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2. MILO.




L'alba le accarezza la pelle, tingendole il corpo nudo e le dita intrecciate tra le lenzuola di lino. Il bordo, ricamato d'azzurro, le cinge i fianchi, carezzandole l'addome disteso. Milo, accanto a lei, sdraiato sulla schiena, la guarda con indifferenza: l'orgasmo della notte scorsa gli scivola addosso, intorpidendogli il petto, le braccia, le mani, fino alla punta delle dita contratte attorno al filtro della sigaretta. Si esaurisce velocemente e l'appagamento - la piacevole debolezza che lo ha travolto mentre mormorava frasi sconnesse, sospirando tra i suoi capelli - si trasforma in insoddisfazione. Disagio. Inadeguatezza. Noia. L'eccitazione brucia come un fiammifero nel buio, soffocando in una striscia di fumo che sa di petrolio e delusioni: R. è bella, bellissima, le labbra socchiuse e le lunghe ciocche scure che le accarezzano i seni scoperti, ma Milo, ormai sveglio, le è indifferente. Ha toccato l'apice, immergendovi le mani, ma poco prima della rottura, ad un istante di distanza dall'estasi, è scivolato via, inciampando in un trepidante orgasmo che, consumando il corpo labile, ha lasciato la mente vigile e fredda, mentre le membra incendiavano le coperte sporche. Il sesso ha un odore, e la stanza ne è impregnata. Sulla pelle di Milo, invece, indugia il profumo di R., acido e floreale: penetra nelle narici, scivolandogli nello stomaco in un disgustoso ed insistente conato di nausea. Tutto, attorno a lui, è diventato incolore, e la bellezza di R. è sfumata, anonima, mescolandosi ad una delle infinite albe che bagnano Roma.

Sospira, tirandosi a sedere. R., alle sue spalle, si sveglia lentamente, emergendo dalla nebbia che le appanna la vista. Si tira le lenzuola fino al collo, pudica, come se Milo non avesse già visto ogni parte di lei; come se non le avesse inspirato l'ossigeno dai polmoni e sfiorato le radici dell'anima, celate sotto la carne; come se non avesse assaporato il suono del proprio nome, debole, direttamente dalle sue labbra piene, arrossate dall'intensità del momento. Il sorriso che gli rivolge è sincero, appagato, assuefatto, ed il palmo della sua mano si distende sulla schiena di Milo, catturandone il movimento regolare. Sente la pelle modellarsi sulle vertebre.

«Che fai?» mormora, premendosi contro di lui.

Gli lascia un bacio sul collo, ma Milo si scosta, spegnendo la sigaretta nel posacenere di vetro sul comodino. Il suo profumo è insopportabile. Lo sente aderire alla lingua, mescolato al tabacco e alla bile.

«Devo andà a lavoro.»

«Non puoi restare a fare colazione?»

«No.»

Non c'è imbarazzo nei suoi movimenti: quando si alza, allontanandosi da lei e dalle lenzuola umide di sudore, a coprirlo c'è solo la penombra data dalle serrande abbassate. Raccoglie i propri vestiti da terra, infilandosi i boxer e i jeans. Ha voglia di farsi una doccia, di infilarsi sotto il getto d'acqua gelata e dimenticare la notte appena trascorsa, liberandosi delle loro gambe intrecciate; dei capelli di lei che gli solleticavano il viso, impigliandosi alla barba; del suo sguardo stanco ed innamorato, intento a percorrere i piani del petto, delle spalle, spogliandolo per l'ennesima volta.

Ha paura di perderlo, mentre Milo, con la toppa dei pantaloni ancora aperta e la maglia piegata su una spalla, getta il preservativo usato nel secchio, tentando di ricomporsi. Ha l'impressione che tutto, in quella camera da letto, sia destinato a fare la stessa fine: le coperte da lavare, i mozziconi da buttare, i bicchieri vuoti — hanno terminato la propria corsa ed ora, stantii, attendono di essere dimenticati. Vuole andare via, come fa tutte le mattine in cui R. invade i suoi spazi, lo tocca, gli parla. Mancano più di due ore all'inizio del suo turno, ma lui vuole andarsene adesso, senza baci, senza parole di commiato, senza inutili lamentele, senza richieste folli.

Si passa una mano tra i capelli, infilandosi la fede. R. si è coperta, ha le gambe incrociate, le braccia in grembo ed i capelli incastrati nel colletto della maglia. Milo, impietosito, la guarda dalla soglia della porta e per un momento, combattuto, vede Bea ancora addormentata, la mano premuta sul bassoventre - in attesa di un movimento, un battito, un calcio - e gli occhi mesti, che evitano di scavare troppo a fondo.

«Mi dispiace» le dice, avvicinandosi per premerle un bacio sulla fronte, «la prossima volta rimango.»

