4. SIMPOSIO.
Il bonsai sta morendo. Lungo il tronco, ancorati ai rami sottili e protesi verso l'alto, incrostati sulle minuscole foglie, gli afidi ne divorano l'essenza, scavando, trafugando, forando. Sono parassiti mangia carne che brulicano e masticano, spogliandolo della chioma. È un pepe di Sichuan, un essere grazioso, dinoccolato, elegante, abbastanza forte da resistere alle lievi gelate invernali. Roma, però, è uggiosa, non fredda: l'umidità unge i marciapiedi e penetra nelle ossa, accompagnata da temporali che spezzano il cielo e lo fanno colare lungo le facciate degli edifici, otturando le fogne ed allagando le strade. Creando code interminabili sulla via del mare. Il clima di Roma sta uccidendo il suo pepe e Tito, incapace di rimediare, è complice dell'omicidio: lo guarda appassire, solo, sistemato sul davanzale dell'unica finestra della cucina, tentando di esporlo alla manciata di raggi che rompono la cortina di nubi addensate sulla città. Lo osserva appassire, impotente, e vorrebbe gridare. Vorrebbe raccoglierlo - con le foglie essiccate, i rami anneriti e l'orribile vaso in terracotta dalla base scheggiata - e portarlo al negozio, chiedendo indietro i propri soldi: l'hanno truffato, vendendogli un bonsai difettoso, malato, l'unico pepe troppo fragile per affacciarsi sulle strette vie che irrorano Tiburtino.
Tutto ciò che fa, però, è studiare la propria immagine, riflessa sulle ante a specchio dell'armadio: la sua camera, levigata da sfumature color seppia, dalla luce soffusa proveniente dal lampadario, è un dipinto dalla cornice spessa. Una piatta, bidimensionale, tetra scena di genere in cui il letto è un rettangolo sfatto dagli angoli curvi ed il tappeto una striscia ruvida che gli graffia le piante dei piedi. Un quadro dentro un quadro, un espediente artistico: un uomo ordinario, sfinito e spigoloso che studia il volto incavato ed esangue di un altro uomo ordinario, con la stessa faccia, la stessa espressione, le stesse mani parzialmente coperte dai polsini aperti della camicia.
È la sua camera di Vincent: la sua accozzaglia di sedie spagliate, solitudine abissale e pareti collassate. L'autoritratto della sua disperazione, firmato 5 novembre 2019.
Ci ha provato a fare l'uomo. Ad apparire come un adulto, con il volto pulito, l'abito buono e la barba dimenticata nel lavandino, accanto alla lametta sporca; eppure, a ricambiare il suo sguardo colmo di rammarico e frustrazione, c'è lo stesso disastro che vede ogni mattina, trascinandosi di fronte allo specchio del bagno.
È una bella camicia, quella che indossa: ha il colletto inamidato e profuma di lavanderia, di panni appena stirati, ma le spalle si arricciano ed il primo bottone - un minuscolo cerchio di plastica perlacea - scende lungo il petto, scoprendo le linee dure delle clavicole. I bordi sfiorano il cavallo dei cargo, trasformandola in una talare dalle rifiniture azzurre, nascondendo un corpo martoriato e prosciugato, fatto di profondi solchi che scivolano fino all'inguine. È una messa in scena, e Tito sente la pelle fremere, tentare di mutare e liberarsi, così, del cotone che gli irrita il collo, abbandonando sul pavimento quell'assurda, ridicola copia di sé; quell'ibrido che indossa il suo corpo, lo muove, lo interpreta, spingendolo da una parte all'altra del minuscolo palco su cui deve esibirsi.
Nello specchio non c'è lo stesso Tito che ha indossato quella camicia al matrimonio di Milo - immerso in un marasma di ospiti dai sorrisi rigidi e dalle cravatte allentate - o al sessantesimo compleanno di sua madre, circondato da zie coperte da ceroni di fondotinta e mariti disinteressati. A guardarlo è un Tito diverso, più vecchio ma, paradossalmente, ancora ragazzino, ancora scapestrato ed in disordine, con il taglio di capelli irregolare e l'espressione ostile — un adolescente che fruga tra i vestiti eleganti del padre. Una commedia per cui ridere fino a perdere il fiato, ecco cos'è. La vecchia vestita da ventenne che scatena il sentimento del contrario, facendosi prendere per il culo da chi parlotta alle sue spalle.
Ettore, sulla soglia della porta, guaisce, agitando la coda. Cerca di attirare l'attenzione di Milo. L'impeccabile, diligente Milo, con i calzini abbinati al cinturino dell'orologio e lo sguardo serio, imperturbabile, attraente.
Tito scopre i denti, soffocando una risata, e inizia a sbottonarsi la camicia, un'asola dopo l'altra. La getta sul letto, guardando la pelle opalescente accartocciarsi sul materasso, e si infila una maglietta a maniche corte, afferrando il giaccone verde appeso al termosifone. Il tessuto, contro la schiena, è piacevolmente tiepido. Sente i passi di Milo trascinarsi lungo il corridoio, le suole rigide delle sue scarpe che colpiscono il pavimento in finto marmo, e poi, simile ad una visione, lo scorge emergere dalla penombra, accarezzando il muso corrucciato di Ettore. Si poggia contro lo stipite, incrociando le braccia al petto.
«Ma sei sicuro che quel bonsai sta bene? C'ha tutte le foglie gialle. E i rami se stanno 'ammoscià». Lo studia, lasciando correre lo sguardo sugli scarponi abbandonati ai piedi del letto, sulle chiavi di casa agganciate all'anello di metallo che pende da una delle tasche dei cargo, piene di scontrini scoloriti e monete che tintinnano. La camera si riempie del delicato odore di tè. Tito chiude gli occhi, inspira: riesce quasi a coglierne il calore. Gli pizzica le narici, scivolando al centro del petto scarno. È la dolcezza di un ricordo familiare, della consuetudine, della routine. «Certo che te ce potevi impegnà 'n po' de più a sceje 'sti vestiti.»
