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Capitolo tre

Il suono della morbida erba sotto i suoi piedi stava diventando assordante. Stringendo i denti contro l'ennesima ondata di dolore, Bedwyr si costrinse a continuare a muoversi. Sapeva che se si fosse fermato avrebbe rischiato di cadere, e non si sarebbe rialzato.

Non era neanche sicuro di volerlo. Aveva trascorso il tempo trascorso dalla propria fuga ascoltando la voce nella sua mente che gli gridava di sopravvivere, ma ogni sorso d'acqua che riusciva a strappare al ruscello che scorreva allegro tra gli alberi tra cui si era rifugiato aveva lo stesso sapore del veleno.

Il suo posto era tra la polvere, accanto a Pedrawt. Il solo fatto che stesse ancora respirando doveva essere un errore.

I ricordi di ciò che era successo dopo che lo aveva visto cadere erano sempre più confusi, come se non appartenessero nemmeno a lui. Il più vivido era quello del momento in cui si era strappato la freccia dalla mano – il lampo di dolore che aveva tinto il suo campo visivo di bianco e il grido che gli aveva bruciato la gola.

Sua madre sarebbe venuta a consolarlo – suo padre sarebbe rimasto al suo fianco fino a quando non fosse riuscito a fermare il sangue. Ma loro non c'erano più.

Un soldato lo aveva trovato poco dopo la ritirata, disorientato e in lacrime. Bedwyr non riusciva a ricordare il suo nome, ma il suo volto per un momento gli era parso quello di Pedrawt, e gli aveva parlato con la stessa voce rassicurante che aveva usato lui. Non era servito a placarlo.

I momenti successivi erano immersi nel torpore. Lo stesso uomo lo aveva condotto in una casa sconosciuta e aveva tentato, senza troppo successo, di curargli la mano, sebbene lui non gli avesse rivolto la parola. La figlia del soldato, una ragazza esile e pallida, gli aveva rivolto sguardi timidi e preoccupati e offerto cibo e acqua, ma Bedwyr non aveva parlato neanche con lei.

Non appena era stato in grado di reggersi in piedi, non appena si era ricordato che nessuno aveva sepolto Pedrawt, aveva ripreso le proprie armi ed era fuggito. Non aveva fatto in tempo a ringraziare i suoi salvatori, ma sapeva che non sarebbe vissuto abbastanza a lungo da rivederli.

Non credeva di essere tanto lontano dalla sua meta. Ora non sapeva più dove stesse andando.

La febbre era calata su di lui come un falco, rovente e spietata. Bedwyr non si era fermato, pregando che bastasse a non permetterle di prenderlo. Ma si stava impadronendo della sua mente, e lui non sapeva quanto tempo avesse passato a girare in tondo, in cerca di una strada che avrebbe dovuto conoscere e che pareva mutare costantemente di fronte ai suoi occhi stanchi.

Le forze non lo avevano abbandonato del tutto, anche se non era certo di quanto tempo gli restasse. Non aveva abbandonato la lancia – la cui punta ancora riluceva del sangue degli assassini di Pedrawr – se non per pochi momenti quando la sua mano destra si era fatta insensibile. Ma già non sentiva più la sinistra. Era stato fortunato che la freccia non si fosse spezzata nella carne, e la ferita aveva tentato di richiudersi, ma i bordi erano rossi e gonfi, malamente sovrapposti e incrostati di sangue e pus. Aveva passato le ultime ore a resistere all'impulso di riaprire lo squarcio e a guardarlo il meno possibile, ma sapeva che lo avrebbe ucciso presto.

Non avrebbe permesso nemmeno a quello di fermarlo. Non aveva ancora raggiunto il proprio obiettivo.

Mentre avanzava nel folto della boscaglia e i suoi piedi calpestavano le felci, alla sua mente affiorò ancora una volta il ricordo di una vecchia ninnananna, delle dita affusolate di sua madre che gli accarezzavano i capelli e della sua voce che gli cantava delle battute di caccia di suo padre e degli animali uccisi dalla sua lancia. Sperava almeno che Pedrawt potesse udire di nuovo quella canzone ora, che avesse ritrovato il sorriso che aveva perso alla morte della moglie, tanti anni prima.

Sperava di rivedere entrambi.

Vacillò e si appoggiò a un albero, ignorando la puntura del tronco rugoso contro la sua pelle. Non aveva più l'armatura con sé, ma la sua non sarebbe stata la morte di un guerriero. Una fila di formiche stava passando vivace ai suoi piedi, ignara della sua presenza. Intorno a lui, il tempo continuava a scorrere normalmente.

Sollevò gli occhi e scorse il bel sole della primavera tra le frasche. Quello gli sarebbe mancato, ma non poteva restare.

Poi un suono nuovo si fece strada tra il cinguettio degli uccelli, costringendolo a tornare vigile. Si aggrappò a un ramo e riprese l'equilibrio, trattenendo un gemito.

"Non ho ancora capito perché sei voluto venire fin qui." Una voce maschile, limpida e ferma, e il suono attutito di zoccoli sul terreno. Qualcuno si stava avvicinando, e non si stava preoccupando di nascondersi.

Bedwyr inspirò e appoggiò la lancia al terreno per il tempo necessario a rimettersi stabilmente in piedi. Poteva comprendere le parole, e non erano ostili – ma non poteva essere certo che, chiunque avesse parlato, non avrebbe tentato di colpirlo, una volta che l'avesse visto, più simile a una bestia che a un essere umano. Ora che il suo stesso corpo stava minacciando di distruggerlo, sarebbe potuto essere un atto di pietà.

La risposta alla prima voce serpeggiò tra le fronde. "Fidati di me." Parole spensierate, pronunciate con sicurezza, nonostante, dal suono, il suo proprietario paresse anche più giovane del compagno. Un cavallo nitrì, spaventando un merlo che saltellava su un ramo vicino e che volò via in un frullo nero. Bedwyr lo osservò con scarso interesse prima di tornare ad ascoltare le parole degli sconosciuti, sempre più chiare e vicine.

"Mi fido di te e ti seguirei nell'Annwn, se me lo chiedessi" rispose la prima voce. "Ma non c'è più niente, qui. Neanche i morti."

Bedwyr sorrise tra sé. Almeno ora aveva la conferma che continuare a muoversi non era più necessario – qualcuno si era occupato di portare i cadaveri via dal luogo in cui la vita era stata loro strappata. Non avrebbe mai dovuto lasciare vivo il campo di battaglia, ma presto, molto presto, avrebbe posto rimedio al proprio errore. Doveva solo attendere che gli sconosciuti gli arrivassero vicino e pregare che ponessero fine alla sua vita. Sarebbe stato rapido, più sopportabile della lenta putrefazione che lo attendeva, e meno doloroso di quanto meritasse.

Il suono degli zoccoli cessò, e il canto della foresta riprese indisturbato. La seconda voce parlò di nuovo, ancora una volta in un tono leggero che pareva incarnare la primavera stessa. "Ho fatto un sogno."

L'istante di silenzio che seguì spinse Bedwyr ad avvicinarsi ulteriormente. Non si preoccupò di nascondere la propria presenza, ma nessuno dei due estranei parve notarlo. "E forse anche questa volta non significa nulla" riprese la voce. "Ma se ho ragione, essere qui oggi non ci porterà che fortuna."

Era giunto abbastanza vicino da vederli chiaramente, ora – due giovani forse della sua età e due cavalli, bestie dall'aspetto forte e robusto, il primo dal manto grigio e lucente, il secondo marrone chiaro. I loro proprietari erano smontati e avevano lasciato andare le redini, ma loro aspettavano, silenziosi e pazienti.

I due gli davano le spalle. Non l'avevano visto, e dovevano essere troppo distratti per udirlo. Entrambi portavano lunghi mantelli bianchi intessuti d'oro che li rendevano ben visibili nella vegetazione. Chiunque fossero, non si aspettavano di incontrare pericoli. Uno dei due stava accarezzando il mantello del cavallo grigio, e Bedwyr vide chiaramente il pesante bracciale aureo che portava a un polso scintillare attraverso la luce che penetrava tra i rami. Il secondo, molto più alto del compagno, voltò la testa per dire qualcosa, e lui notò una rada peluria bionda sulla sua guancia. Non aveva sbagliato quando aveva immaginato che fossero ancora dei ragazzi.

Non si aspettavano un attacco, o perché troppo inesperti per pensare che la foresta nascondesse una minaccia, o perché troppo sicuri che la loro ricchezza li avrebbe protetti. Da quella posizione, Bedwyr non poteva nemmeno accertarsi che fossero armati. Non erano venuti fino a lì per cacciare o combattere.

Ma lui avrebbe comunque fatto un tentativo.

Sollevò la lancia, respingendo in fondo alla mente il modo in cui la mano libera continuava a pulsare, emerse dalla penombra che lo aveva nascosto e si scagliò contro gli stranieri con un grido. Non aveva intenzione di ferirli, ma li avrebbe spaventati abbastanza da costringerli a reagire. