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5. TURBAMENTI.


warnings:
— violenza;
— abuso di sostanze (anche se non descritto nel dettaglio);
stay safe



Paralisi del sonno.

Tito è sdraiato al centro del letto matrimoniale. Attorno a lui, le pareti della camera si inclinano in avanti. Si piegano, si accasciano su se stesse, gli vengono incontro, solide ed inesorabili. È notte, ma i suoi occhi sono sgranati: cerca di chiuderli, di dargli sollievo, ma dita invisibili gli allargano le palpebre e gli tirano le spesse ciglia scure, bagnate dalle secrezioni che tentano di lenire il bruciore. Il suo corpo è pesante, affaticato, gettato su quel materasso come un cadavere sul lettino dell'obitorio, con il sangue sedimentato in grumi nelle vene fragili, noduli di globuli rossi che gli chiazzano la pelle sottile, gonfiandogli le membra.

Il suo cervello è acceso - lo sente lavorare, tentando di sbrogliare la matassa di fili ingarbugliati, di rimuovere gli strati di vernice della sua camera di Vincent, uno dopo l'altro, fino ad arrivare alla spoglia tela sottostante - ma la carne è fredda. La sente inacidire. Le linee rigide del petto, appena oltre il mento tirato verso l'alto, virano bruscamente, precipitando lungo lo stomaco, l'addome, il bassoventre. I boxer, attorno ai fianchi lividi, schizzati di buchi ed ematomi, si accartocciano sull'inguine e sulle cosce, larghi e consumati. Le lenzuola sono serpenti vivi che gli scivolano lungo le gambe, salendo e stringendo stringendo stringendo fino a spezzargli la tibia, tirando fuori la lingua biforcuta. Il corpo gli si contrae ad ogni movimento, sfregando contro la peluria scura. Sibilano, cantilenando, e gli raggiungono il ventre sensibile.

Tito è vigile, in sé, ma il suo corpo è inchiodato al letto come Cristo lo era stato alla croce, ammirato dai passanti, beccato dai corvi e deriso dai maligni. I piedi nudi. Le mani insanguinate. La corona di spine. Il serpente continua a piegarsi, gli occhi vivaci e la testa a freccia appena sollevata. Gli raggiunge il collo, preme sulla laringe, costringendolo ad aprire la bocca in un gemito silenzioso, e poi gli avvolge la fronte, scivolando sotto il capo e serrando i muscoli. Le squame gli graffiano la pelle, ma Tito, impossibilitato a muoversi, a parlare, a chiedere aiuto, rimane immobile, con lo sguardo fisso verso il soffitto. Attraverso la penombra e la spessa patina che gli ricopre gli occhi, riesce a vederlo a malapena.

Nell'aria, satura fino a diventare irrespirabile, viziata dalla finestra chiusa e dai panni sporchi disseminati sul pavimento, percepisce gli aghi di pino. Non ci sono pini, a Tiburtino, ma Tito è in una splendida foresta, sdraiato sul proprio letto, e gli alberi lo avvolgono interamente, protendendosi verso il cielo. L'azzurro cola tra i rami rigidi, tingendo la cima dei tronchi. L'odore è travolgente, intenso, ed accompagna il lento viaggio intrapreso dalla sua coscienza: agitata, scalcia all'interno dello stomaco, lottando per uscire. Tito la sente staccarsi di netto, con un suono sordo, lontano, di un oggetto pesante che si schianta al suolo, ma non prova dolore, ed anche se lo provasse non potrebbe esternarlo. Per un istante, bloccato nell'antro più cupo e profondo del suo corpo mortale, la vista scompare e lui rimane accecato da un sole inesistente. Non ci sono soli in quella dimensione, perché nulla di ciò che lo circonda è reale: sono alberi, aghi di pino e cieli che sanguinano; materassi buttati su un suolo invisibile su cui Tito affonda dolcemente, soffocato dalla morsa ferrea di un serpente.

(Sei qui per me. No, sei me. Sono io?).

La testa triangolare buca la cortina di luce, sibilando ancora, e la coscienza di Tito si contorce sul suo petto. È grigia, del colore dell'acqua sporca, e segue docilmente i comandi del suo maestro.

D'un tratto il cielo cade - o forse è lui, inchiodato al letto, legato dalle lenzuola intrise di sudore, a salire di colpo e a scontrarsi contro di esso, facendolo esplodere in un centinaio, un milione di frammenti che aprono tagli sulla carne morta - e i pini si dissolvono: non è più nella foresta. Adesso, in grado di controllare i propri movimenti, sotto di lui c'è l'asfalto che brucia.

Ha una guancia premuta sul marciapiede e nella bocca impastata, anestetizzata dal colpo, la lingua giace nella propria cavità, saggiando qualcosa di metallico e disgustoso che gli scivola in gola e lo spinge a tossire. Bolle di saliva si gonfiano e scoppiano ad ogni ansimo, schizzando tutt'intorno. Prova dolore, ma è come se quella sofferenza non gli appartenesse; come se il corpo in cui è entrato, schiantandosi contro il cielo, non fosse il suo, ma quello di un altro. Un povero malcapitato sdraiato sul marciapiede con la bocca secca e i polmoni rigidi, solleticati dai bordi frastagliati di costole incrinate o forse spezzate.

Sa dov'è. Vede le proprie mani a terra e flette piano le dita. Il serpente, soddisfatto, gli libera il capo dolorante e striscia sull'asfalto. Mentre si allontana, muovendosi sulla strada deserta, il ventre gli si bagna di sangue ed un rantolo roco risale la gola di Tito, vibrando in ogni cavità del suo essere: l'odore di pino, sommerso dal lerciume della città, viene sostituito. Si agita, cerca di muoversi, gratta il mento per terra, aprendo la bocca nella vana, disperata speranza che ne esca qualcosa, un suono abbastanza articolato da risvegliare una Roma dormiente, immersa nella quiete della notte. Rantola ancora, simile ad un animale tramortito, ed il corpo viene percorso da lunghe, vibranti strisce di calore. Forse ha i denti rotti. C'è qualcosa di bianco nella pozza di sangue sotto di lui, ed è probabile che siano i pezzi saltati via dai suoi denti, ormai piccoli e frastagliati.

Cerca anche lui di strisciare, di correre dietro al serpente e alla coda che fende l'aria, ma non ce la fa: c'è qualcuno insieme a lui; un demone che cala sulla sua schiena, premendovi contro un ginocchio. Gli afferra i capelli. (Oggi non potresti farlo, stronzo). Oggi, nel suo letto, con i boxer larghi sulle gambe da tossico e la croce di metallo che gli bacia il petto, non può farlo, perché Tito ha la testa rasata; ma quella non è la sua camera di Vincent, e neanche la foresta di pini. Quelli sono i Condotti e Tito ha i capelli poco più lunghi, abbastanza da affondarvi le dita e stringere. Il demone gli tira la testa all'indietro ed il collo disegna un angolo retto.

Tito geme, spaventato. Il demone gli sbatte la testa sul marciapiede. Le schegge dei denti si conficcano nella pelle e l'aria si riempie di un ronzio cinetico, artificiale.

«Te senti ancora forte, adesso?» sussurra l'ombra, proprio accanto al suo orecchio. Tito fatica a distinguere le parole: i suoni, strascicati, si mescolano, dando vita ad una litania. La testa sbatte ancora e l'aria si riempie di quell'odore — l'unico che vorrebbe dimenticare; l'unico che, invece, è impresso in modo indelebile nella sua memoria. È limone. È morte. «Dovevi dammelo senza tante storie, sto cazzo de portafojo, mh?»

Il demone gli tasta la giacca leggera, i jeans, e continua a frugare, violando il suo spazio personale. Lo ispeziona a fondo, ascoltandolo grugnire come un maiale intento a soffocare nel fango, ma non sembra interessargli: estrae il portafoglio dalla tasca posteriore dei pantaloni, poi il cellulare, gli scontrini, gli spiccioli che si vanno ad infilare tra le pieghe del tessuto. Apre la custodia dei documenti, controllando anche lì, e quando non trova nulla in grado di soddisfare le sue aspettative li getta a terra, colpendo il volto insanguinato di Tito, ormai irriconoscibile. Non voleva darglielo, il portafoglio, ma lui se l'è preso comunque, ed ora Tito è in un giardino di limoni con la morte che falcia i rami, lasciando cadere al suolo i più maturi. Sente i pezzi d'asfalto graffiargli le labbra e l'umidità della sera accarezzargli il retro del collo sudato, infilandosi sotto ai vestiti. Cerca di parlare, ma la lingua è un pezzo di carne sanguinolenta.

(Fa male). Il dolore, ad oggi, è l'unica cosa che riesce a spaventarlo: è la sua paura primordiale, e sfuma man mano che la coda del serpente, tinta di rosso, si allontana, scomparendo oltre l'angolo. Si dissolve, accompagnandolo in un luogo vuoto, denso di oscurità, in cui il suo corpo martoriato fluttua senza né cielo né terra. Sta perdendo i sensi e più Roma si sfoca, immersa nella nebbia, più gli aghi di pino tornano a pungergli le narici dilatate.

(Mi sveglierò? Cazzo. Cazzo). Tito è solo, è maligno, è egoista, ma la solitudine ed il karma non trovano appigli su di lui. La solitudine, ad esempio. La solitudine lo fa ridere, di una risata acuta e sguaiata, carica di sarcasmo: è solo da quando aveva quattordici anni. Un adolescente del cazzo con delle aspettative e delle ambizioni del cazzo. Ci ha fatto l'abitudine, perché quel giorno, ai margini dei Condotti, tra una vetrina buia e manichini dagli abiti costosi, ha capito una cosa: l'odore di limoni apre la strada alla morte, e con lui, in quel momento, non c'era nessuno. Nei sussurri della gente la Morte è donna, e lo era anche nella mente di Tito. Eppure, mentre gli scostava i capelli dalla fronte, grattando via il sangue incrostato, era stato costretto a ricredersi: il suo mietitore era un uomo. Non indossava mantelli né trascinava una falce. Tito, poco prima di addormentarsi, l'ha guardato bene, imprimendo nella memoria ogni parte del corpo scarno, ogni sensazione suscitata dai suoi occhi, opachi e lontani. È da quel dettaglio - dalla profondità delle sue iridi, dalla conoscenza infinita celata dietro le palpebre sottili - che ha capito di essere ad un passo dalla fine, dall'ultimo punto del suo sciatto romanzetto invenduto. A sovrastarlo, simile ad un gargoyle appollaiato sulla cima di una cattedrale, non c'era un tirapiedi, o un servo, o un delegato. Non c'era Dio né un angelo. Era la Morte, e per lui la Morte aveva il volto di un uomo albino, senza età, vestito con una tunica bianca il cui orlo gli accarezzava i piedi nudi, feriti dalle innumerevoli strade percorse. Era la sua pelle, spessa e levigata, ad avere l'odore di limoni.

Il karma, invece, ha un'altra storia: non lo teme perché l'ha già scontato. Tito è un uomo cinico, cresciuto ferendo chi gli stava attorno, e la sofferenza che ha causato l'ha scontata tutta quella notte, mentre si dissanguava per strada. Ora il karma gli passa vicino, salutandolo con un cenno della testa, e va oltre, affondando gli artigli nella carne di qualcun altro.

L'unica cosa che ancora lo spaventa, che lo fa svegliare nel mezzo della notte, paralizzato, è il dolore, perché quello non smetterà mai di sentirlo. Non si abituerà, perché il corpo umano duole continuamente: come ha detto a Milo, il dolore ha una funzione, e per questo è destinato a persistere.

Quando riapre gli occhi ha la mascella bloccata con i fili di ferro. Non può parlare, respira a fatica ed ogni lembo di pelle, ogni muscolo sottostante, è riverso su un letto dalle lenzuola rigide. C'è puzza di frutta marcia, un odore nitido e pervasivo che Tito imparerà a riconoscere come quello della malattia, e la sua faccia... la sua faccia è un pezzo di cemento martellato fino a diventare polvere. La sente a malapena. Entra qualcuno. È una donna, indossa una divisa da ospedale. Sa di rosmarino appena colto.

«Tito?» quando vede il piccolo spiraglio scuro aperto dalle palpebre, sembra sorpresa. Si avvicina, controlla qualcosa accanto a lui, gli tocca il polso e poi il braccio, tentando di rassicurarlo. «Tito? È bello vederti sveglio, ti stavamo aspettando.»

La sua voce è pulita, priva di inflessioni. Forse non è di Roma.

(Non riesco... non ti vedo. Abbassati. Non vedo niente. Dove sono?).

L'infermiera gli stringe di nuovo il braccio.

«No, calmati. Non provare a parlare, hai la mascella bloccata. Sei in ospedale, va tutto bene». È gentile, ma utilizza frasi brevi e concise. Lo sta trattando come un bambino, e Tito inizia ad agitarsi. «Vado a chiamare qualcuno, torno subito. Siamo contenti di vederti sveglio.»

(Tu e chi? Chi chiami? Non andartene, cazzo, sto male. Non riesco a parlare. Perché non posso parlare?)

L'infermiera viene trascinata nel marasma dei corridoi, mescolandosi alle pareti scolorite e ai camici senza testa. Tutto ciò che vede, attraverso lo spiraglio lasciato dalla porta socchiusa, sono ginocchia che si piegano e scarpe di gomma che grattano via le strisce colorate sul pavimento. La puzza di frutta marcia è talmente forte da fargli contrarre la gola e per un attimo, mentre le iridi scure saettano da un lato all'altro, teme di morire soffocato. Di strozzarsi con il proprio vomito, perché ha la mascella di ferro ed il resto del suo corpo - asciutto, fragile, un mucchio di ossa gettate sul materasso alto quattro dita - è privo di forze.

Sente le lacrime scorrergli sul viso, catturando la luce fredda della sua camera d'ospedale. La sua vuota camera d'ospedale. Eppure, sa che non succederà: l'uomo vestito di bianco - la sua Morte personale, silenziosa e distaccata come può esserlo solo un'entità che traina le anime stanche - è sparito. I limoni, nella sua testa, non possono marcire. Poi, prima che l'infermiera torni indietro, presentandolo come il miracolato, come il Lazzaro della terapia intensiva, appena uscito dal proprio tumulo di coperte e antidolorifici, gli aghi di pino tingono di nuovo l'aria, portando con sé il lieve sibilo del serpente. Tito chiude gli occhi, lasciandosi pervadere dall'aroma, e la sua coscienza, riassorbita in un unico, profondo respiro, scivola al proprio posto.

Adesso è sveglio e a circondarlo c'è la densa oscurità della sua stanza (la stanza da letto, nell'appartamento numero cinque di uno degli innumerevoli parallelepipedi di Tiburtino). Geme, strascicando parole prive di senso, e piega le gambe, tentando di sollevarsi sui gomiti. Accanto a lui, con le mani premute sulla fronte ed il respiro affannato, c'è Milo: è inginocchiato sul letto, i capelli schiacciati ed il bordo della camicia che pende sulle cosce. Sembra sconvolto. Tito - invece di avvicinarsi, di spiegarsi, di fermare l'angoscia che vede arrampicarglisi sul viso - si concentra sul suo petto, sulle asole senza bottoni, e piega la testa. Avrebbe potuto cambiarsi, chiedergli una maglietta per dormire, ma non l'ha fatto, e questo perché Milo è un testardo ed egocentrico pezzo di merda; un sadico manipolatore che penetra nei cervelli scavando tunnel nel tessuto fresco. Ti infetta. Usa il tuo senso di colpa, lo incanala, te lo scaglia contro e poi, quando torni strisciando ai suoi piedi, implorando perdono, ti soccorre in piena notte. Ettore guaisce piano, agitando la coda e premendo il naso umido contro la spalla di Tito.

«Cristo» mormora Milo, facendo scivolare le dita contro la pelle, «pensavo fossi morto. Che t'ha preso?»

Tito ride, lasciandosi cadere sulla schiena. Si raggomitola su un fianco, mostrando le appuntite protuberanze delle vertebre e delle scapole. Velato di sudore, con le gambe tirate al petto e circondate dalle braccia sottili, somiglia ad un feto coperto di placenta.

«Paralisi del sonno. Sono sveglio, ma non riesco a muovermi.»

Milo si siede, le ginocchia larghe e lo sguardo macchiato di preoccupazione. In quella posizione, con la vulnerabilità che ammorbidisce il ghigno altezzoso, sembra quasi un essere umano. Un uomo come tanti.

«L'hai detto a qualcuno?»

«Sì» afferma lui, stendendosi. Dopo aver viaggiato nei meandri della propria memoria, riesumando scheletri seppelliti tre metri sottoterra, è piacevole essere padroni del proprio corpo. Flettere le dita, deglutire senza percepire sulla lingua il sapore del sangue ed i bordi irregolari dei denti rotti. Si asciuga il rivolo di saliva che gli ha bagnato la guancia destra, abbassando le palpebre. «M'hanno detto che ha a che fare co' quello che è successo. Tipo stress post-traumatico. Ma mi capita solo quando l'insonnia dura troppo o quando dormo male. N'è 'na grande preoccupazione.»

«Mortacci tua, Tì, me stavi a fa' venì n'infarto. Ettore abbaiava che manco se je entrava qualcuno dentro casa.»

«Prendi una delle mie magliette. Sdraiati. Resta.»

Lo ignora, perché le prediche, per Tito, possono farle solo i preti. Non lo guarda neanche, limitandosi ad istruirlo come fa con Ettore: gli dà degli ordini, facendo una pausa tra un respiro e l'altro - tra una parola e l'altra - per sottolinearne l'importanza. Non ha bisogno di Milo. Quando allunga la mano, tagliando l'oscurità di netto fino alle braccia solide dell'uomo, non è Milo che tocca — è solo un corpo, carne calda che contrasta i brividi che gli increspano il petto nudo. È il calore umano a mancargli, non il calore di Milo. Emiliano, per definizione, è il gelo artico che manda in cancrena gli arti periferici e ricopre le ciglia di granelli di ghiaccio, brina solida che ferisce le guance.

Le paralisi lo lasciano vuoto: quando gli aghi di pino riempiono l'aria, segnalando il trapasso del suo spirito da una dimensione all'altra, la coscienza fluisce via in un'unica, potente ondata. Un'emorragia che lo svuota completamente, permettendogli di ascoltare l'eco dei propri pensieri, della volontà che grida: (muoviti!) alla mano, al piede, alla gamba, senza però ricevere risposta. Il suono rimbalza tra le pareti, leggiadro, senza incontrare alcuna resistenza, perché i muscoli ed i nervi - gli inquilini abituali del suo corpo - sono scivolati via insieme a tutto il resto. Ha bisogno di qualcuno che lo riporti indietro, chiunque sia, e Milo adesso è lì, seduto nella stessa stanza. Glielo deve.

«Non damme ordini, stronzo» mormora Emiliano.

Risponde d'istinto, in modo meccanico, ma si alza ugualmente, percorrendo a tastoni la breve distanza che lo separa dal cassettone in cui Tito tiene i vestiti per la notte. Afferra una vecchia maglietta e fruga ancora, immergendo il braccio fino a toccare il retro del cassetto. Prende un paio di pantaloncini, iniziando a sbottonarsi la camicia. La getta da un lato, distratto, e Tito pensa a Bea. L'ostinata, innamorata Bea, distesa nel loro letto, una mano sul cuscino vuoto di Milo e l'altra premuta sul ventre, in attesa di un movimento da parte del suo primogenito. La progenie che condivide i suoi geni, mescolati a quelli di Emiliano. L'inferno ed il purgatorio che si uniscono per dar vita ad un anticristo con le ali. È sicuro che l'abbia stirata lei, quella camicia, e Milo la butta via come se niente fosse. Bastardo viziato.

Si stende accanto a lui, un braccio sotto la nuca e l'altro sull'addome. Tra loro ci sono due spanne di distanza, abbastanza spazio da permettere ad Ettore di schiacciare la testa tra i loro gomiti. Fissano il soffitto, ascoltando il ronzio del silenzio: i canali radio delle loro teste non funzionano, disturbati, e producono solo un lieve ed insistente stridore metallico.

«Quand'è che hai iniziato ad odiarmi, Tì?»

Emiliano è un bastardo viziato, ma non un codardo. Ha percepito la tensione, ha adocchiato il bersaglio, si è piegato in avanti e gli è corso incontro, tentando di abbatterlo. Tito, però, è già sdraiato.

«Non ti odio» afferma, concedendogli una mezza verità.

«N'è vero.»

«Non damme del bugiardo.»

«Allora non esserlo» lo imbecca lui, voltando il capo. Adesso i suoi occhi scavano nella testa di Tito, cercando un punto debole. «Il rapporto di un tempo non c'è più. Perché? Quand'è successo?»

Non lo sa. Non ha una risposta alle sue domande. Erano legati, da ragazzini, quel tipo di legame che ti spinge a respirare l'aria direttamente dai polmoni della persona che ami. A lungo andare, però, qualcuno è destinato a soffocare, perché l'ossigeno è poco o perché uno dei due, stanco, si tira indietro. C'era stato un tempo in cui i polmoni di Tito erano stati abbastanza grandi per entrambi, poi, terminata la scuola ed iniziata la vita, era cambiato tutto: Milo si era fatto indipendente, forte, un uomo modellato nel ferro, e si era trasformato nell'assurda, sconosciuta caricatura stesa nel suo letto. L'adulto deplorevole, apatico e megalomane.

Non usare mai il tuo prossimo solo come fine — sembra un passo della Bibbia, qualcosa che potrebbe essere sfuggito alle labbra sottili di Cristo, o forse della Madonna, eppure è sapere storico. È etica intellettuale, parafrasata da un filosofo di cui Tito ha letto un passo negli inserti venduti insieme ai giornali. Se vuoi usarli come mezzi, devi far sì che diventino anche il tuo fine. Milo non la conosce, questa storia, nonostante sia stata raccontata secoli prima della sua venuta al mondo, e Tito non può far altro che sentirsi così: usato. Come un preservativo sporco e buttato via. Gli ha concesso il suo ossigeno per anni, ma Emiliano continua a trattarlo come le sconosciute che si porta a letto; come un oggetto, e lui ha smesso di esserlo quando sui Condotti, in piena notte, hanno colpito la sua faccia come si fa con un pallone da calcio.

L'odio non è nato in un momento: è stato graduale, un lungo processo di evoluzione. Forse non è neanche odio, quello che sente. È disprezzo. La differenza è immane: l'odio è ingiustificato, irrazionale, maligno perché nato da un seme altrettanto malato; il disprezzo, invece, si coltiva, ed è repulsione motivata. L'aria, oltre al tipico odore di menta che caratterizza il corpo di Milo, si impregna del profumo dolciastro del miele. È la tristezza a sapere di miele, ma Emiliano non ha il diritto di offendersi, di manipolarlo, di utilizzare i suoi punti deboli per rigirare la situazione a suo favore. Deve incassare e basta, così come ha fatto lui.

«Perché non c'eri?» domanda, ignorando il discorso precedente. La voce, a dispetto della sua volontà, si spezza, frantumandosi sulle parole come un'onda sulla riva. Non l'ha mai ammesso prima, ma è stato quello il momento più doloroso: quando si è svegliato - la visuale rudemente tagliata, il corpo fermo, la mascella bloccata e la testa pulsante - e Milo non era lì. «Stavo da solo. M'aspettavo —»

«Me n'ero andato. Ma poi so' tornato, no?»

«Non è questo il punto, Emilià.»

Il punto è che, ai tempi, Milo era l'unica presenza della sua vita: Tito era stato solo come un cane - come un levriero addestrato per correre, per essere un campione, allenato fino allo sfinimento - finché non era arrivato lui. Quando ne aveva avuto più bisogno, però, il loro rapporto era regredito, e la sua esistenza era tornata ad essere insignificante. Se fosse morto, disteso in quel letto, nessuno se ne sarebbe accorto.

Emiliano sospira - un'esalazione debole, tremante - e gli sputa in faccia il nauseante odore prodotto dalle sue emozioni.

«Ho sbagliato» ammette, passando le dita sulla schiena di Ettore, «ma devi capimme. Non credo che tu ne sia consapevole, Tì, ma il fatto che tu sia sopravvissuto è un miracolo. E quando dico miracolo non intendo che qualcuno t'ha toccato dall'alto, né che quella non era la tua ora. Non sei scampato alla morte. Non sei il tipo di miracolato che attraversa la strada una frazione di secondo prima che una macchina passi col rosso. Loro la morte l'hanno salutata da lontano, ma tu l'hai toccata, Tì. L'hai guardata dritta in faccia, l'hai stretta, l'hai baciata — pensala come cazzo ti pare, il punto è che sai come è fatta. Sei il tipo di miracolato che è scappato dalla morte, non il tipo che l'ha vista di sfuggita. Non avevo la forza di stare lì mentre te ne andavi. So... lo so che avrei dovuto, va bene? Bea ha provato a convincermi per giorni, ma dopo averti visto la prima volta non... non ce la facevo e basta. Tu me puoi anche odià, Tì, ma per me sei ancora importante, e lo eri anche all'epoca.»

Suppone che la spiegazione sia sufficiente, eppure non gli basta: Emiliano ha sofferto, riesce a crederci, ma non era lui quello con la faccia aperta a metà, costretto a portarsi addosso le tracce di quel giorno per tutta la vita (nella cicatrice che lo sfregia, nell'occhio pigro, negli odori). Milo ha avuto paura, ma avrebbe dovuto ingoiarla e pensare a lui, oltre che a se stesso.

«Bea c'ha avuto pietà de me?»

«Questo è tutto quello che hai sentito?» gli risponde, accennando una risata. Annuisce nel buio, ma Tito se ne accorge solo perché percepisce il lieve scricchiolio del materasso ed il rumore sommesso dei capelli che sfregano contro la federa del cuscino. «Sì. È venuta in ospedale quasi tutti i giorni. Non lo ammetterà mai, ma si è affezionata.»

Questa è una novità interessante: Bea, la perfetta, innocente Bea, pronta a porgere l'altra guancia all'uomo che ha trascinato suo marito sulla cattiva strada. Come se fosse lui, tra i due, la brutta influenza, lo zoppo da cui Milo ha imparato a zoppicare. Piuttosto che essere solo, avrebbe preferito svegliarsi accanto a lei: una forma familiare in un minuscolo, circoscritto universo di cui non aveva riconosciuto nulla.

«Ti sbagli, comunque» commenta, spezzando il silenzio.

«Su cosa?»

«Sul fatto che 'ste cose non le so». Tito ha lo sguardo puntato sullo specchio di fronte a loro, l'enorme parete riflettente su cui, poche ore prima, ha scorto la propria camera di Vincent. Ora il quadro è cambiato: non c'è più luce ed il letto non è vuoto. La stanza è immersa nel buio - alleviato solo dal chiarore notturno, dalle stelle che bucano il cielo - e le loro sagome sono dossi bidimensionali. Ci sono Milo, Ettore e poi Tito, il più sottile di tutti, talmente magro, sotto le lenzuola, da essere appena riconoscibile. «Non sono arrivato a tanto così dalla morte. Lo so benissimo. Io l'ho vista, Emilià, e me la ricordo come se fosse ieri. Perciò lo so.»

Non l'ha mai detto a nessuno.

«Com'era?»

«Crudele, però... ero certo che non m'avrebbe fatto del male. Probabilmente non ha senso, ma sapevo di potermi fidare, che era lì per me. L'ho guardato negli occhi e la paura è —»

«L'hai guardato?» lo interrompe Milo, sorpreso.

Forse, dalle precedenti parole dell'uomo, non ha compreso fino in fondo la natura del loro incontro: Tito l'ha vista, ma come l'ha vista? Per quanto ne sa Emiliano, la Morte potrebbe essere un'ombra, un animale, una sensazione, un'entità immateriale — eppure Tito ne parla come se fosse una persona, un essere umano che, nel tempo libero, strappa l'anima della gente.

Esiste un istituto, nel diritto privato. Milo l'ha studiato al primo anno di giurisprudenza, poco prima di abbandonare l'università. Si chiama prescrizione estintiva, ed è il lasso di tempo in cui il titolare di una situazione giuridica attiva può esercitare il proprio diritto, imponendo degli obblighi alla controparte passiva. Al termine della prescrizione il diritto, se sussiste l'inerzia del titolare, si estingue, e non può essere più utilizzato. Emiliano l'ha sempre vista così, la Morte: simile ad una prescrizione estintiva. Scaduto il tempo, la vita spira proprio come fa il diritto. Mentre era in coma, invece, sdraiato nel suo letto in terapia intensiva, circondato da macchinari e da pareti spoglie, Tito stava attraversando una prescrizione presuntiva: terminata la prescrizione presuntiva, l'obbligo della parte passiva viene considerato assolto, ma la controparte attiva possiede ancora la possibilità di far valere il proprio diritto. Se quell'obbligo, considerato assolto per presunzione, in realtà è rimasto privo di adempimento, il titolare può intervenire in proprio favore. Tito si è svegliato, e così ha fatto valere il proprio diritto a vivere, a respirare, anche se tutti lo consideravano già morto.

«Sì» conferma Tito, schiarendosi la gola. «È un uomo. Forse un ragazzo. Non lo so, non credo che invecchi. Era...» si interrompe, scoppiando in una risata istintiva, «Cazzo — sai chi mi ricorda, adesso che ci penso? Il pazzo del Codice Da Vinci. Hai presente?»

«Il monaco? O il prete, forse. Insomma, quello che si fustigava?»

Tito si solleva dal letto, colpendogli il braccio. Ettore, spaventato dal movimento repentino, alza la testa.

«Esatto, proprio lui» gli conferma. «Non di faccia o di aspetto fisico, però. Non so, c'è qualcosa che me fa pensà a lui. Forse la tunica e i capelli chiari. Solo che il mio ce l'aveva bianca, e pure i capelli erano bianchi. Era pallido, asciutto, sembrava alto. Più alto di un uomo normale. La sensazione era...» fa una pausa - l'ennesima - e ci pensa su. Non sa come articolare ciò che ha provato: quel giorno era tutto reale, poteva toccarlo, sentirlo, respirarlo; ma adesso è un incubo lontano, ed ogni lembo che afferra gli scivola tra le dita. «È stato come toccare il ghiaccio con le mani congelate. Dovresti sentire freddo, eppure il contrasto ti fa provare una sensazione strana, diversa, quasi di... calore. Aveva il profumo di limoni.»

«E poi?»

«Poi niente» asserisce, piatto. È lì insieme a lui, vivo: le conclusioni sono ovvie. «Se n'è andato e basta. È rimasto a fissarmi per un po', poi s'è alzato ed è andato via.»

«Non ha detto niente?»

Milo è certo che fosse un'allucinazione. Non ha visto la Morte - è solo convinto di averlo fatto - ma il racconto ha stimolato la sua curiosità, simile ad una leggenda, ad un'Odissea contemporanea: Tito ed il suo viaggio andata e ritorno nel mondo dei morti. Un biglietto in prima classe con tanto di spettacolo al piano bar.

«No, ma non dà l'idea de uno loquace, non credi?»

Emiliano mugugna un assenso, premendo le dita contro le rughe che increspano il muso di Ettore. È affascinato. Si chiede se sia così per tutti, l'esperienza premorte; se qualcuno si presenti alle porte della loro coscienza, attaccandosi al campanello, o se alcuni siano semplicemente destinati a spegnersi. A spegnersi e basta, senza preavvisi o notifiche di sfratto, simili ad una lampadina che si fulmina all'improvviso, lasciando gli inquilini al buio. Il tuo contratto col mondo è scaduto: è ora di farsi da parte, di fare spazio all'innovazione, ai giovani, a chi può dare di più. Sei carne vecchia.

«È per questo che non mi puoi vede'? Perché non c'ero?»

«Forse. Non lo so, Emilià, davvero. Non so quando è iniziato.»

«Io invece lo so. Almeno per me, intendo.»

Si ammutoliscono entrambi. Tito sente un nodo. Gli stringe la base della gola, scivolando lentamente verso il basso. Cerca di rimanere immobile, di trattenere il fiato il più a lungo possibile, così da non violare gli equilibri. Il nodo, però, continua a scendere, ed ora lo sente mentre gli schiaccia le costole. Preme il palmo della mano sullo sterno, massaggiandolo piano, ed intreccia la catenina d'argento attorno all'indice. Gli piace pensare di essere l'unico, tra loro, a disprezzare, ma Milo ha appena affermato ad alta voce una verità differente, scomoda, fastidiosa come tutte le verità di cui si preferisce rimanere all'oscuro. È un'insofferenza reciproca, quella che provano, eppure eccoli lì, sdraiati l'uno accanto all'altro a scambiarsi segreti come due ragazzine innamorate.

«Me ne sono accorto quando ho deciso di lasciare l'università» continua, «non hai detto niente, ma riuscivo a leggertelo in faccia. T'ho sempre capito al volo, Tì. Non... non riuscivo più a guardarti. Tutto quello che facevi, che dicevi, che pensavi — ogni cosa mi ricordava il passato, ed io ero cambiato. Ero n'altra persona, ma te eri lo stesso. Me ricordavi l'adolescente insicuro che avevo lasciato al liceo, e quella vita non la volevo più.»

È la sua scatola di Pandora, uno scrigno pieno di brutti ricordi, episodi spiacevoli, fantasmi dai volti sfocati. Non lo biasima. Per Tito, Milo è l'abissale assenza che si è impossessata del suo corpo quando si è svegliato in ospedale, in bilico tra la vita e la morte. Per Milo, invece, Tito è il ragazzo scarno, dai capelli rossicci e le labbra imbronciate, costantemente sigillate per trattenere parole incerte, traballanti. È il vociare dei compagni di scuola, le risatine in fondo all'aula quando rispondeva all'appello, piegando la testa di lato e ficcandosi le nocche in bocca nella speranza di frenare il balbettio. L'hanno ferito, e adesso lui ferisce gli altri, crogiolandosi in una sadica rivincita di cui crede di aver bisogno.

«Prima, la scenata che hai fatto con Nicola...» riprende Emiliano. La sua voce è poco più di un sussurro. «Sei tornato il diciassettenne che cercava di proteggermi, e io t'ho seguito subito. Uno schiocco di dita e me so' trasformato nel gracile ragazzino che balbettava e non riusciva ad alzare lo sguardo. Com'è che gli hai detto? Il mentecatto

A Tito si gela il sangue nelle vene.

«Volevo che ricordasse» borbotta, severo. Nicola ha una bella vita. Un'esistenza che ha succhiato via dal midollo di Emiliano, tanti anni prima, ed ora finge che non sia mai successo. Persino Milo, che quelle offese le ha vissute, le ha sentite bruciare sulla pelle, pare averlo dimenticato. Nicola non merita le sue strette di mano, i complimenti, le risate attorno ad una battuta scadente. Non merita niente da lui. «Non può presentarsi, sfoggiare il sorriso maturo, il bell'abito dalla piega impeccabile e comportarsi come se nulla fosse. È in debito co' te.»

«È questo il problema tuo, Tì: continui a guardarti indietro. Nicola il debito suo l'ha pagato crescendo, diventando un uomo migliore. Ha commesso un errore, e si è assicurato di non ripeterlo. Nessuno di noi due voleva ripensare a quegli eventi, perché siamo andati avanti. A te, però, non interessa» sospira, intrecciando le caviglie ed ignorando l'improvvisa tensione che pervade il corpo di Tito. Per un istante, mentre lo guarda con la coda dell'occhio, distinguendone appena il profilo, teme sia scivolato di nuovo nella sua paralisi del sonno. «C'erano tante de quelle cose de cui parlà. Yuri, ad esempio. Yuri lo conoscevamo, Tì, ne stavamo parlando giusto in macchina, e adesso sappiamo che fine ha fatto. Era un ragazzo brillante, eppure la vita se l'è magnato. Un giorno aveva tutto e quello dopo il castello j'è cascato addosso. Una delle persone che amava è morta, e lui c'è rimasto così sconvolto da decidere di montare su un aereo e andare via per sempre. Te rendi conto de quanto deve esse' stato male, pe' fa' 'na cosa simile? E tu invece stai qua, e me giudichi perché ai tempi nun c'ho avuto il coraggio de guardatte morì. Yuri non ha avuto la possibilità de sceje: è entrato da qualche parte e l'ha trovato. Io la scelta ce l'avevo, e ho deciso de preservà quel poco de sanità mentale che m'era rimasta. E poi Daniele. Ma ce credi che Lucia, la ragazza dolce e premurosa che al liceo faceva ancora i cuori sulle i, sta con un omofobo del cazzo? È tutto sbagliato, Tì, ma tra Yuri, Giacomo, Lucia e Daniele, de tutti i problemi concreti che c'avevamo davanti, te hai voluto parlà de Nicola e de quello che ha fatto cent'anni fa. Me so' sentito umiliato n'altra volta. È per questo che ti odio, perché continui a ricordarmi com'era. Com'ero

Tito sta male. Vuole farsi. Ha il bisogno impellente di bucarsi, ma rimane disteso a fissare il soffitto, con il cuore che gli scalcia nel petto come un cavallo imbizzarrito. Milo è sincero: le sue parole, per la prima volta da anni, sono veritiere, pure, prive di addobbi e fronzoli inutili — lo sente nel suo odore. È per questo che non può arrabbiarsi, perché Emiliano non lo sta provocando, non sta cercando i tasti giusti da premere o i fili da tirare: gli sta rivelando ciò che pensa, le sue emozioni più profonde. Si sta mostrando per come è realmente e Tito - per quanto incazzato e frustrato - non può fargliela pagare. La sincerità è l'unica cosa per cui non può detestarlo. Sono solo arrivati al capolinea.

«Non ti dirò che mi dispiace» afferma, cercando di mascherare l'incertezza nella sua voce.

«Tranquillo, non lo vojo sentì» gli risponde lui. Non vuole scuse prive di valore. «Piuttosto... so' davvero stato l'orgasmo migliore della vita tua?»

Gli risulta semplice parlarne. È una questione intima, quella, abbastanza delicata da coinvolgere fragili sentimenti giovanili e mani che toccano, spingono, cercano, superando qualsiasi tipo di imbarazzo o riserva — eppure gli piace, l'improvvisa piega presa dalla conversazione. È soddisfacente, in un certo senso. È passato molto tempo dall'ultima volta in cui ha stretto Milo in quel modo, spogliandolo di ogni barriera - metaforica e non - presente tra loro, e tornare a quell'evento è come raccontare l'esperienza di un altro. La storia di un amico, qualcosa di cui ha origliato qualche spezzone qua e là, ricucendo insieme i pezzi. Il ricordo è talmente lontano che, parlandone, non prova assolutamente nulla.

«Non ho detto il migliore» precisa, perché la vittoria non vuole concedergliela, «ho detto uno dei migliori. C'è una grande differenza. E poi non gongolerei così tanto, non è che sia stato grandioso o chissà cosa.»

«Infatti tra i migliori c'arrivi co' la fortuna, no?»

«Sei stato avvantaggiato dal fatto che era la prima volta. Nel complesso sarai tipo il terzo, o forse il quarto. Perciò niente di speciale, solo più notevole di altri. È stato divertente, punto.»

«Quanto sei permaloso» commenta Milo, trattenendo a stento una risata. «M'accontento del podio.»

Per colmare il silenzio, pregno della dura consapevolezza portata dalla loro conversazione, sono costretti ad accendere il televisore. Milo tasta le coperte alla cieca, guadagnandosi uno squittio di disapprovazione da parte di Ettore.

Tito è stanco, vorrebbe dormire. Le palpebre sono pesanti, piccoli macigni che cadono da un muro logoro, solcando il terreno sottostante. Non ha paura della solitudine, ma l'abbandono è tutta un'altra cosa. È un estraneo che entra a forza nella sua vita. È essere lasciati e guardare le spalle dell'ultima persona al mondo per cui provi qualcosa - disprezzo, ma non è questo che importa - allontanarsi per sempre. Euridice che osserva Orfeo ritrarsi nel buio dell'ade, sperando che non si giri, che non la condanni ad un'eternità incatenata nel sottosuolo.

È notte fonda, quasi mattina, e in televisione c'è una puntata di Supercar. Tito guarda lo schermo, ma le parole si perdono, dissolvendosi nell'appartamento, e lui inizia ad essere sopraffatto dal torpore. Gli aghi di pino tornano a circondarlo, accompagnandolo verso la ripida discesa che precede il sonno. Ogni volta che solleva le palpebre, cogliendo uno scorcio della camera da letto, le forme sono più confuse, i colori più chiari ed i contorni meno nitidi. Quando la sua coscienza evapora, succhiata via dal corpo debole, teme un'altra paralisi, ma a precederla ci sono gli incubi, le vivide immagini che il cervello proietta nell'oscurità, costruendogli un habitat su misura.

Torna in ospedale, nella gabbia bianca con le pareti venate dai fili delle apparecchiature. L'infermiera senza testa non c'è. Forse non ha ancora trovato il dottore, o magari Tito si è assopito nuovamente, stordito dalle medicine, e non si è accorto della sua presenza. Al suo posto, incastonato nel pavimento, c'è un enorme specchio rettangolare. Se fosse uno specchio dei desideri, ci sarebbe dipinta la pace; la quiete di un'anima sfinita, finalmente libera. Per terra, però, sulle piastrelle grigie rovinate dallo sporco, c'è il serpente. La sua paura, l'enorme boa che striscia, contraendo i muscoli dell'addome, avvicinandosi al letto su cui è disteso. La testa a freccia si solleva, e sembra quasi osservarlo con curiosità, attratto dalle braccia pallide e dal sottile tubo che gli buca la gola. Ecco perché non può parlare. Adesso lo sente: raschia, si muove e Tito ha l'impressione che tutti i liquidi presenti dentro di lui stiano confluendo in quel punto, tentando di riversarsi all'esterno. Non ha senso, eppure è così che si sente, perché gli esseri umani sono formati da un pezzo unico, da una lunghissima striscia di pelle piegata ancora ed ancora, fino a creare un involucro impermeabile. Non dovrebbero esserci tubi in gola.

Non è un ricordo. Sa di non essersi mai svegliato in condizioni simili, ma è questo che vede riflesso nello specchio. Il respiro si fa agitato, pesante, il petto si alza e si abbassa scompostamente, quasi fosse disossato. Tito cerca di liberarsi dalle catene immaginarie che lo tengono legato al letto, ma nessuno dei suoi arti risponde ai comandi.

La sua faccia. Cazzo. La sua faccia. Non c'è più. È una sfera violacea e gonfia coperta dalle garze, gli occhi una sottile striscia tracciata con la forza. Tenta di aprire la bocca, ma non riesce a fare neanche quello. La lingua non ha spazio per muoversi, non riesce a deglutire e sta soffocando. Soffoca. (Soffoco soffoco soffoco non voglio morire). Un po' di saliva inizia a colargli dalle labbra schiuse, bagnandogli il mento, il collo, appiccicandosi alla pelle. Inizia a tremare, preda di convulsioni immaginarie che gli fanno contrarre le dita, ma non c'è nessuno ad aiutarlo: la stanza, nonostante i grugniti disperati che riesce ad emettere attraverso il metallo che gli cementa la bocca, è vuota. Piange come un bambino, perché non importa quello che dicono — non importano le cazzate di cui ci si riempie la bocca, allargando le spalle e gonfiando il torace nella speranza di sembrare forti: tutti gli uomini temono la morte. Ogni creatura vivente ha paura di smettere di vivere, ed è proprio ciò che sta accadendo. La cinghia invisibile attorno ai suoi polsi, dopo l'ennesimo tentativo, si spezza di netto, producendo il suono secco di un elastico tirato con eccessiva veemenza. Finalmente libero, Tito si strappa dalla gola il tubo di plastica, gettandolo a terra, e appena lo fa, zampillando come acqua da una fontana, i liquidi del suo corpo scivolano fuori, dipingendo la stanza di un colore torbido. Cerca di urlare, di fermare l'emorragia, ma il vuoto assorbe ogni cosa. Mentre si accascia, osservando il suo disperato alter-ego attraverso lo specchio, gli aghi di pino iniziano ad adornare il soffitto, cadendo sul pavimento. La sua coscienza torna indietro, si riassorbe, ed un attimo dopo Tito è sveglio e si sta spingendo freneticamente fuori dal letto, mosso dalla disperazione.

L'ha detto con sincerità: il dolore è l'unica cosa che lo spaventa, ed ora ha lo spasmodico bisogno di farsi, di infilarsi un ago nel braccio e soffocare il lieve pulsare dello sfregio cicatrizzato sulla faccia, il bruciore delle gengive gonfie, sull'orlo di rompersi, e le fitte provenienti dallo zigomo fratturato e poi ricomposto. C'è quasi rimasto cieco. Stava per perdere la vista, e non a causa di una di quelle stronzate che il prete racconta nelle prediche della domenica, cercando di allontanare i ragazzi dalla tentazione diabolica della loro mano destra — no, a rischiare di renderlo cieco non era stata una sega di troppo, ma uno sconosciuto col cappuccio della felpa tirato sulla testa che voleva il suo portafoglio ed il suo cellulare.

Tito barcolla, sbattendo contro gli stipiti delle porte e saltando da un riquadro di luce all'altro. Fuori il sole è sorto. Inizia a rovistare nell'armadietto dei medicinali sopra al lavandino, ignorando i mormorii spaventati di Milo, alzatosi per seguirlo. La paralisi del sonno è penetrata sotto la sua corazza di pietra: si è fatto intenerire, e ora teme che possa succedergli qualcosa. Un'altra paralisi? No, decisamente no. Questa volta Tito è crollato sul pavimento, trascinandosi scompostamente fino al sudicio bagno dell'appartamento. Mentre getta a terra i flaconi e le scatole di cartone, con movimenti rigidi e compulsivi, somiglia ad un animale catturato da una tagliola, agitato e agonizzante. Forse è una psicosi. Oppure è stato posseduto. Milo non lo sa: tutto ciò che capisce è che Tito, intento a devastare lo spazio attorno a sé, non è lucido. Lo vede infilare due dita in un flacone, il bordo di plastica abbastanza stretto da segnargli le nocche e bloccare la circolazione. Armeggia per un po', poi, impaziente, ci rinuncia: rovescia il contenitore sul palmo aperto della mano, puntellando con il pollice il piccolo cubo avvolto nella pellicola trasparente che ne esce, espulso come una merendina dal distributore automatico.

Per un attimo, Milo rimane in silenzio. Guarda l'espressione di Tito, le sue dita sottili ritratte nel pugno, il cubo marrone per cui esala un sospiro di sollievo, facendosi strada verso la cucina. Ettore abbaia disperato, ed Emiliano sente la rabbia crescere e scalciare come un toro imbizzarrito. Dilata le narici, sopprimendo il desiderio di afferrare Tito per le spalle e scuoterlo fino a fargli tornare il buon senso. Ha voglia di spaccargli la faccia, ed ogni volta che il pensiero si affaccia, facendolo fremere, lo ricaccia indietro: lui non alza le mani; non l'ha mai fatto. È uno stronzo, ma non un violento. Eppure l'ossessione dell'uomo risveglia in lui istinti brutali, quasi animaleschi. Sta buttando via la sua vita ed ogni volta che imbocca quella via - quel vicolo cieco lontano dagli occhi di Dio - lo costringe a tornare in ospedale, seduto al suo capezzale, obbligato a guardare il viso tumefatto e appena riconoscibile, il corpo sempre più asciutto e sottile che sparisce sotto le coperte; a sentire la puzza di disinfettante e di chiuso mentre Bea gli massaggia le spalle, impedendogli di alzarsi perché «sei l'unico amico che ha».

Emiliano non le voleva quelle responsabilità. Non le voleva anni fa e non le vuole neanche adesso, quando percorre la distanza che li separa a grandi falcate, afferrandogli il polso. Lo circonda da un estremo all'altro, stringendolo con forza. Tito guaisce. È un cane a cui hanno pestato la coda, ed Emiliano ci monta sopra con tutto il suo peso, impedendogli di frugare nei cassetti alla ricerca di qualsiasi cosa stia perseguitando la sua mente. Aceto, forse; qualche tipo di acido. Tito scopre i denti, tentando di liberarsi.

«Lasciami.»

«No» scandisce Milo, sostenendo il suo sguardo. È una sfida a chi resiste più a lungo. «Smettila. Ti stai guardando? Hai idea di come stai ridotto?»

«Pure troppo bene» gli sputa addosso, serrando la mascella. Inizia a sentirsi cattivo, ed Emiliano dovrebbe lasciarlo andare - nell'interesse di entrambi - perché Tito non ha intenzione di trattenersi. È stanco di farlo: non gli deve niente. Tutto ciò che sa fare è giudicare gli errori altrui, sollevando il mento come un re appena incoronato. «Credi che ti farà stare meglio?» si avvicina, i loro volti a pochi centimetri di distanza, così diversi tra loro, «Credi che fermarmi appagherà quel tuo ego del cazzo? Che mi spingerà a perdonarti? Che farà tornare tutto come prima?»

Milo gli afferra il mento, le dita che scavano solchi esangui nella mascella magra.

«È patetico il fatto che tu sia ancora convinto che possa succede'» gli sussurra, sprezzante. Lo vede esitare, e forse questa volta l'ha rotto veramente. «Non ho niente da famme perdonà.»

«E allora vattene! Porta via la tua presunzione, la tua espressione da buon samaritano e lasciame 'n pace!»

«T'ho già detto che al camposanto non te ce vojo portà. Ma non lo vedi che cosa stai facendo?» l'argine si è rotto, e le parole gli esplodono in bocca senza che riesca a fermarle. La vena sulla tempia si è gonfiata. «La verità è che te piace esse' ridotto così. Non vedi l'ora de attirà l'attenzione sul povero Tito, abbandonato a se stesso, pieno de problemi. Nessuno c'arriva, però. A te piace sguazzà dentro 'sta merda. T'hanno quasi ammazzato, Tì, è vero, ma ti sei mai fermato a riflette' su tutte le scelte c'hai fatto da quel momento in poi? La violenza l'hai sentita sulla pelle, ed è diventata parte di te. Pensace. Ti sei scelto un lavoro che odi, e solo perché così puoi compatirti di più. Sei solo perché l'hai scelto tu. Rovini tutto quello che tocchi, perché ormai... ormai sei marcio dentro —»

«Vattene» sibilla Tito tra i denti, gli occhi iniettati di sangue. Gli ha afferrato il braccio, tentando di allontanare la mano dal proprio mento, ed ora sono bloccati in un intreccio di arti.

Ha ragione, ma non lo ammetterà. Tito disprezza Emiliano, ma anche se stesso. Non riesce ad impedirselo.

«Butta quella roba» insiste l'altro, «te lo giuro su tutto ciò che ho di più caro al mondo, Tito — se vai avanti, non me vedi più. Esco da quella porta senza guardamme indietro, e a quel punto sarai solo sul serio.»

Tito lo strattona un'ultima volta, spingendolo via. Emiliano barcolla. Per un attimo, mentre l'altro lo osserva, respirando pesantemente, crede di aver vinto. Vede la testa bassa; i pugni stretti lungo i fianchi; il petto, diviso in sezioni dalle costole, riempirsi e svuotarsi ad un ritmo sovrumano, quasi doloroso. Crede di avercela fatta, di averlo fermato.

«Esci, allora» dice Tito, cogliendolo di sorpresa, «e non tornare.»

Annuisce. Lo fa lentamente, concedendogli qualche secondo per cambiare idea, per chiedergli scusa, pregandolo di restare, ma non lo fa.

«Eroinomane del cazzo!» urla, abbastanza forte da farsi sentire dall'intero condominio. Le parole scivolano lungo la tromba delle scale, rimbalzando su tutti i muri. Chissà cosa pensa Edoardo L., adesso.

Come promesso, sbatte la porta e non si guarda indietro.

Tito, nel mezzo del salone, lo guarda andare via e grida. Grida con tutto il fiato che ha in corpo, esorcizzando la rabbia penetrata sotto la pelle; poi, colto da un improvviso bisogno di rompere qualcosa, di esternare ciò che prova dentro, afferra il bonsai mezzo morto sul tavolo, circondato da foglie secche che continuano a cadere, spogliando i rami. Il suo pepe di Sichuan difettoso.

Stringe il vaso di terracotta e lo lancia contro il muro, guardandolo ridursi in pezzi. Ettore, spaventato, infila la coda tra le gambe e scappa in camera da letto. Anche Tito vorrebbe scappare, correre via, rifugiarsi in un posto sconosciuto, ma non lo fa. Si rigira il cubo marrone nel palmo della mano, ammorbidito dal tepore. Attorno a lui, la pittura sulle pareti e le mattonelle sono macchiate dalle zolle di terra del bonsai. Si dirige in cucina, frugando tra le credenze impolverate.

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