1. TITO.
— warnings !
dipendenza da droghe e alcol;
violenza;
possibili scene esplicite;
generale aggressività.
stay safe guys, i personaggi di questa storia hanno uno stile di vita distruttivo. In più, l'utilizzo di droghe pesanti avrà un ruolo centrale e sarà ampiamente trattato.
Il vostro benessere prima di tutto.
È zucchero bruciato.
Tra il sonno e la veglia, l'incoscienza e la lucidità, l'inconsistenza della propria mente alterata, violata e dissecata, Tito lo percepisce nitidamente. Riemerge poco alla volta, lacerando le membrane che lo separano dalla realtà: intorpidita, affaticata dal tempo trascorso sottoterra, insozzata dal lerciume della fossa in cui è precipitata, la sua anima pervade il corpo morto, irradiandolo.
È un feto che si dimena, liberandosi della placenta viscosa per scivolare verso il basso; verso le voci, l'energia, la frenesia che lo attende fuori dal ventre contratto della madre. Vagisce, piangendo, e Tito, una volta sfiorata quella linea sottile, apertosi un varco, fa lo stesso, gemendo piano.
È allora che lo sente — zucchero bruciato. Gli punge la gola, scivola nelle narici e, invadente, gli pugnala gli occhi, costringendolo ad esalare un secondo, sofferente latrato. Il collo, soffocato dalla maglia intrisa di sudore, è bloccato; i muscoli, atrofizzati, gridano insieme alla sua anima stanca; le labbra secche, dagli angoli rigidi, si spezzano ad ogni respiro, tingendosi di rosso. Il suo corpo, abbandonato sul divano, non risponde. Socchiude le palpebre, strappando l'ennesima membrana, guardiana solitaria di un forte diroccato ed abbandonato. Le ciglia, ispessite dalle lacrime, faticano a separarsi: tremano, pesanti, e gli feriscono la pelle, mostrando le iridi annacquate dalla confusione.
Il lezzo di zucchero bruciato lo sta uccidendo: è simile all'odore nauseante del pesticida che, in estate, riversano sulle strade, sterminando le zanzare. Sotto di lui, i cuscini del divano sono ruvidi. Vede delle mani. Mani che fluttuano nel suo campo visivo, sfocate, circondate da un alone luminoso che penetra nei pori e le fa rilucere, portando a galla ogni imperfezione, ogni callo, ogni cicatrice nascosta dalla carnagione olivastra. Sono le mani di Dio. (Ecco, è arrivato il momento), pensa. Cristo è sceso dalla sua croce di legno, strappandosi i chiodi di dosso, per porgli una mano sul capo sudato. La fa scivolare tra i capelli corti, irti, arrivando alla cute sottostante, e la fa calare in avanti, segnandogli la fronte con il sangue e la cenere. L'hanno deposto, coperto solo da un sottile velo bianco; hanno pianto il corpo abbandonato tra la terra ed il fango, stringendo le ossa ed il viso cinereo, specchio della morte; e poi, dopo aver aperto gli occhi, ha raggiunto Tito, carezzandogli la testa reclinata sullo schienale del lercio divano su cui ha perso i sensi.
Ha paura, eppure non riesce a scostarsi: contempla il miracolo, gonfiando il petto di respiri tremuli. (Prendimi). Cerca di mormorare qualcosa, ma la bocca è impastata e la lingua giace immobile. (Salvami). Poi, però, mentre le dita affusolate gli stringono le guance, scavando solchi nella carne, lo zucchero bruciato si fa lieve, simile ad un rumore di sottofondo, ad una timida, superflua nota amara, e viene sovrastato dalla menta. Tito volta il capo, inspira e lo sente, forte, inconfondibile — sulla pelle imperfetta di Cristo, invece del sudore, del tradimento e della sofferenza di un corpo martoriato, c'è una foglia di menta spruzzata di peperoncino. Quello non è Dio.
Tito ride, tossendo. Nel petto, lungo l'esile spazio che divide i polmoni intossicati dal fumo, germoglia una bolla di catarro che sale fino alla gola, scoppiando in un violento attacco d'asma che gli fa contrarre i muscoli del viso. La stanza, attorno a lui, oscilla, mescolando oggetti e colori in forme senza contorni. Nel caos che lo circonda, mentre le mani si allontanano, seguite dal resto del corpo, distingue la felpa di Emiliano, i polsini lenti e macchiati di candeggina, le tasche larghe. (Milo, Milo, Milo). Cerca di articolarlo: proietta il nome sulla membrana che gli resta da rompere, tracciandoci le sillabe, ma le lettere gli muoiono sulle labbra. Mi-lo. Il suono collassa su se stesso, inghiottito da una risata roca e disturbata: Milo, di certo, non è Dio. Tutt'altro. Se il padreterno avesse la sua dissolutezza, peccando come lui, il mondo arderebbe fino alle radici, divorando le proprie ceneri per poi rigurgitarle, disgustato.
Quando Emiliano torna nel suo campo visivo, tra le dita stringe un bicchiere di vetro. Gli versa addosso dell'acqua e Tito, colto di sorpresa, strappato a forza dallo stato catatonico in cui era caduto, si inarca in avanti, socchiudendo le labbra in un grido che, però, non lascia la sua mente. Con gli occhi sgranati, improvvisamente vigile, il mondo torna ad assumere consistenza, solidificandosi: vede il riquadro illuminato del televisore, il basso tavolino che lo separa dal divano ed il tappeto sottostante, da cui la siringa, rotolata giù durante la notte, emerge simile ad un'ortica insediata tra i fili d'erba, guardinga. Sul ripiano in legno, ornato da profondi graffi lungo i bordi, vede l'accendino ed il cucchiaio di metallo. L'eroina, ormai secca, si è raggrumata sul fondo, macchiandone la superficie. Eccolo, lo zucchero bruciato.
Arriccia il naso, tentando di tirarsi a sedere, e protesta sottovoce quando, abbassando lo sguardo, con il mento che preme sul petto, scorge la scia scura impressa sulla maglia, un sentiero che si estende dalla base del collo fino ai fianchi fasciati dai pantaloncini. Si è vomitato addosso, espellendo i resti corrosi del suo ultimo pasto: distingue, tra l'intruglio paglierino, pezzi di pasta maciullata. Si copre la bocca, strofinandosi il dorso della mano sulle labbra ruvide, ed Emiliano, tornato in cucina per riempire nuovamente il bicchiere, lo strattona per una spalla, incoraggiandolo a bere un sorso d'acqua. Gli pulisce il mento con gesti nervosi e privi d'attenzione, lasciandogli intendere ciò che Tito, ormai pienamente conscio di sé, riesce a leggere anche nella sua postura, nella mascella serrata, nelle iridi chiare — un disprezzo viscerale, che gli deforma la fronte ed imprime, nel suo sguardo, una freddezza inusuale. Lo rovina, quell'espressione: gli occhi chiari, bordati da spesse ciglia castane e sfumate di rosso, perdono il proprio fascino, scivolando nel quieto anonimato dell'odio.
Milo si allunga verso di lui, strappandogli l'elastico che, lento, gli scende lungo il braccio. Lo fa scattare contro la pelle e Tito, con una smorfia appena accennata, si ritrae, incapace di guardarlo.
«Hai finito de sparatte 'sta merda nelle vene?» domanda, gettando l'elastico sul tavolino. «Tossico del cazzo» sputa, colpendogli la fronte, «che aspetti, eh? De fatte venì l'epatite? De bruciatte quel cervello bacato che c'hai 'na volta pe' tutte?»
«Il bue che dice cornuto all'asino» mormora Tito, «sta attento a non prenderti lo scolo da una delle mignotte che te scopi. O la sifilide, che pure quella te magna er cervello.»
Ride, acido e senza umorismo: è una risata di scherno, graffiante, che parte dallo stomaco e, travolgente, si esaurisce in uno spasmo, facendogli scoprire i denti bordati di giallo. Sta marcendo: il fegato, lo spirito, l'intestino, il cuore — l'eroina se lo divora, tracotante, spegnendolo poco alla volta, ma Tito, indifferente al proprio riflesso emaciato, all'aspetto malato, attende stoicamente l'avvento della decomposizione e con essa, affamati, simili a cerberi mandati dall'inferno, i vermi, pronti a strisciargli sulla pelle e nutrirsi delle interiora andate a male.
L'ipocrisia di Milo, però, vìola il suo orgoglio, pungendolo, e riportarlo all'ordine, quando lo vede di fronte a sé, fiero ed altezzoso come il più puro degli uomini, è una tentazione a cui non riesce a resistere. È quasi un gioco, per loro, quieti spettatori del proprio declino. Se morisse, in mezzo ad un cimitero che parla attraverso i sussurri dei corpi sepolti ed i lamenti dei vivi, Emiliano sputerebbe sulla sua tomba, ricordandogli di quell'esatto istante. Di quando, con il suo aspetto trasandato ma apprezzabile, con la barba talmente corta da gettare solo un'ombra vaga sulle guance incavate, gli ha detto: «che aspetti, eh? De fatte venì l'epatite?» con il tono petulante e la voce arrochita dalla frustrazione. Tito, dal canto suo, farebbe lo stesso, pisciando sulla sua lapide e stringendo la mano alla moglie, la vedova che, disperata, chiusa nel proprio abito scuro, nel sudario di dolore, piange un marito adultero. Guarda l'anulare nudo, spoglio della fede, e sorride mestamente. Povera Bea, così dolce ed ingenua. Milo, però, non accoglie la sua provocazione: si limita a stringere i pugni, lasciandolo con un logorante senso di insoddisfazione a brucargli nello stomaco.
«Sei sparito pe' du' giorni» commenta, aprendo la finestra. La puzza di zucchero bruciato, sudore e vomito è così intensa da togliergli il fiato. «Me so' dovuto inventà le peggio stronzate pe' copritte a lavoro.»
«Stavo a guardà la partita.»
Indica il televisore, dove un telecronista sportivo, con due dita premute sull'auricolare e l'espressione corrucciata, continua ad increspare le labbra in un monologo senza suono. Milo, le braccia incrociate al petto e lo sguardo severo, non si volta, continuando a guardarlo con quell'ostentata superiorità che gli fa venir voglia di sbatterlo al muro.
«È lunedì sera» gli fa notare. (Cazzo). «Cojone.»
L'ultima cosa che ricorda, oltre alla breve conversazione avuta sabato mattina, è di aver afferrato il telecomando ed essere crollato sul divano, esausto. La siringa è un'immagine sfocata, lontana, così come il piacevole intorpidimento che gli ha assalito le membra dopo aver raggiunto la vena buona, gonfia a causa dell'elastico stretto sul bicipite. Ormai, smaltito il momento di estasi, il piacere si è raggrumato in piccoli e dolorosi calcoli insediati tra le fibre muscolari, affaticandogli i movimenti. Questo, però, non lo ammetterà mai. Non di fronte all'impeccabile, meraviglioso Milo, che il proprio marciume lo copre con un bel sorriso ed una vigorosa pacca sulla spalla.
«Ah, sì?» gli domanda, indifferente, «E chi ha vinto? Me so' giocato la schedina.»
Emiliano lo afferra, irruente, tirandolo in piedi. Il pollice, scivolato sull'incavo del gomito, è circondato da un'aureola violacea, pelle livida, sensibile, su cui preme finché un breve, pietoso mugolio non abbandona le labbra sigillate di Tito.
«Vatte' a fa' 'na doccia, che puzzi de carogna. Ce la fai a sta' in piedi?»
Aspetta. Riflette. Annuisce.
Milo lo lascia andare, ma il pavimento, sotto ai piedi scalzi, oscilla senza tregua, dandogli la nausea. Le ginocchia gli tremano e per un istante, mentre arranca verso il bagno, poggiandosi pesantemente prima al tavolo e poi al muro, pensa di cadere, di crollare a terra e ricevere l'ennesima umiliazione della sua vita. Emiliano non attende altro. Arrivato alla porta, con entrambe le mani chiuse attorno alla maniglia dorata, si gira, ma Milo non gli presta attenzione: fruga nel cesto accanto alla porta, estraendone un guinzaglio.
«Oh, ma ancora stai qua? Muoviti» lo incita, infilandosi due dita in bocca.
Fischia, ed Ettore, abituato ad averlo intorno, salta giù dal letto della camera, correndogli incontro. Ha la coda bassa, impegnata in una danza frenetica, e quando lui gli accarezza la testa, grattandogli la base delle orecchie, il pitbull lo asseconda, sollevandosi su due zampe.
«C'ho fame» commenta, estemporaneo.
«Lavati, che dopo annamo a cena. Io porto fuori Ettore.»
Li guarda uscire, docili, Emiliano con le spalle curve, che riducono la sua altezza, donandogli un aspetto meno imponente, ed il cane che trotterella al suo fianco, felice, appagato dalle attenzioni che Tito, al contrario, evita di rivolgergli, troppo impegnato a scommettere i propri soldi su partite perse e a frugare nei cassetti alla ricerca di un po' di polvere.
Casa sua, si rende conto, è lo specchio di ciò che sente, di ciò che gli ribolle nel fegato, corrodendolo, ustionato dall'indifferenza e dall'insoddisfazione perenne: in cucina, impilati nel lavabo, i piatti sporchi si accumulano in una pila incerta, circondati da graziose mattonelle quadrate i cui bordi hanno cambiato colore, schizzati d'acqua e di cibo; il bagno, di fronte a lui, si estende in un rettangolo angusto, pregno dell'odore di chiuso e della traccia indefinibile lasciata dai panni che traboccano nell'angolo. Non vede una spugna da quando, ubriaco marcio, incapace di tenersi in piedi, si è ritrovato a pisciare per terra. Gli schizzi di dentifricio, simili a crateri lunari, macchiano lo specchio ed incrostano il lavandino. Quasi gli fa schifo, entrare in doccia, ma alla fine trattiene il respiro, sorride al proprio riflesso ed inizia a spogliarsi, un capo dopo l'altro, lasciando cadere i vestiti sul pavimento. La maglietta sporca di vomito, la felpa, i boxer. Sono foglie che abbandonano i rami, accumulandosi alla base degli alberi in un sentiero autunnale che armonizza il clima malinconico, componendo una delicata musica di sottofondo. L'autunno - con le foglie che cadono e la vita che defluisce, asciugandosi - è la stagione delle memorie nostalgiche, del passato che non torna; l'estate - con il caldo soffocante e l'afa che assume forma fisica, addensandosi nell'aria - è la stagione delle cose che finiscono. L'inverno e la primavera sono la quiete prima della tempesta; la tregua che frammenta le battaglie, dando respiro agli eserciti stanchi.
Il suo riflesso ricambia lo sguardo, compiaciuto, e risponde al sorriso che gli viene rivolto, mostrando i denti rovinati da anni di distruttivo nichilismo. Ha un aspetto felino, il suo sorriso; una nota tagliente donata dalle labbra piene che, ripiegandosi sulle gengive, iniziano ad assottigliarsi, seguendo la direzione indicata dalla cicatrice che le sfregia. È ancora lì, spessa, solida, inguardabile — gli attraversa la guancia, tortuosa, e scende fino al mento. Cristo, diretto al patibolo, ha percorso lo stesso cammino.
Tocca la catenina d'argento e la croce adagiata sul petto magro. Sotto di essa, possente, emerge il collo taurino del mastino che ha tatuato sulla pelle. Quando trattiene il respiro, la carotide divide il cranio del cane a metà.
Guarda la testa rasata, il taglio irregolare, i peli radi che bordano il labbro superiore, interrompendosi lungo la cicatrice per poi riprendere dal lato opposto. Gli occhi grandi, di un verde spento, esaurito, sono incavati, perennemente tristi e lontani. Pendono verso il basso, sfiorando la cima degli zigomi sporgenti. Il riflesso gli ammicca, imitandolo. Lo beffa, divertito, ridendo di lui e del suo corpo scheletrico.
Si infila sotto la doccia, beandosi del sollievo portato dall'acqua calda che gli scivola addosso in sottili corsi deviati dalle ossa sporgenti. Si ramificano, assottigliandosi, e lo sfiorano con un'attenzione reverenziale, adorando ogni angolo, ogni piano, ogni piccolo neo che gli scurisce la pelle, segnata da reticoli di vene violacee e lividi che non ricorda di essersi procurato. Si accuccia sul pavimento unto della doccia, incastrando la testa tra le gambe in un vano tentativo di congelare l'asse terrestre ed arrestare la rotazione del pianeta. Il bagno continua a vorticare, trascinandolo con sé nella lenta ed inesorabile discesa verso lo scarico di metallo, bordato di ghirigori di sapone al sandalo. Si sente scivolare anche lui, piegato nell'angolo, tremante, nudo come un verme, consapevole di aver raschiato il fondo del sudicio barile in cui si è infilato, inchiodando il coperchio: pensa al tempo che passa; alle quarantotto ore trascorse senza che lui se ne rendesse conto; ad Ettore - arrotolato ai piedi del letto - e ad Emiliano, unici spettatori del teatrino che ha imbastito, rendendo la propria vita uno spettacolo per cui applaudire, un trafiletto di critica su uno stupido giornale per intellettuali privi di fantasia.
È una vita concettuale, la sua, composta da pochi, essenziali elementi selezionati accuratamente: un cane, un appartamento sfatto, un amico bastardo da cui, vicino alla soglia dei trent'anni, non riesce ad allontanarsi, bloccato in una morbosa simbiosi iniziata ai tempi del liceo, quando i rapporti affettivi sono patti di sangue, la lealtà la più grande delle virtù e la solitudine la nemesi da cui fuggire. Patetico.
Milo, poggiato contro il tavolo, lo aspetta a braccia incrociate. Tito, uscito dalla doccia, non presta attenzione alla sua presenza: si ferma in mezzo al corridoio - un rettangolo di due metri per uno, abbastanza grande da contenere, sui lati più lunghi, la porta del bagno e quella della camera da letto - e ricambia il suo sguardo senza ritrarsi, vestito solo della sua croce d'argento e dell'asciugamano che gli è scivolato sulle spalle. Lo affronta come avrebbe dovuto affrontare il proprio riflesso: a testa alta, ricacciando la vergogna nelle profonde cavità del suo spirito. È più difficile con Milo: a confronto, consapevole del corpo sano nascosto dalla tuta informe, del volto lavorato accuratamente, tagliato nei punti giusti dalla mascella definita e dalla linea del naso, si sente una larva. Il suo sguardo lo marchia a fondo, graffiandolo.
«Sei 'no scheletro» si limita a commentare, riportando gli occhi chiari all'altezza dei suoi, «stai a mangià?»
«Tutti i giorni, du' volte al giorno» ribatte ironico, sgusciando nella camera ed aprendo l'armadio, «tranquilla, mà.»
Si infila i jeans scoloriti, stringendo la cinta di un paio di buchi in più rispetto alla volta precedente, si fa scivolare la maglia bianca oltre la testa e poi, dopo essersi spruzzato il profumo su entrambi i polsi, premendoli sul collo, torna in salone, girando teatralmente su se stesso.
«Me porti a cena e non me fai manco 'n complimento? Guarda che me so' vestito bene solo pe' te.»
Gli strappa un sorriso; un ghigno che, prepotente, gli piega gli angoli della bocca verso l'alto, costringendolo a passarsi una mano sul viso.
L'ascensore del condominio è una scatola di metallo con una capienza massima di tre persone, ma lo specchio che copre la parete di fondo, riflettendo le porte scorrevoli e la scialba pittura arancione, lo rende più ampio, concedendogli un po' di respiro. Milo, improvvisamente rilassato, coglie la sua provocazione, tirandoselo contro il petto e chinandosi in avanti, le dita che, attraverso la stoffa consunta dei pantaloni, tracciano cerchi immaginari. Tito, divertito, lo lascia fare: il suo respiro, leggero, gli corre lungo il collo, solleticandogli il retro della nuca in sussurri disarticolati e suoni privi di significato. I loro riflessi, scuriti dalla patina che ricopre il vetro, si scontrano violentemente, tingendo corpi che faticano a mescolarsi: uno caldo, acceso, rifinito da un rosso bordato di rame e castano, e l'altro più cupo, sulla scala cromatica del grigio e del nero. La vita e la morte che si toccano e si dissolvono.
«Sei bellissima, principé» gli mormora nell'orecchio, guardandolo attraverso lo specchio, «ma preferisco le bionde.»
Tito ride, sguaiato, con il capo reclinato all'indietro, gli occhi chiusi ed il naso arricciato. La sua voce, potente, riempie l'abitacolo. È assordante, infantile, isterico, eppure Milo non riesce a fermarlo: lo lascia ridere, concedendogli quel breve momento di gioia, e quando Edoardo L. - secondo piano, prima porta sulla destra - li raggiunge, lo tira per un braccio, incoraggiandolo a farsi da parte.
Edoardo L. è un trentacinquenne dallo spessore pressoché inesistente, un uomo scialbo, insipido, il cui unico scopo nella vita - nonché unico obiettivo degno di nota - è pagare le tasse, evitando le cartelle di Equitalia. Gli basta incrociarlo in ascensore - borsa a tracolla, camicia che lascia intravedere la pancia, principio di calvizie - per ricredersi: Tito è una scoria, un rifiuto, un calcolo renale in procinto di essere espulso, ma Edoardo L. è il figlio mediocre di un mondo altrettanto mediocre e privo di ambizioni. Vestito nei suoi mocassini e nei pantaloni beige, gli rivolge lo stesso sguardo altezzoso e sprezzante che da ragazzino - una testa calda come tante altre - faticava a sopportare. La vita è un porcile, e la gente come Edoardo L., anonima ed ordinaria, versa la sbobba ai maiali.
Lo sguardo, ostinato, è fisso sull'angolo in alto a destra dell'ascensore: si concentra sulla polvere accumulata in cima allo specchio, in un vano tentativo di sopprimere le occhiate furtive che, nervose, saettano verso gli altri due. Ha qualcosa da dire. Tito glielo legge sulla faccia sudata, sulle piccole labbra che, increspandosi, si aprono e si chiudono come quelle di un pesce che gira e gira e gira rincorrendo il mangime, inconsapevole di trovarsi in una boccia di vetro e di essere destinato allo scarico del cesso.
«Tito,» esordisce Edoardo L., schiarendosi la gola, «ma che devi fare con quel cane? Ha passato tutto il fine settimana ad abbaiare. Te lo dico — sai che non voglio, ma se continua così sarò costretto a chiamare l'amministratore.»
Magnifico, il dilagante perbenismo dell'essere umano; i modi posati e l'espressione benevola che emergono quando, di fronte ad un ostacolo, c'è bisogno di aggirarlo senza acciaccare la merda che lo circonda. Sotto il sorriso di plastica ed il finto rammarico, trattenuto dai pori occlusi della pelle grassa, unta come la sua onestà, la soddisfazione gli lubrifica l'ego, dandogli l'impressione di essere poco più alto, poco più grande, poco più importante di Tito e dell'insopportabile cane che si porta appresso, quel cucciolo bastardo che gli toglie il sonno e lo costringe a battere sul soffitto con il manico della scopa. «Sai che non voglio». E quando mai. Non vede l'ora, la gente come lui.
Tito gli si avvicina, stringendogli le spalle.
«Sarai costretto?» domanda, accigliato, «E chi è che ti costringe?». Gli dà un buffetto sulla guancia, rivolgendogli un sorriso. Edoardo L. è uno dei tanti insoddisfatti che fa scontare le proprie pene ai vicini rumorosi e ai camerieri che gli portano la carne troppo cotta. «Nun te preoccupà così tanto, che poi te cascano i capelli.»
Milo sghignazza, estraendo una sigaretta dal pacchetto di Marlboro rosse che tiene nelle tasche, insieme alle chiavi e al portafoglio. Se ne fa scivolare una tra le labbra, tastandosi i pantaloni in cerca dell'accendino. Tito gli porge il suo - blu, scolorito, mezzo scarico - e si guadagna una pacca d'apprezzamento.
«La senti 'sta puzza de silicone, Emilià?»
Ride, scuotendo piano la testa.
«No, Levriè» risponde, seguendolo fuori dall'ascensore. Si ferma sulla soglia, abbastanza vicino da riuscire a vedere le lievi rughe che bordano gli occhi piccoli e annacquati di Edoardo L. Potrebbe passare oltre, raggiungendo Tito in corridoio, ma non lo fa, prendendo una boccata di fumo ed accennando all'uscita: «permesso.»
Per un istante, racimolata ogni goccia d'intraprendenza che possiede, l'uomo sostiene il suo sguardo, sollevando il mento. Poi, però, torna a guardare l'angolo in alto a destra, scostandosi.
«Grazie.»
Milo circonda le spalle di Tito, tirandoselo contro, e gli colpisce l'orecchio con due dita, strappandogli un'altra risata. Prima di arrivare al cancello, Edoardo L. blocca le porte dell'ascensore, affacciandosi sull'atrio. Da quell'angolazione tutto ciò che riescono a vedere è la faccia ovale e paonazza, illuminata dal lampadario attaccato al soffitto.
«Non si fuma sulle scale!» esclama.
Si ritira nel suo guscio di metallo, simile ad una testuggine impaurita, ma i due se ne curano a malapena, stringendosi nelle felpe: fuori, occlusa da una distesa di nubi scure, la luna illumina una Roma immersa nell'umidità autunnale, riversandosi sulle strade deserte. Tiburtino - statico, costellato di auto parcheggiate, riverse lungo i marciapiedi come carcasse spolpate - è un'enorme scacchiera di cemento congelata in uno stallo: gli edifici, immobili e silenziosi, sono parallelepipedi di cemento che emergono dalle crepe nell'asfalto, circondando la zona. Non un movimento, non un suono — osservano la scena, puntando gli occhi rettangolari verso l'avversario.
A pochi passi dal cancello, circondati da pareti di plastica che trattengono il calore delle stufe, i tavoli del ristorante brulicano di ospiti chini sui piatti. Dal posto che gli riservano - accanto ad una famiglia di quattro persone e dietro a due uomini in giacca e cravatta dall'aspetto curato, professionale, impegnati in quella che pare una conversazione di lavoro - Tito riesce a vedere il balcone di casa sua, con i vasi vuoti e le inferiate sbarrate. Ettore, probabilmente, sta grattando la serranda, sperando di aprirsi un varco verso l'esterno e raggiungere, così, quel padrone che venera con la cieca, commovente fedeltà dei cani.
In attesa dell'antipasto, immersi nel piacevole tepore che si espande dalle stufe, ordinano una birra a testa. Il viso di Milo è illuminato per metà, e le lingue di colore si rincorrono sulla sua guancia, levigandone i tratti per poi, stanche, depositarsi tra le ciocche ramate, abbastanza lunghe da lasciarsi stravolgere dalle dita. Lo fa spesso, quando è nervoso — una delle poche abitudini di cui, nel corso degli anni, non è riuscito a liberarsi. Ce l'ha, il fascino, e mentre lo guarda, seguendo il gioco di luci con fare assorto, inizia a comprendere le donne che - ammaliate, incantate dalla bellezza tagliente, quasi rozza - decidono di credere alle sue parole, facendosi abbindolare dal carattere carismatico e dagli occhi chiari, pragmatici, apparentemente sinceri. È un ottimo manipolatore, Milo, ma non in sua presenza.
«M'hai fatto preoccupà» gli dice, continuando a guardare la strada.
«Sì, se non m'avessi trovato me sarei preoccupato pure io. Non me ricordo 'n cazzo.»
«Guarda che se continui così t'ammazzi, e io ar camposanto non te ce vojo portà.»
«E allora nun me ce portà» scherza Tito, spingendo le bucce di formaggio ai bordi del piatto, «ce stanno 'n sacco de altre soluzioni.»
Milo, velenoso, si tira indietro, umettandosi le labbra con la punta della lingua. La bottiglia di Heineken, velata di condensa, gli bagna la pelle.
«Te pensi de esse' divertente?»
No, non lo pensa: i muscoli indolenziti non sono divertenti, e non lo è neanche il prurito che gli corre lungo il braccio. Si gratta fino allo sfinimento, adornando i buchi della siringa con escoriazioni che si aprono, si seccano e poi, stimolate dalle unghie rovinate, si aprono ancora. Sgrana gli occhi, battendo ripetutamente le palpebre: quello destro, attraversato da un capillare perennemente scoppiato che lo divide a metà, inizia ad affaticarsi, e la vista si abbassa impercettibilmente, disturbata da una nebbia sottile, traslucida, che ricopre gli oggetti di vapore. Se le porta addosso, le conseguenze dei Condotti; le indossa con la stessa, passiva incoscienza con cui, al mattino, Edoardo L. si infila i mocassini di camoscio.
«No» ammette candidamente. Si tocca l'anulare, indicando le mani scoperte di Milo: «la fede te la sei persa?»
Lui fruga nelle tasche, estrae il pacchetto di sigarette e lo rovescia sul tavolo. L'anello, dopo qualche giro di assestamento, si ferma, riflettendo il colore aranciato delle stufe. Un esile cerchio di metallo, senza inizio né fine: è così che dovrebbe essere l'amore, eppure Milo, sposato da più di due anni, lo nasconde, sottraendosi alle proprie responsabilità. Dimentica la moglie, la vita coniugale, il tetto che condividono, la modesta illusione che hanno costruito ed in cui Bea, ignara - o, forse, consapevolmente cieca -, si crogiola come una falena alla luce di una lampada, in attesa di bruciarsi. La mancanza di rimorso, quando si infila la fede, tornando ad essere l'uomo sposato che fino ad allora ha ripudiato, lo disgusta. Non ci sono ripensamenti né rammarico, solo l'egoismo di chi, concentrato su se stesso, non è in grado di definire le conseguenze delle proprie azioni.
«Contento?»
«Molto» risponde Tito, «sei un caso clinico, cazzo. Da quale sei stato? Le hai promesso che lascerai tua moglie? La borsa gliel'hai già regalata?». Prende un sorso di birra, scuotendo la testa con disappunto. Accanto a loro, la famiglia si confida: lui ha discusso con un collega; lei racconta di un cliente capitato in negozio; i bambini, silenziosi, ascoltano, ridendo di tanto in tanto. «Mi chiedo quando la smetterai.»
«Che c'è» ribatte Milo, sospirando, «la vuoi pure tu la borsa?»
Il cameriere porta via i piatti, sostituendoli con due pizze: una margherita per Milo ed una Napoli per Tito, che fatica a guardarlo negli occhi. Nel corso degli anni c'è stato un momento - un istante di cui nessuno ha memoria, forse insignificante, innescato da una parola di troppo, da un evento, da una realizzazione - in cui Milo è cambiato, sopprimendo il proprio passato come si fa con gli animali che, in procinto di morire, soffrono senza comprenderne il motivo. Ce l'hanno tutti, un momento simile, ma pochi cambiano volto in modo così radicale e crudele, estirpando la propria essenza.
«Oggi puzzi» esordisce Tito, ignorando la sua affermazione.
«Solo parole buone, insomma.»
«Sai più de peperoncino che de menta, c'hai qualcosa da dimme?»
Gliela sente addosso, la reticenza, più forte del suo odore naturale, più resistente dell'acqua piovana che trasuda dalla preoccupazione. Ogni stato d'animo, al naso di Tito, lascia una traccia, e quelli di Milo, che ormai conosce a memoria, che percepisce sulla lingua, disciolti nella saliva, riesce a distinguerli con una facilità disarmante. Dopo i Condotti abituarsi è stato difficile, e la tentazione di smettere di respirare, cadendo in apnea fino a farsi scoppiare i polmoni, è stata forte, sovraccarico di odori e sensazioni, tormentato da emicranie costanti. Una conseguenza del trauma, hanno detto i medici. E Tito l'ha accettato, perché non poteva fare altro.
Milo, colto in fallo, stringe la forchetta fino a far sbiancare le nocche, concentrandosi sulla propria pizza. È agitato, ed è così insolito, per lui, che Tito piega il capo da un lato, curioso.
«Ieri ho incontrato il Coyote» dice, senza lasciar trapelare nulla oltre ad una semplice, piatta constatazione, «Nicola, te lo ricordi? Il tipo che — »
«Il bastardo che te perculava quando eravamo ragazzini» lo interrompe, annuendo. È un ricordo lontano, eppure, una volta estratto, fiorisce maestoso, travolgendolo: gli tornano in mente la voce acuta, simile ad uno spillo conficcato in mezzo alla fronte; gli occhi scuri, piccoli, celati dietro sopracciglia folte sovrastate da una zazzera di capelli neri; la rabbia che provava accanto a lui, ascoltandolo; la sgradevole sensazione, dopo averlo incontrato, di essersi calato in un luogo sporco ed inospitale. «Certo che me lo ricordo, ai tempi l'ho corcato de botte. Ha imparato a chiude' quella fogna che c'aveva al posto della bocca.»
La mano di Milo, incerta, fluttua di fronte al petto, sfiorando lo sterno con la punta delle dita. È un gesto insito nella memoria muscolare, che entrambi hanno ripetuto per anni, giurando qualcosa di cui, in realtà, non hanno mai compreso la natura. Emiliano, ai tempi, era un ragazzo riservato, silenzioso, che parlava poco, i cui movimenti erano frammentati da tic nervosi che, suo malgrado, non riusciva a controllare. Quello - quel gesto innocuo, quel trascinare le dita da un capo all'altro del petto, tracciando una linea netta e verticale - era il loro modo di comunicare, di esprimere l'affetto e la gratitudine che provavano l'uno per l'altro: (ecco, se potessi mi aprirei il petto, toglierei tutto e ti farei guardare all'interno, dimostrandoti la mia onestà, permettendoti di raggiungere il mio cuore, la parte più profonda e fragile del mio essere). Gli manca. Per un attimo, mentre Milo si ricompone, prova l'irrefrenabile impulso di imitarlo e chiedergli di continuare, di portare a termine ciò che ha iniziato.
«Adesso c'ha 'na ditta e 'na casa al mare» continua, «e pensare che al liceo —»
«E pensare che al liceo era 'na testa de cazzo» termina Tito, stringendo i pugni sul tavolo.
Da piccolo Nicola era un parassita, un virus che, per sopravvivere, si insinua nell'organismo dell'ospite, succhiando via ogni sacca d'energia. Ha massacrato Milo per anni, e la vita l'ha ricompensato con una villa al mare ed una carriera di successo. Spera, almeno, che si sia redento, facendo ammenda per le manie, l'insicurezza e la frustrazione repressa. Nonostante tutto, Tito non si pente di quello che ha fatto: gonfiarlo di botte, al tempo, l'ha soddisfatto, e sentirlo chiedere perdono, mormorando il proprio dispiacere come una preghiera, è stato crudelmente appagante.
«Almeno s'è scusato? Per quello che t'ha fatto passà, intendo.»
«No, ma sembra 'n brav'uomo» risponde Milo, riflettendo ad alta voce. «M'ha parlato della cena.»
«Quale cena?»
«Quella co' la classe, te sei scordato?»
All'espressione vacua dell'amico, gli concede un sorriso, tornando ad indossare la sua maschera imperturbabile. Il sorriso, però, non raggiunge gli occhi.
«Lucia ha chiamato tutti, ha organizzato 'na cena pe' riunisse. Discute' della vita, degli obiettivi che non avemo raggiunto... 'ste stronzate qua. Aò, ne abbiamo parlato sabato mattina, ma ce sei o ce fai?»
Evita di dirgli che, di quella conversazione, ricorda poco e niente. La telefonata di Lucia, però, gli torna in mente, spiacevole ed inaspettata come lo può essere solo un frammento della propria adolescenza. Gli ci era voluto qualche secondo, quella sera, per collegare il nome ad un volto, ed il volto ad una persona: nella sua testa, Lucia era ancora la rappresentate di classe con lo chignon ed i libri di Pasolini nello zaino. Fatica ad immaginarla adulta, e si chiede se, nella borsa, nasconda ancora Una vita violenta.
«Ah, giusto» commenta, annuendo, «il gran gala dei rimpianti e delle occasioni perse. Me immagino lo spettacolo, io co' sta faccia e te col tuo pseudo matrimonio e la sfilza d'amanti. Che figurone.»
«Mejo della ditta e della casa al mare» ride Milo.
Attorno a loro, però, oltre alla pesante nota del peperoncino, dilaga l'odore insistente ed universale della menzogna, simile alla carta bruciata. Tito arriccia il naso, massaggiandosi il collo. Mastica lentamente, continuando ad osservare Emiliano: ha la stessa espressione colpevole e sfuggente di Edoardo L., anche se più raffinata.
«Tutto bellissimo» riprende, pescando un'alice dal piatto, «ma non è questo che dovevi dimme, ve?»
«Bea è incinta.»
Lo confessa d'un fiato, sputando fuori quell'affermazione come se, tenendola ancora sulla lingua, rischiasse di soffocare. Solleva le sopracciglia, annuendo, ma il fatto non lo sorprende: Bea è una donna dalla bellezza incredibile, delicata e minuta; un fiore che, sbocciando in primavera, si ritira una volta arrivato l'autunno, intimidito dal freddo. È giovane, bella, innamorata, ed il suo istinto materno è emerso con la forza di un cataclisma, distogliendo Milo dalle proprie, insane abitudini. Sarebbe successo, prima o poi.
«Ah, però» commenta, «e quindi?»
«E quindi niente. Volevo dirtelo.»
«Felicitazioni. Se è maschio dovreste chiamarlo Giuda, soprattutto se prende la tua faccia.»
«Sento che dice Bea e te faccio sapé. Farai il padrino?»
Tito si ferma - calmo, controllato - e si preme una mano al centro del petto, dove il cuore si gonfia fino ad insinuarsi nello spazio tra le costole, comprimendo il resto degli organi. È una richiesta intima, carica d'aspettativa, ed in quell'istante, a dispetto del tavolo che c'è a separarli, torna a sentire la vicinanza di un tempo, quell'affetto puro e travolgente che, da ragazzini, gli impediva di allontanarsi, rendendoli dipendenti dalla presenza dell'altro, dai silenzi, dalle dichiarazioni fatte senza parlare. Erano adolescenti difficili carichi di speranze represse; adesso, invece, sono adulti problematici e disillusi.
«Sento che dice Bea e te faccio sapé» lo beffa lui.
Gli fa pena, Beatrice, ma detesta il modo in cui lo guarda, tirando via Milo come se Tito, in qualche modo, fosse in procinto di scoppiare, perdendo il controllo di sé. A volte, quando scambiano poche parole di cortesia, ignorando il disprezzo che giace tra loro, Tito vorrebbe strapparle quel sorriso dalle labbra e raccontarle tutto — di Emiliano, delle sue storie, dei tradimenti, delle notti in cui, non volendo tornare a casa, crolla sul suo divano, pregandolo di non svegliarlo più, né la mattina né i giorni a seguire. Lasciarlo dormire per sempre, accucciato in una zona protetta.
La nebbia si è fatta più fitta, costringendolo a stringere le palpebre. Si strofina l'occhio destro, ma quando lo riapre il piatto è ancora sfocato e le tempie gli pulsano ritmicamente, contorcendogli il volto in una smorfia.
«Dovresti mettere gli occhiali» gli mormora Milo, quasi gli stesse confidando un segreto.
«Ce vedo bene.»
«Infatti so' occhiali da riposo. Hai sentito che ha detto il dottore —»
«Famo un brindisi» lo interrompe Tito, sollevando il bicchiere. È stanco dei medici, delle visite, delle luci puntate addosso, di esibirsi come un fenomeno da baraccone. Non è un'attrazione da circo, eppure tutti sembrano pensarlo: lo toccano, lo manipolano, infieriscono, si intromettono — improvvisamente, ha una calca di gente ai piedi pronta ad occuparsi della sua salute, ma questo solo finché non dice o non fa o non pensa qualcosa di sbagliato, spezzando l'incantesimo. Giocano alle crocerossine. «A quel disgraziato de tu' fio, nella speranza che te sistemi per bene.»
Ridono, bevono, si ubriacano e, per qualche ora, stretti in un ambiente circoscritto, dimenticano tutto: chiacchierano, con le ginocchia che si sfiorano sotto al piccolo tavolo, e la decomposizione di Tito si arresta; scherzano, costruendo vite fittizie per i vecchi compagni di scuola - ormai sconosciuti - e Milo, sazio, assopito, finge di essere un altro, calandosi nell'ennesimo ruolo della giornata.
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