Sta mentendo, lo sanno entrambi, ma R. finge di credergli. Si lascia ingannare dal desiderio che prova, da quell'amore intenso e passionale che la fa sentire viva, ed annuisce, sfiorandogli il braccio un'ultima volta.

«Torni da lei?»

È orgoglio, quello nella sua voce. Possesso. Milo ne è quasi oltraggiato: R., in quel frenetico succedersi di eventi, non è che una nota marginale. Un punto e virgola, un'ellissi, due giorni a settimana rubati ad una moglie ingenua e fedele. Vorrebbe dirle che la ama. Vorrebbe mantenere le promesse bugiarde che le rivolge ogni sera, rispondendo ai suoi messaggi, ma la verità è che i loro incontri, con il passare del tempo, esaurito il brivido del tradimento, sono diventati superficiali, quasi insignificanti. Un modo per svuotarsi le palle. Non sa che farsene della sua gelosia. Milo non è fatto per appartenere: R., dalla fatidica sera in cui si sono conosciuti, premuti l'uno contro l'altra nel mezzo di un caotico, asfissiante locale di seconda categoria, è stata la sua via di fuga, il drenaggio con cui spurga le scorie del matrimonio, alleviando il bisogno d'aria, di libertà, di sentire la carne pulsare e lo stomaco contrarsi.

Non si impegna, non investe e non costruisce: Milo è una casa d'epoca, una villetta a due piani segnata dal tempo, con le tubature rotte e la facciata scrostata, in un quartiere pseudo-chic di borghesi arricchiti che montano i pannelli solari e tingono le camere di verde tiffany e blu cobalto. Nel giardino, piantato a terra, il cartello "vendesi" è affisso da decenni, perché le assi del suo pavimento tremano, le scale sono troppo ripide e la cantina — cristo, la cantina va sanificata da cima a fondo, sviscerando i nidi dei ragni e abbattendo i muri anneriti dalla muffa. Va demolita, quella villa, ma lui se la gode finché rimane in piedi.

Adesso, invece, piombata giù dal cielo, R. pretende di averlo per sé, e prende a martellate quel cartello che neanche Bea - la dolce, incinta Bea - è riuscita a rimuovere. Le vuole bene. Milo, nel loro matrimonio, è l'ingrato figliol prodigo che, dopo aver sperperato il proprio patrimonio - genetico e non -, fa ritorno all'ovile con la coda tra le gambe ed il volto ingrigito di chi, ingozzandosi fino a scoppiare, è sul punto di morire di fame. Bea, invece, è il padre misericordioso e l'ottimo digestivo che spinge pranzo e cena lungo l'intestino. Sarà un bel bambino, quello che cresceranno

R., mentre lo prega di rimanere, di restare solo qualche attimo in più, tenendole compagnia nel letto sfatto, si trasforma in un disco rotto, e l'attrazione si spegne definitivamente. Non ha intenzione di giustificarsi.

«Te l'ho detto» ripete, spazientito, «devo annà a lavorà.»

«E a tua moglie come la spieghi questa notte?»

«Nun te deve riguardà.»

R. si ammutolisce, stringendo le labbra. Tira indietro i capelli, districandoli. Il tessuto leggero della maglia va a disegnare le sue forme, adagiandosi sul petto accentuato e sulle spalle strette. È diversa da Bea: non ha la sua innocenza, né il corpo asciutto o i corti capelli biondi, acconciati in un caschetto perennemente in disordine. Le sono cresciuti, ora, e le pizzicano la base del collo, costringendola a legarli.

«Ascolta,» sospira ancora, controllando il cellulare, «se sentimo dopo, vabbè? Devo scappà.»

Fa per defilarsi, infilando tutto nelle tasche dei jeans, ma R. lo ferma, afferrandogli il polso.

«Quando la lasci?»

«Ne parlamo la prossima volta, che mo nun c'ho tempo.»

«Ti amo.»

Finge di non sentire: prosegue senza voltarsi indietro, chiudendo la porta della camera, dell'appartamento e poi, giunto all'esterno, anche il cancello. L'attimo di tregua arriva quando, in auto, sbatte la portiera, cogliendo una scheggia del proprio riflesso nello specchietto retrovisore. Si accascia sul sedile bordato di cenere, abbassando il finestrino per respirare l'aria pura e verginale di una Roma che, alle prime luci dell'alba, appare silenziosa. Dall'abitacolo della sua Toyota, parcheggiata sul lato della strada, vede la fila di complessi residenziali prolungarsi all'infinito: solidi, anonimi muri dalle tinte cupe, schierati come soldati sul piede di guerra, con il fucile in mano e gli scarponi stretti fino al polpaccio. Il cemento se la mangia, Roma; la seppellisce sotto i resti dell'impero, sotto le macerie delle architetture antiche, e la avvelena, rendendola una vecchia fragile e deperita. È stata un'amante fedele, ma esaurita la fiamma, spento l'ardore, non è più bastata. Qualcuno si è comportato con lei proprio come Milo si è comportato con R., ancora sdraiata nel letto, a piangere un uomo che non merita le sue lacrime.

L'appartamento di Tito dista venti minuti in auto: li percorre ascoltando la radio, una delle tante, impersonali stazioni che aggiornano sulle condizioni del traffico. La via del mare, a causa dell'acquazzone notturno che ha stravolto la Capitale, è bloccata dai rami caduti in strada. Poca manutenzione. (Tipico). Se non fosse fissato sopra le loro teste, cucito lungo i confini del pianeta, persino il cielo cascherebbe. Sulla Casilina, dalle parti di Torpignattara, c'è un ingorgo: procedere con cautela. Le autostrade sono libere. Grazie per l'attenzione e buon proseguimento.

Sulla stazione successiva c'è una compilation di hit dei primi anni duemila, e Milo canticchia sottovoce, una mano stretta sul volante e l'altra che pende mollemente dal finestrino. L'umidità di inizio ottobre, sulle braccia scoperte, gli fa venire la pelle d'oca, un brivido piacevole e continuo che gli risale il collo, facendogli reclinare la testa contro il sedile.

Per un attimo, quando si attacca al campanello, dando un'occhiata veloce all'etichetta con il nome, si abbandona ad una risata lieve, premendo la fronte sulla porta: pensa all'incontro in ascensore con Edoardo L.; al viso contrito e paonazzo mentre gli riversava addosso tutta la frustrazione accumulata nella sua piatta, indistinta vita da impiegato. A dire il vero, non ha idea di che lavoro faccia, ma non gli interessa: è impegnato ad immaginare la sua reazione se, in quel momento, Milo decidesse di mettersi ad urlare, battendo un pugno sulla porta. Prima che possa farlo, però, Tito gli apre, interrompendo quell'idilliaca visione, e si fa da parte, squadrandolo da capo a piedi. I capelli in disordine, i vestiti sgualciti, gli occhi stanchi.

«La Casilina è bloccata» lo mette al corrente, svuotando le tasche sul tavolo. «Me faccio 'na doccia, te dà fastidio se te rubo qualcosa da mette'? Tanto in caserma c'ho 'n cambio pulito.»

È felice di non vederlo steso sul pavimento, la faccia sporca di vomito, le pupille dilatate e un ago infilato nel braccio. Lo mette di buonumore.

Tito si copre il naso, disgustato, e torna a buttarsi sul divano.

«Puzzi di sesso scadente» dice, cambiando canale, «e di testosterone.»

«Ah, sì?»

Si toglie la maglietta, lascia una carezza sulla testa di Ettore, docilmente arrotolato sulle coperte, ed apre l'armadio, afferrando una tuta ed una felpa con i lacci masticati. Borbotta sottovoce, chiedendosi quando perderà lo stupido vizio di mettere in bocca lacci, penne e matite come un ragazzino esagitato, ma la saliva di Tito non lo spaventa. Ha visto di peggio. Ad esempio, l'ha sentito vaneggiare, allucinato, con la faccia aperta a metà ed il sangue denso come vernice che gli tingeva il collo. Perciò no, la saliva di Tito non gli fa alcun effetto.

Arrivato in bagno poggia la pila di abiti puliti sul lavandino, finendo di spogliarsi. Detesta il sapone al sandalo.

Torna in salone scalzo, con i capelli bagnati che grondano acqua, e si piazza di fronte a Tito, allargando le braccia ed inclinandosi in avanti. L'espressione infastidita che gli legge in volto lo gratifica enormemente, spingendolo a persistere. A Tito piace pensare di essere l'unico, lì dentro, in grado di comprendere le persone, di leggergli dentro, interpretando ciò che non possono controllare, cogliendo l'odore dei loro stati d'animo; ciò che non capisce, però, è che il suo volto è un libro aperto, e a dettarne i capitoli è proprio la cicatrice che gli attraversa le labbra sfregiate. Le sue emozioni si arricciano attorno ad essa come foglie sui rami più fragili.

«Puzzo ancora?» domanda, divertito, bloccando la testa di Tito tra il petto e lo schienale del divano.

Lui lo afferra per la felpa, respirando a fondo. Lo spinge via, e Milo ne approfitta per dirigersi in cucina.

«Mo sai solo de bagnoschiuma, te lo dico dopo.»

Il lavabo, stranamente, è vuoto. Milo perde qualche secondo a frugare tra i piatti lasciati a scolare, macchiati di condensa. Afferra due ciotole, controlla la scadenza del latte e, dopo essersi assicurato di non contrarre una brutta intossicazione alimentare, le riempie, infilandole nel microonde per qualche secondo — il latte caldo lo disgusta. Il frigo, con la lampadina fulminata e gli scaffali vuoti, è la triste e penosa sintesi del malsano stile di vita di Tito: somiglia ad uno di quei tormentati dipinti in cui i disperati si ammazzano d'assenzio seduti al tavolino di un bar, in attesa di bucarsi lo stomaco e vedere le proprie pene bruciare insieme ad esso. Gliene torna in mente uno in particolare, di un pittore francese di cui gli sfugge il nome. Quel frigo, comunque, gli trasmette le stesse sensazioni.

Si tira indietro i capelli umidi, versando una manciata di cereali in entrambe le tazze.

«C'hai trent'anni e ancora te magni le barchette de cioccolato?» lo schernisce, allungando il collo per guardarlo.

«Ce n'ho ancora ventotto, stronzo.»

«Dovresti passare a qualcosa de più sano» commenta, sedendosi accanto a lui, «e sostanzioso.»

Gli pizzica un braccio, incrociando le gambe sul divano. In televisione c'è un documentario sull'allevamento intensivo. Le riprese sono crude, forti, e Milo aggrotta la fronte, perdendosi a guardare le fila di pulcini che, pigolanti, vengono versati sui nastri trasportatori come limoni troppo maturi. Indignato, si porta un cucchiaio di cereali alla bocca, lasciando gocciolare il latte nella tazza incastrata tra le caviglie.

«Mangi come 'n maiale» lo riprende Tito. Accenna allo schermo, puntando un dito verso le immagini che gli stanno chiudendo lo stomaco. «È crudele.»

«Mh» borbotta Milo, masticando.

«T'ho detto che vojo piamme 'n bonsai?»

«Un bonsai?»

Lo guarda interdetto, sollevando le sopracciglia. Considerate le condizioni in cui versa quell'appartamento, sommerso di cianfrusaglie, sporco e costellato di cartoni vuoti, dubita che Tito sia in grado di mantenere in vita una pianta. Il suo frigo grida vendetta, ma lui pensa ai bonsai. (Tipico). È prevedibile quanto Roma allagata dopo qualche goccia di pioggia, con le strade bloccate ed i vialetti inondati dai liquami delle fogne. Ettore zampetta in salone, insolente, e si sistema tra di loro, premendo il naso contro il fianco di Milo.

«Sì, un bonsai» ripete, annuendo. Solleva le mani, ritagliando un piccolo quadrato d'aria: «l'alberello piccolo che se mette sulle scrivanie. O sui davanzali delle finestre. Fatte 'na cultura, ignorante.»

«A malapena te ricordi de fa' magnà er cane, e mo vuoi darti alla cura degli alberi?»

«Infame.»

«Imbecille.»

«Chi te sei scopato oggi? De sicuro nun era tu' moje.»

Milo sbuffa, lasciandosi cadere all'indietro: non ha tregua, accanto a lui. Tito è invadente, inopportuno, testardo — scava nella sua coscienza finché, esasperato, non è costretto a confessare i crimini che ha commesso. È un adultero. Colpevole. Chi non lo è, alla fine? Il suo unico delitto è fare ciò che gli altri, con gli occhi bassi e le mani infilate nei pantaloni, si limitano a pensare, dichiarandosi innocenti. Agire è tradimento. Pensare è tradimento. Ipotizzare è tradimento. Comunque ci si comporti, il matrimonio è un vincolo a cui rimanere fedeli è impossibile, e a fargli la predica, tra tutti i brav'uomini al mondo, è proprio Tito, un drogato incurabile la cui dipendenza è di gran lunga più grave della sua. Non ha mai amato nessuno, eppure eccolo, pronto ad annusargli i vestiti e frugargli nelle tasche, in attesa di coglierlo in fallo.

«Il dolore c'ha 'na funzione» continua Tito, increspando il pelo ispido di Ettore, «ci tiene lontani dal pericolo, ci protegge. È 'na specie de campanello d'allarme, ma te nun ce l'hai mai avuto. Te bruci e sai che non te devi avvicinà al fuoco. Te spezzano il cuore e capisci che le persone vanno trattate co' rispetto.»

Milo distoglie lo sguardo.

«Che differenza c'è?»

Tito lo guarda, gli occhi grandi e malinconici che gli scivolano lungo il viso. Ha lo stesso sguardo di quando erano ragazzi, dell'epoca in cui, inseparabili, mangiavano, bevevano e dormivano insieme, in sincrono, affamati di contatto umano, di trovare qualcosa, in quell'inferno adolescenziale, capace di salvarli. Non la meritano più, la salvezza, ma non importa.

«Mh?»

«Che differenza c'è tra il sesso co' Bea e quello con —» si ammutolisce, improvvisamente incapace di ammettere i propri errori.

«Con le altre?» termina Tito, concentrandosi sullo schermo del televisore. «I sentimenti. Che tu lo ammetta o meno, di Bea ti interessa. Quando non ti importa, invece, c'hai n'odore diverso, troppo dolce. Tipo il ginseng, c'hai presente?»

