfiora la spalla esile di Bea, sembra pentita, ma l'atteggiamento cambia nel momento in cui, raccolta la borsa, passa accanto a Milo. Si limita a fissarlo, studiando la mascella rigida, le labbra strette, il naso spolverato di lentiggini. L'ha fatto per sé, ma anche per loro: per avere una possibilità, liberandosi dell'ombra in cui sono stati costretti a rifugiarsi. Quello che non capisce, però, è che lei, per l'uomo che ha di fronte, è insignificante, un punto interrogativo in mezzo a centinaia di punti esclamativi (un'incertezza, un minuscolo sgarro in una vita caotica e piena di esperienze). La dimenticherà esattamente come ha dimenticato le donne che sono venute prima di lei.

«Doveva saperlo» gli mormora, stringendosi la borsa al petto ed uscendo dall'appartamento.

Anche a porta chiusa, aggredito dai singhiozzi della moglie, gli sembra di sentire il suono attutito dei tacchi sulle piastrelle del corridoio. Si avvicina a Bea, cadendo in ginocchio ai suoi piedi come un suddito che necessita il perdono del proprio sovrano, di colui che detiene il potere di vita e di morte, di libertà e prigionia. Le bacia le mani, i polsi, le dita — vi preme contro la fronte, mormorando una litania di parole prive di senso.

«Perché?» chiede lei, gli occhi lucidi, il viso arrossato e bagnato dalle lacrime, «Perché?»

Milo si alza, asciugandole le guance con l'orlo della maglietta, forse il gesto più dolce e disinteressato del loro matrimonio.

Perché? Una domanda a cui potrebbe dare decine di risposte, nessuna delle quali soddisfacente. Non ci sono ragioni valide per fare una cosa simile, per ridurre una persona in questo stato, ma l'ha fatto comunque, e sa per certo che, se potesse tornare indietro, non resisterebbe: lo farebbe ancora, spezzando la propria personalità, dividendola in due. Una parte a Bea, alla pantomima della famiglia felice; e l'altra con i colleghi, con R., con gli amici. Con Tito non sa che parte mostra, forse una che si è ritagliato a forza, prendendosi una striscia neutra dal centro.

«Non lo so.»

Rivelarle l'insoddisfazione che prova fingendosi un marito anonimo, uguale a tanti altri, la distruggerebbe.

«Stiamo — stiamo per avere un bambino, Emilià, un bambino nostro. Mi hai detto... mi hai detto che lo volevi, che eri contento, e credevo che avrebbe sistemato le cose. Che ti saresti innamorato di nuovo di me, di noi

Si tocca la pancia, togliendogli le parole di bocca. È tipico: credere che i figli risolvano i problemi, utilizzarli come collante finché non si rompono, spargendo pezzi ovunque. Sono strumenti nelle mani avide dei loro creatori, capaci di impugnarli come armi per ferire chi ha ferito loro. Poi li guardano, una volta cresciuti, e si chiedono perché sono venuti su in quel modo, silenziosi, spaventati, pieni di fratture che tengono insieme col nastro adesivo. (Ti ho cresciuto così bene e tu, ingrato, non mi hai dato niente). Come se venire al mondo sia un debito da saldare.

Inizia a ricredersi, Milo: non è più certo di volere - o di poter - crescere quel bambino, perché oltre ai loro geni, ai capelli rossi del padre e agli occhi azzurri della madre, a quel piccolo difetto che rende il naso vagamente gobbo, riceverà tutti i complessi di Bea e l'indifferenza di Emiliano. Erediterà i loro litigi, la loro rabbia, l'incapacità di porlo al di sopra del loro egocentrismo. Saranno genitori part-time, rinfacciandogli tutto ciò che faranno per lui. O per lei. Bea vedrà riflesso Milo, e Milo vedrà un impegno di cui non vuole farsi carico.

«Ci siamo sposati» continua lei, strappando le mani da quelle del marito, «anche se tutti ci remavano contro, dicendoci che eravamo troppo giovani. Non li ho ascoltati, perché... perché sei l'uomo che amo. L'amore della mia vita. È sempre stato così. Quand'è che hai smesso di crederci?»

Gli ricorda la domanda che ha rivolto a Tito, riflettendo sulla loro amicizia. La verità è che non ci ha mai creduto. Non come Bea, almeno, perché nessuno, a parte lei, è convinto che esistano le anime gemelle. Vive nel mondo dei sogni, nelle fiabe in cui il cattivo è un animale parlante ed il lieto fine è sempre nella pagina successiva. Nella vita vera, però, i cattivi sono altri, e raramente vengono sconfitti. Sono la paura, le insicurezze, le ingiustizie, la gente che ti massacra per un portafoglio e due spicci su una delle vie più ricche e ricercate di Roma, quasi voglia beffarti. I problemi non si risolvono con uno schiocco di dita, e neanche con un bambino, soprattutto se, come Milo, non si ha intenzione di farlo: sta bene così, amato da molti e disprezzato da altri, nella sua esistenza da verme che annega o viene mangiato. Però, nonostante tutto, ci tiene all'incolumità di Bea, e l'idea di ferirla gli toglie il fiato. Si conoscono da molto tempo, e le vuole bene, così come ne vorrebbe ad un'amica d'infanzia. L'ha preso quando ancora si portava dietro i postumi della balbuzie, gracile e timido. Erano i tempi in cui Tito lo trascinava afferrandolo per il colletto della felpa.

«Mi dispiace» si limita a rispondere, e non mente: gli dispiace sul serio, ma forse non abbastanza. «Meriti di meglio. Dimmi cosa vuoi, Bea, dimmelo e lo farò.»

«Io voglio te. Non lo capisci? È tutto quello di cui ho bisogno. Sei in grado di farlo? Di amarmi, di restarmi accanto?» lo guarda, speranzosa, accarezzandogli il viso ispido di barba, «Dimmi di sì e mi dimenticherò di lei, di questa conversazione, di tutto quanto. Iniziamo da zero, io, te e il nostro bambino, come una vera famiglia.»

Le vere famiglie, per lei, sono quelle delle cartoline. Della pubblicità dell'Ikea, con i ragazzini che giocano nella stanza con i letti a castello ed i genitori che parlano in cucina o nello studio. Sono quelle cucite insieme per puro fattore estetico, perché sono belle, facendoti agognare qualcosa di simile. Una mimesi aggressiva che ti spinge a combattere perché desideroso di ottenere ciò di cui tu sei privo e che gli altri possiedono. Milo, però, non è così.

«Posso provà» le dice, rivolgendole un sorriso sterile, «ma lo sai che capiterà di nuovo. Se non è lei, sarà un'altra.»

«E allora nascondilo meglio!»

Gli tira un ceffone, e Milo rimane in silenzio, la guancia che brucia e la mente lontana. A farle più rabbia sembra essere questo: il fatto di averlo involontariamente scoperto, l'incapacità di Milo di portare avanti il suo teatrino da quattro soldi.

Si alza in piedi, sospirando, e si china in avanti per lasciarle un bacio sulla nuca. Bea arranca, allunga le braccia in avanti e, appena si allontana, tenta di raggiungerlo, di aggrapparsi a lui e tenerlo vicino, ma Emiliano si scosta rapidamente, andando a frugare nell'armadio. Riempie uno zaino, raccogliendo un po' di cose.

«Dove vai?»

«Fuori. Ti lascio sola per un po', così ti puoi calmà e riflette'.»

Lei gli arpiona il polso, osservandolo con quegli occhi grandi ed innocenti, da bambina che non comprende ciò che accade.

«Non andare». Tira su con il naso, prendendo un respiro profondo e sistemandosi i capelli dietro le orecchie, nella speranza di ricomporsi e tornare alla normalità. Un attimo prima è una donna felicemente sposata, con un figlio in arrivo, e quello dopo la sua vita si sgretola. «Non fa niente, davvero, non —»

Emiliano la ferma, circondandole il viso. Le sfiora gli zigomi, le tempie, le labbra, e poi la abbraccia. Tornerà, lo sanno entrambi: non ha altro posto dove stare, e la convivenza con Bea è la miccia che lo spinge a tradirla, che lo ravviva, che lo scuote. Adesso, però, i vermi devono tornare a nascondersi sottoterra, in attesa del prossimo temporale, e a Milo lo sporco è sempre piaciuto. Il fango che si attacca addosso e si incrosta ai vestiti. Ci nuota dentro da quando è adolescente.

Se la lascia alle spalle, e sa per certo che, dopo il bar, la palestra ed una lunga passeggiata senza meta, finirà a bussare alla porta di R. È suo il messaggio che vede quando prende il cellulare. (Chiamami). Lo ignora, sperando di trovarne uno di Tito, ma rimane deluso. Vorrebbe chiamarlo, sentire come sta, se è ancora vivo, se ha bisogno di qualcuno che porti fuori Ettore, ma non sarà lui il primo a farsi avanti, non dopo quello che ha fatto Tito. Emiliano non si piega, e non è disposto a scusarsi, non con uno come lui, un cucciolo dal muso schiacciato che ti gironzola sempre tra i piedi, odorandoti le scarpe e giudicando ogni tuo passo. Glielo sentirebbe addosso, quello che è appena successo, una delle sue stronzate sulla menta, il peperoncino, il ginseng — non gli serve, il suo giudizio. Né il suo, né di R., né di Bea. Di nessuno. Milo sta bene così. 

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