Si avvicina al letto, raccogliendo la pelle di serpente che giace tra le lenzuola. L'ha riconosciuta, la camicia, Tito glielo legge negli occhi: attraverso lo specchio, attento a non farsi cogliere in fallo, lo vede sedersi, ripiegandola con cura. Prima una manica, poi l'altra. I pantaloni del completo blu si sollevano di poco, stringendosi sulle ginocchia e scoprendo le caviglie. La ricorda mentre, bugiardo e stolto, giurava fedeltà eterna ad una donna che ama ad intermittenza. In fondo, l'unica devozione che conosce è quella verso se stesso, da egocentrico, megalomane bastardo qual è.
«Preferisco sta' semplice» ribatte, infilandosi gli anfibi. «E pe'l bonsai me tocca pià n'insetticida, so' sicuro che c'ha i parassiti» si sistema la giacca, sollevando il colletto, e si avvicina a Milo, strappandogli la camicia dalle mani, «anzi, prova a parlacce, che tra animali della stessa specie ce se capisce, no?»
Milo ride, lasciandosi cadere sul materasso: il filo dei bottoni si tende, costellandogli l'addome di minuscoli fori che espongono la carnagione abbronzata. Riflessa nello specchio c'è ancora la sua camera di Vincent e Milo, serafico e felino, con il corpo che si disfa su lenzuola che non gli appartengono, è Gauguin, il suo amico più caro e, allo stesso tempo, come il retro di una maschera, la nemesi più agguerrita, in attesa di ricevere una parte di lui. Lo detesta, eppure non può separarsene. Milo è cresciuto, si è fatto adulto, ed ora che la balbuzie è scomparsa, ora che il suo corpo è mutato, battezzandolo uomo, Tito non è altro che un pezzo d'arredo, un cane zoppo da trascinarsi appresso per catturare gli sguardi dei passanti, mostrando il suo buon cuore, il suo senso di responsabilità. È l'azione caritatevole con cui, peccatore di basso rango, cerca di lavarsi il capo, chiedendo perdono. Prova compassione, e Tito la compassione non l'ha mai sopportata.
L'odore di peperoncino, ammortizzato dalla menta, gli punge la lingua. Si china sul comodino, tirando l'ultima striscia di zucchero senza aforisma, e la traccia di disgusto emanata da Milo si fa prepotente, bucando la coscienza di Tito fino alla carne viva, all'antro fragile e sensibile dove accumula tutto ciò che sente. Lui non lo sa com'è. Non sa cosa si prova a toccare con mano le emozioni della gente, pure e travolgenti; a percepire l'amore, il dolore, la frustrazione, la rabbia repressa che scalcia e si agita, tentando di uscire, la disperazione che stringe le costole e scuote la cassa toracica fino a far rimettere l'ospite. A fargli sbrattare sul pavimento della camera buia tutte le parole, le lacrime, i rimpianti e i sensi di colpa. C'è un muro tra la coscienza e l'io razionale, schermi in titanio che mai andrebbero violati, che permettono all'uomo di mantenere la propria sanità mentale, frenando l'irruenza del subconscio; ma Tito, che ne fiuta le crepe ed i punti deboli, li sente franare sotto le dita.
«Ancora co' sta merda?» lo riprende Milo, impassibile. Il suo volto è un pezzo di marmo livellato e senza spigoli. «Ste cazzate falle quando stai da solo.»
Si rimette dritto, passandosi una mano tra i boccoli ramati. L'altra, abbandonata sul materasso, scivola verso la testa di Ettore, con il respiro pesante e la lingua che penzola tra i denti ingialliti. Tito non lo sente, il suo odore, ma suppone sia felice, perché la presenza di Milo riaccende in lui l'euforia che aveva da cucciolo, quando mordeva le gambe del tavolo ed abbaiava al proprio riflesso, come continua a fare Tito. Scuote la testa, soffocando una risata: in fondo, "Levriero" gli si addice.
«Muoviti, invece de da' fiato alla bocca. N'hai detto che volevi arrivà puntuale?»
Il silenzio che segue è teso, abbastanza profondo da permettergli di distinguere il suono metallico delle chiavi che urtano l'una contro l'altra; delle unghie di Ettore che grattano il pavimento; dei denti di Milo che digrignano, mozzando una risposta piccata. Si fa giudice, giuria e sentenza: lo mette alla gogna, offrendogli un processo in pubblica piazza, di fronte al cane e al bonsai in procinto di collassare, dall'alto della sua perfezione e dell'insana ossessione che si trascina dietro come un drappo. La testa di Tito cade per terra e gli rotola ai piedi, con le labbra piegate dal riflesso della lama che cade, inarrestabile. Milo, per lui, è una ferita che prude, aggiungendo nuove cicatrici al volto già deturpato.
Chiude a doppia mandata, colpendo la porta con lo scarpone. Dall'altro lato, Ettore piagnucola, pregandolo di tornare indietro, ma l'antro arancione dell'ascensore è pronto ad accoglierli, inghiottirli e sputarli di fronte al portone. Sono due polaroid, due dipinti distinti, simbolo della schizofrenica euforia dell'autore: Milo, con il completo stirato ed il passo sicuro, ha lo stile e la raffinatezza del bianco e nero; Tito, lurido e trasandato, con le labbra sottili che si increspano ad ogni respiro, ha la caotica confusione dei colori fluorescenti, dei bastoncini colorati che, spezzando il buio di una discoteca, feriscono gli occhi.
Durante il viaggio in auto, mentre i copertoni rigano l'asfalto e la vernice metallizzata riflette la luce dei lampioni che ronzano a mezz'aria, simili a lucciole senza ali, Tito tiene la testa poggiata sul finestrino opaco. La radio è accesa, e Lucio Dalla canta La sera dei miracoli. Le parole si disperdono, facendo vibrare il vetro e, con esso, anche la fronte pallida del ragazzo. Scivolano lungo le ossa smussate del cranio, penetrando tra le crepe irregolari che, saldandosi, hanno creato mappe di sentieri, cunicoli e tunnel sotterranei — la planimetria della sua mente, della testa difettosa e dei pensieri frammentanti. Osserva la corsia opposta e le macchine che, pigre, sfilano lentamente: un'infinita coda che, agitandosi, percorre Roma da un capo all'altro.
«So' curioso de sape' come so' diventati tutti» commenta Milo. Ha entrambe la mani strette attorno al volante e, nonostante le sue parole siano dirette a Tito, accartocciato su se stesso contro il sedile del passeggero, il suo sguardo non vacilla, fisso sulla targa dell'auto di fronte. «Credi siano cambiati?»
Non ha voglia di parlare. Non ha voglia di discutere di Lucia e dei suoi dannati libri di Pasolini, o di Nicola e della sua attività di successo, costruita sulle carcasse di ragazzi tormentati fino alle lacrime e sui balbettii insensati di Milo, troppo debole per reagire. Non c'è nulla da dire, né su di loro né sugli altri anonimi fantasmi che, durante il liceo, hanno vagato ai margini della loro esistenza, seduti tra banchi sbilenchi e muri imbrattati di volgari scritte dalle lettere incerte: nella vita, a dispetto degli ostacoli e dei cambiamenti, dei successi sporadici e dei fallimenti continui, le pecore rimangono pecore e i lupi rimangono lupi, anche se più affamati di prima. I cani, invece, si fanno solo aggressivi. È così che funziona: un'equazione infallibile per cui i primi della classe diventano tossici o evasori fiscali, oppure - ancora meglio - trascorrono il loro tempo a sistemarsi i colletti bianchi di fronte a specchi scheggiati. I reietti si nascondono nei loro buchi e si alzano alle cinque di mattina, stravolti, pieni di caffè e sull'orlo di un infarto, con la gastrite che gli consuma lo stomaco rattrappito. Gli stronzi, invece, continuano a calpestare i corpi dei poveracci che arrancano, scalando la piramide sociale finché non incontrano qualcuno di più grosso di loro, e allora si stendono a pancia su mugolando come cuccioli appena nati. Una cosa in comune, però, ce l'hanno, ed è ciò che lui e Milo stanno per sperimentare, stipati nella stessa stanza con gente che non vedono da anni: la pretesa, la finzione, lo spettacolo in pompa magna mentre le loro esistenze, quelle autentiche, marciscono dietro le quinte, coperte da sorrisi che si aprono sui denti rifatti. Tito non ha la pazienza di fingersi inferiore, di tenere il passo ed ascoltare tutte le cazzate di cui lo ricopriranno.
«No» risponde seccamente, continuando a guardare il bordo del marciapiede, un'infinita striscia grigia che costeggia la strada.
«Non sembrà troppo entusiasta» lo provoca Milo, cogliendo il suo profilo con la coda dell'occhio. Piegato in quel modo, con le spalle curve e la testa in avanti, somiglia a quegli animali scheletrici e affamati che si rifugiano tra la boscaglia, tentando di non farsi divorare. «Hanno prenotato un bel posto, una sorta di sala ricevimenti.»
«Spettacolare. Ci sarà anche una scalinata? Un bel tappeto rosso su cui sfilare? Cristo santo, me pare de esse' tornato alla festa dell'ultimo anno. Te la ricordi? Quel verme de Marco se ne andava in giro a sbattere in faccia a tutti l'ammissione a medicina. Erano pieni di sé. Che merda.»
Milo sospira, permettendo ad un angolo delle labbra di sollevarsi: il cinismo di Tito lo diverte, e nonostante il fondo di verità sepolto sotto il suo sconnesso sproloquio, la sera della festa è piacevolmente impressa nella sua memoria, etichettata come una delle migliori della sua vita. Non ci pensa spesso, eppure è lì, tenera e flebile, avvolta nell'incertezza e negli ansiti di due adolescenti che, curiosi ed insicuri, sulla soglia dell'età adulta, scoprono per la prima volta il corpo di un altro essere umano.
«Eravamo tutti teste di cazzo a diciannove anni, Tì. A quell'età è normale sentirsi in cima al mondo» gli fa notare. Continua in un sussurro, schiarendosi la gola: «imbattibili.»
«Io non mi ci sentivo.»
«Invece sì» ribatte duramente, «e non erano così terribili. Yuri era simpatico. Beneducato. Uno normale.»
Tito se lo ricorda a malapena, Yuri. Un ragazzo piuttosto singolare, ma allo stesso tempo simile a tanti altri: uno di quelli che, dopo uno sguardo di troppo, sparisce tra le pieghe del mondo, uniformandosi. Ai tempi della scuola andava in giro con un anello di metallo sul labbro ed i capelli biondi costantemente in disordine. Aveva una piacevole pozza di lentiggini chiare sulla tempia, un piccolo cerchio da cui ne sfuggivano alcune, protese verso l'occhio e la guancia. Qualche volta, mentre attendevano in corridoio il proprio turno alla macchinetta del caffè, si erano uniti a lui e al ragazzo che portava sempre con sé, un altro volto anonimo che frequentava una delle classi adiacenti alla loro.
«È vero» ammette con riluttanza, sfregando gli scarponi contro il tappetino. L'ha sporcato di fango, ma il suo interesse è marginale. «Sai che fine ha fatto?»
«No, però possiamo chiederlo a Lucia.»
«Perché a Lucia? Era la rappresentante di classe, mica la comare della scuola.»
Milo accosta, parcheggiando tra il retro ammaccato di una Renault e un motorino sistemato di traverso. Si slaccia la cintura, spegnendo il motore. La musica si arresta di colpo e Tito sussulta quando, al suo posto, sente il lieve ronzio del silenzio.
«Lei e Yuri si sono frequentati» gli dice, «anche se non credo stiano ancora insieme. Se non sbaglio m'ha detto che sarebbe venuta col marito. Oppure col compagno. Non lo so, ad un certo punto mi sono distratto.»
Davanti a loro, ad attenderli, c'è l'entrata di un hotel a quattro stelle. Tito intravede il bancone della reception e, attorno ad esso, come api operaie che volano attorno al nido, sistemando le celle ammaccate, il personale cammina lentamente, il logo dell'albergo appena visibile sul fronte delle camicie.
Sghignazza, osservando Milo allacciarsi la giacca del completo: è curioso il modo in cui, improvvisamente, sia in grado di integrarsi ed entrare a far parte del costoso universo che stanno per invadere, creature di un altro pianeta, con altri usi, un'altra lingua, valori differenti. Milo è un trasformista, abile nel manipolare la gente e fargli credere qualsiasi cosa desideri, con quel suo bel sorriso ed il portamento elegante. Tito, invece, lo segue come una guardia del corpo.
«Strano che non c'hanno chiesto soldi» commenta, facendo un cenno con la testa alla graziosa ragazza alla reception.
«L'hanno fatto» precisa Milo, strattonandolo per un braccio verso una delle sale laterali, «ho pagato io per tutti e due, dato che tu eri sparito.»
«Che uomo premuroso. Ti ringrazio, amò, te devo 'na cena.»
Milo sbuffa una risata, attirando l'attenzione dell'addetto dell'hotel appostato accanto all'entrata. Dietro di lui, due porte a vetri lasciano intravedere la sala. Non è molto ampia, ma è comunque abbastanza grande da ospitare qualche tavolo ed un buffet. Lo sguardo del ragazzo si posa prima su Tito, poi su Milo, poi di nuovo su Tito. È fisso, insistente, inespressivo — si sta costringendo a guardarlo, a tenere sotto controllo i propri pensieri, forse per cortesia personale o, più probabilmente, per paura di essere licenziato. Ipocrita del cazzo. Tito gli riserva un sorriso teatralmente ampio, piegando un po' la testa con quel suo fare provocatorio e fastidioso.
«Buonasera, signori» inizia il ragazzo, mostrandogli la cartellina che tiene tra le braccia, «avrei bisogno dei vostri nomi, è una festa privata.»
«Tito Bossi ed Emiliano Terranova. Una parte de me spera di non esserci su quella lista, così posso tornà a casa a guardà la partita.»
Il ragazzo fa un distratto verso d'assenso, trascinando la punta della penna sul foglio. Gli mostra la porta, facendogli cenno di andare, e Tito affonda le mani nelle tasche, esibendosi in un inchino. Milo lo trascina per il collo della giacca, spingendolo dentro, e ad accoglierli, appena messo piede sul pavimento tirato a lucido, è il braccio pallido di Lucia, che schizza in aria come una freccia appena incoccata. Il mormorio in sala, però, non si ferma, avvolgendo i tavoli e le figure di spalle come opache nuvole di pulviscolo. Frasi masticate e parole storpiate da accenti più o meno forti; affermazioni stroncate a metà; domande a cui seguono risposte concitate. L'odore di zenzero è nauseante. Tito lo sente invadergli le narici e sciogliersi sulla lingua. Arriccia il naso, coprendosi la faccia con l'incavo del braccio: la striscia di coca, a quanto pare, non è servita. Le dita di Milo vanno a posarsi sulla sua nuca in un gesto di conforto, e quando lo percepisce teso, con i muscoli rigidi, si avvicina al suo orecchio.
«Vuoi andà via?»
Tito morde la manica, lasciando un'impronta di saliva sul tessuto verde militare. Scuote la testa, sospirando.
«No, annamo, ormai stiamo qua.»
Lucia ha il braccio ancora alzato, una boa in mezzo al mare che lampeggia per i poveri pescatori dispersi ed in balia delle correnti. I bracciali intorno al polso sono scivolati verso il basso e l'allegria che illumina il suo volto da trentenne in carriera, al loro arrivo, si spegne per un solo istante, sostituita dalla sorpresa. Tito è improvvisamente conscio di sé, del suo aspetto, del contrasto con Milo, del volto deturpato e della palpebra che si contrae per la stanchezza. Ha catalizzato l'attenzione del tavolo, di Lucia e della compagnia che si porta al seguito, una donna dai tratti familiari - che non riesce a collocare - ed un uomo dagli occhi incavati ed i lineamenti severi. Il silenzio dura solo una manciata di secondi, il tempo necessario affinché Lucia elabori le informazioni e torni ad essere la solita, cortese ragazza di sempre.
«Ragazzi, è un piacere vedervi» dice, indicandogli i posti liberi, «sedetevi, dai. Ricordate Roberta? Era in classe con noi.»
Roberta, d'un tratto, diventa la sedicenne con l'apparecchio che tentava di saltare le lezioni di educazione fisica. Tito non l'ha mai biasimata: non erano altro che ore interminabili di bufali intenti a sbuffare e prendersi a testate durante crudeli partite di pallavolo. Competitivi come chi cerca disperatamente di dimostrare qualcosa. Le stringono la mano e lo sguardo di Tito, mentre va a sedersi all'altro capo del tavolo, cade sulla borsa aperta di Lucia. Intravede il dorso di un libro e sorride mestamente: Pasolini è stato messo da parte. Tra le cianfrusaglie ed il portafoglio coglie la copertina rosso ciliegia di uno dei romanzi di Murakami.
«Questo è Daniele, mio marito» dice, presentandogli l'uomo seduto accanto a lei.
Stringono la mano anche a lui. La prima cosa che Tito nota è la sua presa salda. La seconda, invece, è l'insistenza con cui Daniele continua a guardarlo, privo di contegno o buone maniere. Tito lo ricambia, sgranando gli occhi scuri, coinvolgendolo in una sfida silenziosa che vedrà il perdente inginocchiarsi a terra implorando pietà. (Guardami. Guarda che mostro che sono. Dimmelo in faccia, stronzo). Milo tamburella le dita sul tavolo, distraendoli.
«Allora avevo capito bene» dice, rivolgendosi a Lucia, «da quanto siete sposati?»
«Quasi due anni.»
Lucia è una donna da copertina, una di quelle che finiscono sulle prime pagine dei giornali d'economia, con la camicia stirata ed il cardigan color pastello con le iniziali ricamate sui polsi. Tito si chiede quanto, dell'immagine di fronte a lui, sia carta stampata e quanto, invece, corrisponda a verità.
«Ah, come Milo e la moglie, allora» si intromette, «potreste organizzare un'uscita a quattro.»
Le espressioni di Lucia e Roberta si fanno confuse, le fronti aggrottate e le sopracciglia ad ali di gabbiano che spiccano il volo, puntando all'attaccatura dei capelli. È una visione esilarante e la bocca di Tito, tentando di sopprimere una risata, si piega in modo strano, catturando la sgradita attenzione di Daniele.
«Sei sposato?» domanda Roberta, sorpresa.
Milo annuisce. Tito gli afferra il braccio, sollevandogli la mano per esporre la fede. Gli piace metterlo in mostra: quando Milo sale sul palco, gli spettatori lo osservano in silenzio, attendendo le sue battute. Nessuno si concentra su di lui. Tranne gli stronzi come Daniele, con il fisico da atleti falliti ed i sorrisi soddisfatti dei bulli che godono nello spingere la testa dei ragazzini nella tazza del cesso.
«È così strano?» domanda lui, divertito.
Le guance di Roberta, mentre scuote la testa, scompigliando il caschetto che le incornicia il viso, si tingono di rosa. I denti, grazie all'apparecchio portato durante il liceo, sono perfettamente dritti e si mettono in mostra per un solo, breve secondo, quando la lingua va ad umettarle le labbra.
«No, per carità, è che...» esita, piegandosi in avanti per cercare il sostegno di Lucia, che interviene prontamente.
Ride, imbarazzata, ma le sue guance rimangono pallide.
«Non vi arrabbiate» inizia, sollevando le mani, «ma eravamo convinte che... insomma che voi... sapete, al liceo eravate inseparabili, e quando ci siamo sentiti per organizzare la serata ho pensato...»
«Puoi comprare una vocale, se vuoi» interviene Tito, in attesa.
Ha l'impressione di sapere quale sarà la prossima affermazione della donna: in fondo, le voci sulla natura del loro rapporto correvano già ai tempi della scuola, accelerate dalle lingue delle pettegole e dalla malcelata curiosità dei ragazzi, troppo virili per chiedersi apertamente cosa si provasse a farsi fare una sega da un amico. Nonostante fossero a conoscenza dei sussurri che sembravano accompagnarli dovunque andassero, non avevano mai sentito il bisogno di correggerli.
«Pensavamo foste... qualcosa, ecco. Una coppia? Scusate.»
Tito butta la testa all'indietro, ridendo. Accanto a lui, il braccio di Milo si protende ed il gomito si va a poggiare sullo schienale della sua sedia. Per un momento il chiacchiericcio dei loro compagni, intenti a trangugiare toast al formaggio e macedonie sistemate in ciotole minuscole, sembra spegnersi, forato dall'ilarità di Tito. Poi, però, il silenzio si riassorbe, ed ognuno viene di nuovo risucchiato nella propria scena di genere.
«Non ve dovete scusà, mica è un insulto» le tranquillizza Milo.
«E un fondo di verità c'è» aggiunge Tito.
Il bastardo accanto a Lucia non dice nulla, ma le sue spalle si irrigidiscono e la pelle abbronzata inizia ad emanare un lieve - seppur persistente - odore di candeggina. Le narici di Tito si dilatano: la puzza lo attrae in modo quasi maniacale, aizzandolo come un segugio. Se possibile, le espressioni delle due donne si fanno ancora più confuse, e Tito si rivolge direttamente a Roberta, girandosi verso di lei. Quando prende coscienza del suo aspetto, le ciglia ispessite dal mascara fluttuano verso il basso.
«Non eravamo una coppia, ma Milo è stato uno dei migliori orgasmi della mia vita» afferma, provocatorio.
La sua voce è calma, ed il volto di Roberta si tinge di un'intensa tonalità di rosso. Ama il modo in cui la schiettezza crepa le maschere delle persone, riducendole in pezzi. Adora vederle imbarazzarsi per qualcosa di così insignificante. Il tanfo di candeggina diventa insostenibile, e Tito è costretto ad abbassare un attimo la testa.
«...oh» si limita a mormorare Lucia.
Sono state loro ad iniziare il gioco, ed ora non gli resta altro che ritirarsi.
«Mai stati innamorati, però. Milo è troppo acido. E tradisce facilmente.»
Milo alza gli occhi al cielo, grugnendo. Ognuno dei burattini intorno a loro lascia che i propri fili vengano tirati — una stretta di mano di qua, una pacca sulla spalla di là, due chiacchiere, un invito a cena. Hanno lo spessore della carta, strizzati nei loro abiti migliori e coperti di profumo.
«E lui è troppo stronzo ed egocentrico per avere una relazione duratura» ribatte.
«Egocentrico, eh? Che coraggio che c'hai.»
«Quindi vi limitate ad andare a letto insieme mentre tua moglie ti aspetta a casa?»
Alle parole di Daniele, ruvide, il loro battibecco si interrompe. Ha una voce profonda ma priva di fascino. Lucia gli rivolge uno sguardo sconcertato, colta di sorpresa, e Tito scuote la testa, divertito. Milo lo guarda per un lungo istante, lasciando che le iridi verdi lo riducano ad un essere infimo, un granello di sabbia in mezzo ad una spiaggia: ha la straordinaria capacità, quando ti guarda in un certo modo, di farti sentire insignificante, indegno di stare al mondo.
«No» gli risponde, calmo, «è successo solo una volta, da ragazzi. Non che siano affari tuoi, comunque.»
«Io ero quello strano, al liceo» aggiunge Tito, sorridendogli, «Milo balbettava parecchio. Nessuno dei due era mai stato con una ragazza, così, finita la scuola, ci siamo detti: "perché no"?»
«Perché no, certo» ripete lui, percorrendo la cicatrice di Tito dall'inizio alla fine. Ogni parola è una goccia di candeggina spruzzata sulla sua faccia rovinata. (Chiedimelo, abbi il coraggio).
Roberta allunga una mano per afferrare il bicchiere di vino bianco, e quando lo raggiunge per poco non lo fa cadere.
«Vi stiamo mettendo a disagio?»
«No, no, per carità» afferma Lucia.
Daniele, per la prima volta da quando si sono seduti al tavolo, distoglie lo sguardo da Tito, posandolo su Milo. Lo squadra, studiandolo, e poi, dando fiato al cervello rovinato dall'erba, dice: «perché hai sposato una donna se sei frocio?»
Roberta tossisce e Lucia, senza parole, tira indietro la sedia, colpendo la spalla del marito. È indignata, e Tito si chiede come una donna come lei - colta, altruista, sensibile - possa essere finita con una scimmia del genere.
«Scusatelo» mormora, imbarazzata.
«Non preoccuparti.»
Milo poggia un gomito sul tavolo, porgendo la mano a Tito. Il ragazzo fa scivolare il palmo contro il suo, intrecciando debolmente le loro dita. La puzza di candeggina gli fa venire i conati.
«Hai un problema con i froci?»
«No, finché non ci provano con me.»
«Tranquillo, non ci proverebbero co' te manco se fossi l'ultimo uomo sulla Terra.»
La faccia di Daniele si congestiona. Il mondo è pieno di gente come lui. Il ventunesimo secolo è maturo, ma le mele marce continuano a cadere dai rami, schiantandosi al suolo e rovinando il terriccio. Istillano veleno, facendo appassire le radici dell'albero e dando vita a piccoli, disgustosi funghi che vanno a macchiare i bordi delle pietre come la peggiore delle malattie. Tito è stanco. È stanco di sentirli parlare, di percepire la traccia di candeggina che lasciano dietro di sé, di vederli soffermarsi su di lui o su chiunque altro, facendo supposizioni, giudicando, ridendo. Gente che ha la forza ed il coraggio di disprezzare, circondata da una folla adorante, mentre Tito spreca il proprio tempo cercando qualcuno in grado di amarlo. Lui e Milo non si sfiorano da quando avevano diciannove anni ed il desiderio impellente di lasciarsi andare, ma le loro dita intrecciate e la conversazione che stanno affrontando non hanno nulla a che fare con il controverso rapporto che condividono.
Milo sfrega il pollice sul dorso della sua mano, e Tito trattiene un sorriso divertito.
«Usa ancora la parola frocio e te apro la faccia a metà» aggiunge.
«Come l'amico tuo?»
(Codardo).
Lucia batte una mano sul tavolo, paonazza.
«Daniè, continua così e stanotte trovi un altro posto dove andare a dormire. Te lo giuro. Vatti a fare un giro, e se devi comportarti in questo modo evita di tornare.»
L'uomo la guarda, stringe la mascella e si alza con un gesto stizzito.
«Vado a fumare» dice, tastandosi le tasche dei jeans ed avviandosi verso l'uscita.
Non si volta, ma Lucia continua a guardarlo.
«Io...» inizia, coprendosi il volto, «sono mortificata, davvero. Non so cosa gli sia preso.»
Milo lascia andare la sua mano, poggiando l'intero braccio sullo schienale della sedia. Sente le dita giocherellare con la manica del giaccone.
«Non è colpa tua» la rassicura, «piuttosto, toglici una curiosità: che fine ha fatto Yuri?»
Non una bella fine, a giudicare dalla sua espressione. Al nome del ragazzo, le labbra si piegano in una smorfia e le lunghe unghie smaltate si intrecciano ad una ciocca di capelli, portandola dietro l'orecchio.
«Si è trasferito qualche anno fa.»
Roberta scuote la testa, amareggiata, e beve un altro sorso di vino.
«Come mai?»
«Non so se ve lo ricordate... avete presente Giacomo? Al liceo era il suo migliore amico. Due menti affini, sul serio, stavano... stavano sempre insieme.»
Tito torna nei corridoi affollati della scuola, alla campanella appesa al muro, all'interminabile fila di fronte alle macchinette, nonostante il caffè fosse deplorevole. Individua il secondo, anonimo ragazzo incollato al fianco di Yuri e gli attacca una targa con il nome sulla schiena. Ha l'impressione che il racconto di Lucia non abbia un lieto fine, e a confermarglielo sono le dita tremanti di Roberta, intente a tirare un filo che pende dalla camicia.
«Dopo il liceo sono diventati coinquilini» si schiarisce la gola, tossendo, «hanno frequentato ingegneria e hanno aperto una società, sviluppavano apparecchiature mediche o qualcosa di simile, non l'ho mai capito. Poi...» esita un istante, guardando Roberta. Lei, però, non ricambia ed il suo sguardo rimane fisso sulla tovaglia. «Poi Giacomo è... è...»
«Morto» interviene l'altra, «si è ammazzato. Yuri era devastato, così ha deciso di chiudere tutto e trasferirsi. Non è mai stato molto legato alla sua famiglia, perciò non aveva motivo di rimanere. Fine della storia.»
Tito lo sente, il loro dolore. È fresco, sensibile, e gli punge gli occhi, penetrando fino al cervello. È la sofferenza portata da una giovane vita che si spegne, da una persona cara che attacca il telefono e, pochi secondi dopo, si va a schiantare contro un muro a duecentocinquanta chilometri orari, fracassando il parabrezza della macchina. Il vuoto lasciato dal distacco e dalla consapevolezza che Yuri, probabilmente, non si farà più sentire, impegnato a ricostruire la propria esistenza attorno al piccolo santuario eretto per una delle persone che amava di più al mondo. Tito lo detesta, Milo. Lo odia con tutto se stesso, eppure, senza di lui, le sue uniche compagnie sarebbero Ettore ed il bonsai pepe che ha lasciato morire.
Si massaggia il ponte del naso, tentando di calmare il lancinante dolore che gli fa pulsare i bulbi oculari, pronti ad uscire dalle proprie cavità per riversarsi sul tavolo. Milo lo guarda, sospira e si infila una mano nella tasca interna della giacca, estraendone i suoi occhiali da riposo. Glieli porge silenziosamente e Tito, per la prima volta, se li infila senza protestare.
Tra i primi della classe finiti a fumare spinelli ed i reietti nascosti dietro le proprie rocce, ad aver avuto la peggio è stato Yuri.
«Mi dispiace, non avevo idea che... fosse andata così» mormora Milo, piegando il capo.
Lucia scuote la testa, agitando una mano davanti al viso.
«Non potevi saperlo, è stato legittimo chiedere. E poi è passato molto tempo, le ferite si rimarginano.»
Tito, involontariamente, si sfiora la cicatrice che gli attraversa le labbra, sentendo la pelle ruvida ed ispessita. Le ferite si rimarginano, ma non smettono di far male. Lui lo sa; Milo, invece, non può immaginarlo, e si limita ad annuire, mordendosi l'interno della guancia. Si alza, premendo le mani contro il tavolo.
«Vado a prendere da mangiare, volete qualcosa?»
Lucia e Roberta rifiutano, accennando al piatto in plastica di fronte a loro. Milo, invece, solleva lo sguardo, trattenendolo per l'orlo della maglia.
«Quello che prendi tu.»
Il tavolo del buffet è semivuoto: i vassoi argentati si susseguono, riflettendo la luce dei lampadari, e le bottiglie aperte orlano i bordi, minacciando di cadere a terra. I maiali hanno mangiato la sbobba.
Tito afferra due piatti, raccogliendo le briciole lasciate indietro, qualche panino e gli ultimi pezzi di pizza ripiena, scambiando parole di cortesia con una certa Flavia, compagna di un certo Ludovico, «quello con la camicia a righe, vedi, vicino all'entrata?». Tito finge di capire, annuisce e scivola lontano, liberandosi dalla presa di Flavia, fastidiosamente affezionata al contatto fisico.
Sta per tornare al tavolo, quando si sente chiamare. La voce non riesce a riconoscerla, ma gli basta uno sguardo per capire che l'uomo piazzato di fronte a lui, con il volto parzialmente coperto da una curata barba castana, è Nicola. Nicola il Coyote, il ragazzino allampanato con lo sguardo folle che amava tormentare Milo e che adesso ha il suv della Mercedes e la casa al mare. Forse anche una prole di piccoli Satana. Quando si gira, la storia è sempre la stessa: l'espressione di Nicola, quando si focalizza sul suo volto, cambia per una frazione di secondo, per poi tornare a rilassarsi. Gli sorride, e la vena di follia che aveva da ragazzino sembra scomparsa. O forse ha solo imparato a nasconderla.
«Tito!» ripete, come se la prima volta non l'avesse sentito, «Mi sembrava fossi tu. È bello vederti.»
Ipocrita del cazzo. Tito torna a sentire l'insopportabile puzza di zenzero.
«Come te la passi?» continua Nicola, cercando di innescare una conversazione.
«Splendidamente.»
«So' contento. Io sto nel settore dell'edilizia, de sti tempi è dura ma se va avanti.»
Il ragazzo gli sorride. Gli si addice, l'edilizia: tornati indietro di qualche decennio, Nicola sarebbe stato in grado di mandare avanti da solo tutta Tangentopoli.
«Ce sta pure Emiliano? Me piacerebbe salutarlo.»
«Sicuro, sarà felicissimo.»
Lo precede, tornando al loro tavolo. Lascia cadere pesantemente i piatti, accomodandosi. La prossimità di Nicola gli fa rizzare i peli sulle braccia, ma manda giù il disgusto con disinvoltura, spostando la sedia per fargli spazio. Gli occhi di Milo si scuriscono, simili ad un cielo assalito dalle nubi.
«Guarda chi ce sta» lo introduce Tito, «l'amicone tuo.»
Nicola lo guarda, sollevando di poco le sopracciglia. L'ostilità è palpabile, ma decide di ignorarla, andando a poggiare una mano sulle spalle rigide di Milo. Non dovrebbe toccarlo, eppure lo fa. Non dovrebbe parlargli, eppure fa anche quello.
«So' passato per un saluto, come va?»
«Sicuramente meglio di quando stavamo al liceo» si intromette Tito. Lucia e Roberta distolgono lo sguardo: lo sanno, cosa passa per le loro teste. A dire il vero l'unico a non saperlo, in quella sala, sembra essere Nicola, il carnefice di tutti i silenzi forzati di Emiliano. «O te lo sei dimenticato?»
Roberta torna a bere vino. Milo, invece, gli lancia un'occhiata, tentando inutilmente di fermarlo.
«Te lo ricordi quando non facevi altro che tormentarlo?» continua lui, ignorandolo. Nicola è mortificato. Forse è cambiato davvero. Forse, adesso, è un uomo onesto, un buon padre, un essere umano dignitoso, ma non gli interessa. «Te sei scusato, almeno? Vieni qua a fare il gentiluomo, a salutare, ma gli hai mai chiesto scusa? L'hai fatto sentire miserabile, te lo ricordi? Quando lo perculavi senza sosta, al p-p-povero Em-m-miliano. Quando lo chiamavi demente, mentecatto, mongoloide? Eri un essere spregevole, e adesso vieni qua, con i tuoi appalti del cazzo, con la giacca da du' piotte, co' sto sorrisetto da amico d'infanzia, quando per poco non l'hai fatto finire in un fosso senza uscita, al d-d-disagiato d-d-de m-m-merda.»
Nicola ha la bocca spalancata ed il colore sembra essere defluito completamente dal suo viso. La gente intorno a loro ha smesso di parlare, e solo in quel momento Tito si rende conto di aver alzato la voce. Milo non dice nulla, limitandosi a sospirare, a stringere il bordo del tavolo e ad alzarsi. Tito si passa le mani tra i capelli corti, digrignando i denti.
«Cazzo» borbotta, «scusate.»
Lo segue, dando una spinta a Nicola, che si lascia spostare come una bambola di pezza. Attraversa la sala a grandi passi, afferrando la porta in vetro prima che possa chiudersi. La sua imitazione è stata spietata, crudele, e come spesso accade nel solitario universo di Tito, ha parlato senza pensare. Questa volta, però, ad andarci di mezzo è stato Emiliano, e non l'Emiliano adulto, quello indistruttibile, il traditore compulsivo che sta per diventare padre; no, ad essere ferito è il Milo diciannovenne, il suo migliore amico, la sua prima volta, l'unico in grado di arginare la bruciante rabbia che sentiva da adolescente. Lo ferma nella hall, afferrandolo malamente per un braccio e tirandolo indietro. Milo barcolla, spaesato, e Tito si sente morire quando, nel suo sguardo, coglie tutta la vulnerabilità che da giovane gli ha spezzato la voce.
«Milo...»
Lui si scosta.
«Sto b —» si ferma, prendendo un respiro profondo, «sto b-b —» si preme una mano sulla bocca, lasciandosi andare ad un suono soffocato.
Tito gli afferra il viso, avvicinando la fronte alla sua.
«Mi dispiace tanto.»
Lui annuisce, ma non dice nulla: teme che la sua voce si rompa di nuovo e che questa volta non ci sia verso di rimetterla insieme.
Quando escono l'oscurità è liquida, vernice fresca che gli scivola addosso, seccandosi sui vestiti. Daniele è lì fuori, sul marciapiede, intento a dondolarsi come un ragazzino. Accanto a lui, con una sigaretta tra le dita e la lingua avvolta attorno alla discussione che stanno intrattenendo, c'è l'uomo che Flavia gli ha indicato al tavolo da buffet. Tito non ricorda il suo nome, ma è certo che non scorderà mai quello di Daniele, né la sua faccia nel momento in cui, passandogli accanto, afferra il mento di Milo, costringendolo a girarsi per lasciargli un umido, scoordinato bacio sulla bocca. O, almeno, questa era l'idea, ma la presa sulle guance del ragazzo è forte e le labbra di Tito finiscono per scontrarsi sui suoi denti. Milo lo capisce, gli stringe la nuca per un secondo e poi, scostandosi, va ad aprire la macchina. Tito sputa accanto alle scarpe di Daniele, soddisfatto.
«Stronzo» gli dice, iniziando a ridere istericamente.
Monta in auto e l'ultima cosa che sente è la voce acuta di Daniele che gli grida di andare a quel paese. Tito preme il dito medio contro il finestrino, accendendo la radio. Gli 883 li accompagnano fino all'appartamento sudicio del ragazzo, colmando il silenzio teso dell'abitacolo. Appena entrati, Ettore si accuccia accanto a Milo, rotolandosi sulla schiena per offrirgli il ventre, la coda impegnata in una danza frenetica.
«Puoi prendere il divano o dormire con me, c'è abbastanza spazio per entrambi. Come preferisci.»
Milo gli rivolge le spalle, prendendo un respiro profondo prima di rispondere: «sto sul divano.»
Tito esita, una mano sollevata a mezz'aria e le labbra schiuse. Scuotela testa, lasciando ricadere il braccio ed avviandosi verso la camera da letto. (Coglione. Coglionecoglionecoglione). Si spoglia, buttando i vestiti sul pavimento. Le gambe esili, da tossico, tremano sotto il suo peso, facendolo barcollare. L'ultima cosa che vede prima di spegnere la luce e buttarsi sul materasso è la sua camera di Vincent a soqquadro.
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