Si sente esposto. È sdraiato sul divano e Tito sta curiosando tra i suoi organi. Maneggia la milza, la tasta, la pungola con la punta delle dita senza guanti, se la rigira tra le mani come una palla da baseball e dice: (danneggiata). Estrae i reni, piccole sacche che filtrano le tossine, asciutti come pomodori essiccati. Li butta per terra. (Danneggiati). Il fegato. Il fegato è uno degli organi che contengono più sangue, ma nel caso di Milo ha una consistenza insolita, appiccicosa, ed è pieno di scorie. (Da buttare). I polmoni sono carbonizzati dal fumo, vanno smaltiti, gettati nell'indifferenziata. (Trascurati). Continua a guardargli dentro, a svuotarlo, finché nel suo torace non rimane solo il cuore deformato. Ci sono delle escrescenze, troppe arterie, tessuto necrotico, il battito è irregolare e ad ogni contrazione il muscolo si assottiglia, rischiando di rompersi. (Colpevole). È un marito ingrato ed un uomo deplorevole, privo di etica o senso del dovere, e Tito glielo sente addosso.

«Secondo te è vera, 'sta storia degli odori? È scientifica?»

Ha sempre desiderato saperlo, ma non ha mai avuto il coraggio di chiederlo.

«Non lo so» ammette Tito, girando il cucchiaio nella ciotola, «lo psichiatra dice che sta tutto nella testa mia, ma pe' loro è sempre così, no? Però io li sento. Li sento in ogni cosa.»

«Tipo?»

Lui sospira. Nel documentario i pulcini si agitano sul nastro trasportatore, indemoniati, muovendo le ali goffe, ossute e senza piume, cercando di raggiungere chi li ha generati, i polli e le galline a cui hanno tirato il collo per metterli nello sformato del sabato sera, a cena con i parenti.

Tito non lo dice, ma il risveglio in ospedale, dopo i Condotti, l'ha cambiato. Ha sentito la morte. Non ha la falce né il mantello; non è emaciata o scheletrica. È un retrogusto, una fragranza intensa, insistente, impossibile da coprire. Sdraiato nel letto, con la mascella bloccata, il volto tumefatto ed un occhio parzialmente cieco, l'ha colta, crudele, e non è riuscito a liberarsene. Sovrastava la confusione, il dolore, la disperazione, l'ansia. L'ha quasi ucciso, quell'odore, e gli è rimasto accanto finché, dimesso, non ha fatto ritorno a casa. Non l'ha più sentito, da allora, ma sa per certo che non lo dimenticherà.

«Tu sai di menta e peperoncino, ma questo te l'ho già detto» risponde. Milo lo guarda, in attesa, ed i suoi lineamenti, rigidi, definiti al dettaglio, sono estatici. Vorrebbe avere la sua faccia, fare a cambio, ma in fondo, a pensarci bene, vorrebbe avere molte cose che gli appartengono. «Gli opportunisti sanno di silicone. Le menzogne di carta bruciata. Il sesso scadente di ginseng, mentre quello vero, quello che ti toglie il fiato, di acqua salmastra. La violenza, invece, sa di mandorle e benzina. So' sempre gli stessi.»

Milo annuisce. Per lui, il sesso scadente ha lo stesso profumo di R. e l'affetto, la lealtà e l'appartenenza hanno l'inconfondibile odore di Tito, che sa del suo insopportabile bagnoschiuma al sandalo e di cane bagnato. Non è cambiato nulla.

«Ti possiamo addestrà tipo i cani antidroga» commenta, stemperando la serietà del momento.

«Divertente quanto un calcio 'n culo. Come sta il piccolo Giuda?»

La sua creatura. La nuova vita che, feconda e gioiosa, cresce nel ventre amorevole di Bea, cibandosi delle sue carezze e dei lievi baci che Milo, assalito dalla consapevolezza di essere padre, lascia all'altezza dell'ombelico. Il mondo è crudele, ingiusto, una bestia avida ed assetata di sangue, eppure loro l'hanno fatto: hanno rischiato, creando un nuovo essere umano. Un piccolo uomo od una piccola donna che, una volta spinto fuori dal nido, tra le pene del parto, conoscerà il dolore dell'esistenza.

«Bene, adesso c'ha le dimensioni de 'n fagiolo gigante.»

«Incredibile.»

«Lo vojo sto bambino, Levriè. Lo vojo amà.»

Tito rimane in silenzio, allungando una mano verso di lui. Per un attimo nessuno dei due sa cosa accadrà: potrebbe schiaffeggiarlo, stringergli una spalla, lasciar cadere il braccio, cambiando argomento — davanti a loro, mentre Ettore sbuffa, annusando la manica della felpa, si aprono centinaia di scenari. Alla fine, dopo essere rimasta sospesa, immobile, simile ad un pendolo rotto, la mano termina il proprio percorso, adagiandosi sui capelli di Milo. Li intreccia alle dita, sistemandoli all'indietro, e la delicatezza con cui si muovono, massaggiando la cute, sorprende entrambi.

«Lo so» dice, rassicurandolo, «mi chiedo solo cosa succederà quando Bea si renderà conto che ti scopi tutte quelle che ti cascano davanti. Sei 'n tossico pure te, anche se non lo vuoi ammette'.»

«Mica ti dispiaceva, qualche anno fa.»

«Touché» ride lui, «bei tempi.»

Mettono via le tazze, dimenticano i pulcini dal pelo arruffato e raccolgono le proprie cose. Saliti in auto, diretti in caserma, l'orologio segna le sette e quarantacinque del mattino. Il traffico è rimasto invariato. Roma, invece, è stata rianimata, ed il suo elettrocardiogramma cambia ad ogni ansito, ogni bestemmia mormorata a denti stretti, fermi ad un semaforo che indugia qualche secondo di troppo. C'è un picco ad ogni colpo di clacson, e l'aria è pregna del nervosismo metropolitano, del tempo che passa e della folla asmatica che migra verso le stazioni ferroviarie come uno stormo d'uccelli che vola sul pelo dell'acqua, beccando i pesci sottostanti. R. è sicuramente tra loro, ben vestita, truccata, con i capelli in ordine. Forse, seduta sul treno, in attesa della propria fermata, tra corpi sudati e conversazioni mormorate, incontrerà Edoardo L. ed i suoi orribili mocassini. Si sposeranno, avranno dei figli, lui diventerà calvo e lei dimenticherà Milo, i suoi bellissimi occhi chiari e la tresca che hanno condiviso alle spalle della moglie.

Alle nove e zero cinque precise si trovano a bordo di un Iveco Daily che procede placidamente verso Piazza della Repubblica. All'interno dell'abitacolo, seduti l'uno accanto all'altro, i dieci agenti del reparto celere vengono sballottati come biglie in un sacchetto, agghindati nella divisa d'ordinanza. Tito, seduto vicino al portellone d'entrata, è l'unico ad indossare - oltre alla giacca e al cinturone con lo sfollagente e la pistola - il casco con la visiera. Il bavaglio rosso, infilato nel colletto della maglia, gli copre il tatuaggio del mastino che scopre le zanne. È una manifestazione pacifica, quella che devono dirigere, ma Tito sente ancora il dolore della frattura orbitale che gli ha quasi fatto perdere l'occhio. Il casco, di conseguenza, lo mette anche in occasioni simili, quando a manifestare sono liceali annoiati che intonano inni di cui non conoscono il significato e ciccano per terra mentre protestano contro il riscaldamento globale.

Quando scendono, saltando giù dal furgone in fila indiana, deviando le formiche operaie verso Via del Corso, sono scarafaggi corazzati con la testa azzurra. È così che li vedono loro. Defluiscono dalla piazza come sangue pompato nei vasi, marciando, caricando, incitando. È bello, quello che fanno: lottano per qualcosa in cui credono, e lo fanno senza portarsi dietro la puzza di mandorle e benzina, ma lo sguardo che hanno - il modo in cui li adocchiano, tirando indietro la testa - è sempre lo stesso. Indossata la divisa, Tito non è più Tito: è uno scarafaggio dalla testa azzurra, senza nome, senza storia, senza meriti. Infesta le case - lo trovano nei cassetti, nel frigo, nelle dispense, corre sul pavimento - e va debellato, piccolo, disgustoso e parassita. Li guardano dall'alto, giganti che battono i piedi, cercando di schiacciarli, e lo fanno con diffidenza.

È natura: a dividerli, ponendoli ai lati della barricata, separati da una fila di braccia serrate e scudi di plastica, è l'istinto di sopravvivenza, l'eterno conflitto tra le due realtà che compongono il mondo e la politica. Per le strade, ad urlare e combattersi a vicenda, simili a gladiatori e leoni nelle arene gremite di gente in visibilio, ci sono loro. Polizia e manifestanti. Divise e civili. Entità inconciliabili che alimentano un odio fornitogli su un piatto d'argento, costante e travolgente; un sentimento devastante pronto a mostrarsi e scatenare le bestie, a far partire i fumogeni, le aggressioni, il dolore. Il sangue.

Tito serra gli occhi, soffocando lo spasmo che gli ha contratto lo stomaco, facendogli assaporare il gusto acido dei suoi reflussi gastrici. L'odore che sente è potente, e gli arriva alle narici con l'intensità dell'alta marea. Le onde si gonfiano, si divincolano, alzandosi in piedi, e poi si schiantano sulla riva, scavando un solco che attraversa la spiaggia. Il resto della sua unità, rilassata, è ferma all'imbocco delle vie secondarie, bloccandole: Ilaria, annoiata, discute con Luca, poggiata contro le pareti opache dell'Iveco parcheggiato poco distante, l'enorme nido del loro convoglio di scarafaggi con la testa azzurra; Flavio e Tommaso guardano pigramente la processione, commentando i dettagli che riescono a cogliere nella massa informe; Milo, vicino a lui, attende in silenzio; gli altri sono macchie scure troppo vestite, sparse lungo il perimetro senza una logica apparente. È tutto tranquillo, e lo rimane anche quando, distaccandosi dallo stormo, uno dei ragazzi gli si avvicina, puntando il brutto muso di Tito. Forse spera di ottenere qualcosa, di sfruttare la suscettibilità che traspare dalle spalle rigide e dal mento sollevato, ma ad accoglierlo non c'è alcuna reazione: Tito lo guarda fisso negli occhi, assente, e Milo fa lo stesso, concentrandosi sulle guance butterate da adolescente stordito dagli ormoni.

Si gira verso il gruppo di amici alle sue spalle, un insieme di teste indistinguibili che allungano il collo per poter scorgere meglio il viso deturpato di Tito e quello celestiale del compagno. Li vede tutti uguali: stessa espressione, stessi abiti, stessi pensieri — sono un cervello enorme senza sinapsi, incapaci di mettere insieme pensieri razionali. Il ragazzo ha i capelli lunghi, gli occhiali, qualche pelo di barba, e li guarda con un'ostilità incerta, zoppa, che barcolla tra il desiderio di spingere fuori la propria confessione e la ritirata immediata verso la palude da cui è emerso.

«L'area è interdetta» afferma Tito, indicando la direzione presa dalla folla, «si continua da quella parte.»

Il butterato sogghigna, maligno, incrociando le braccia al petto. Trasuda disprezzo da tutti i pori otturati dall'acne, e Tito è ad un passo dal vomitargli addosso. Lui, però, lo anticipa, e dopo aver tirato indietro la testa, cercando il sostegno degli amici, gli sputa in faccia. Sulla visiera del suo casco si schianta un asteroide di saliva e catarro che imbratta la plastica, inguardabile, colando verso il basso.

«Porci.»

Tito ritrae il labbro superiore, stizzito, scoprendo i denti rovinati. Respira piano, tentando di scorgere la soddisfazione sulla faccia sfocata del ragazzo. Crede di umiliarlo, di aver ferito il suo orgoglio, ma Tito non reagisce, limitandosi a stringere le dita attorno alla cintura. La saliva, nel frattempo, continua l'interminabile discesa verso terra, appannandogli la vista. L'occhio difettoso ha un tic; una piccola, insignificante contrazione che racchiude tutta la sua rabbia. Si toglie il casco, impassibile, e lo poggia davanti a sé: adesso è uno scarafaggio decapitato che agita le zampe, vulnerabile, cieco.

«Di qui non si passa» ripete, scandendo le sillabe. «Se vuoi continuare, segui la folla. Se vuoi andare affanculo, torna indietro.»

Gli indica la piazza, ignorando l'odore pungente di tabacco masticato. Milo fa un passo avanti, sollevando una mano.

«Dobbiamo dirigere il traffico» gli dice, sovrastandolo: più alto, piazzato e minaccioso del ragazzino rachitico con il viso contratto, è il suo scudo di plastica. «Siamo dei vigili, oggi, perciò fai un favore a tutti e torna dai tuoi amici.»

Inizia a fargli male la testa. Lui, a quindici anni, era incazzato marcio e trascorreva il proprio tempo fumando erba ed infilando le dita nei distributori automatici in cerca di qualche moneta, stringendo la felpa di Milo come i neonati fanno con il petto della madre. Loro, invece, le scimmie urlatrici che godono di quel piccolo momento di gloria, fingono interesse e lucrano su di esso per avere la possibilità di sputare in faccia ad un porco come Tito, ignorando chi, invece, è lì per parlare davvero, per cambiare, per impegnarsi su quel filo lento che pende dal complesso ricamo dell'esistenza. È un avvoltoio che spiega le ali e se ne va: dopo aver intrattenuto gli ospiti del circo, si toglie il cilindro ed abbandona il palco.

«Stai bene?» mormora Milo.

«Se all'età sua avessi fatto 'na cosa simile, mi' padre m'avrebbe dato una de quelle sveje che te ricordi pe' sempre.»

«Pure il mio.»

Si guardano, ridono e Milo gli passa una mano sulla testa rasata. Attendono la fine della fila, mantenendosi a distanza, e si uniscono alla processione, trasformandosi nella coda di un enorme dragone che si inerpica per Roma, agitandosi tra i palazzi dalle facciate che cadono a strapiombo sull'asfalto cotto dal sole. Al posto del fuoco, il drago sputa cascate di parole attraverso un megafono: fluttuano al di sopra del lungo corpo squamato ed arrivano fino a loro, gli ultimi della cucciolata, i brutti anatroccoli. Tito vorrebbe tornare a casa, sdraiarsi sul divano e spararsi una dose. Ne sente il bisogno, perché le orecchie gli ronzano ed i polsi e le caviglie iniziano a fargli male. Le ossa strusciano come carta vetrata le une contro le altre, consumandosi lentamente.

«Credi che dovrei daje 'n nome, al bonsai?» domanda.

«Tu je lo vuoi da'?»

Ci pensa, continuando a camminare. I loro gomiti si scontrano. È un contatto piacevole, che accentua il delicato profumo di menta impresso sulla sua pelle.

«Castagna» riflette ad alta voce. «È carino, no? Voi l'avete trovato il nome pe' la creatura?»

«Pinolo, magari.»

Tito emette quella risata sguaiata che lo caratterizza, stringendo gli occhi grandi: Milo, ormai, è adulto, padre di un feto che cresce ad ogni loro respiro, e non riesce a crederci. È elettrizzante e spaventoso, perché il tempo passa ma loro, ostinati, rimangono gli stessi avventati ragazzi dell'epoca, ancora arroganti, ancora incapaci di distinguere tra sano e malsano, tra bene e male. Tito si buca come un puntaspilli, nell'incerta attesa della morte indolore, e Milo è incapace di amare, apatico e distaccato. I suoi sentimenti sono acerbi, aspri, bloccati all'età in cui, invisibile, si contorceva come una larva che emerge dal terreno umido. Le emozioni che provano, non processate, sono violente, e li prendono a mazzate nello stomaco.

La manifestazione termina alle quattordici e quarantacinque, sotto un cielo striato di nuvole. La gente, annoiata, inizia a disperdersi, tornando a sputare le gomme da masticare agli angoli dei marciapiedi. Il ritorno in caserma, stanchi e sudati, è silenzioso, e nessuno azzarda una parola sul ragazzino butterato che ha decapitato Tito, lasciandolo con un casco coperto di saliva ed un embolo di frustrazione ad ostruirgli le arterie. Vorrebbe colpire qualcosa. La cicatrice gli prude, l'occhio pulsa e le orecchie continuano a ronzare. La vista gli si abbassa di nuovo, e lui stringe le palpebre così forte da far scoppiare un altro capillare, che irriga la sclera e borda l'iride. Giunto a destinazione, però, si cambia, seguendo Milo fino all'auto parcheggiata vicino al tabacchi che distribuisce sigarette senza chiedere i documenti. Il fumo uccide, ma finché vende a nessuno interessa.

«Lasciami al parco» gli dice, tenendo lo sguardo fisso fuori dal finestrino. Sanno entrambi cosa deve fare, ed il sospiro rassegnato di Milo è abbastanza per comprendere la sua posizione a riguardo. «Torno col treno.»

Lui accosta, guardandolo scendere. È un mucchio di ossa tenuto insieme da fil di ferro; una discarica ambulante con le vene distrutte e le mani che tremano. Lo guarda decomporsi, scacciando le mosche che si posano sulla carne in putrefazione.

«Aò» lo ferma, «domenica te passo a pià alle sette e mezza, così pe' 'na volta arrivamo puntuali. Dopo la cena rimango a dormì da te». Si ferma un attimo, fissa le orbite vuote e si umetta le labbra screpolate. «Se non è 'n problema.»

Tito annuisce, sbattendo la portiera dell'auto con troppa energia. Si china su di essa, infilando metà della testa nell'abitacolo.

«Come ti pare.»

«Vestiti bene, mi raccomando.»

«Pe' te questo ed altro» lo beffa Tito, ridendo. «Mo torna dritto da tu' moje, che poi se fa strane idee. E non passà dall'amichetta tua.»

«Tu sei l'unica che me fa batte' il cuore, non esse' gelosa.»

Scherzano. Lo fanno continuamente, ma Tito l'ha sentito davvero, il suo cuore; l'ha sentito battere veloce contro il palmo della mano, riecheggiandogli nel petto. Ha corso una maratona e poi, provato, ha iniziato a camminare, stringendosi con forza.

«Ma se il cuore manco ce l'hai» risponde, allontanandosi dall'auto. «Vedi d'annattene, se beccamo domenica.»

E Milo lo fa, dirigendosi dall'ingenua Bea, dalla ragazza che lo accoglie con un sorriso ed un bacio a stampo, evitando di fare domande. Non coglie il profumo di R., ed il suo rossetto è scivolato nello scarico della doccia insieme al sudore e al sapone al sandalo. Vorrebbe sentirsi in colpa, ma la verità è che non prova nulla. È indifferente, a lei e a tutte le altre. Bea, però, è sua moglie, e questo basta a farlo tornare: lei, in fondo, ha in grembo suo figlio.

«Com'è andata la manifestazione?»

«Regolare. Un coglione ha sputato in faccia al Levriero, così, dal nulla. Ti pare normale?»

«E lui?»

«E lui niente, grazie a Dio se n'è stato buono» conclude, versandosi unbicchiere d'acqua. «Guardamo un film?» 

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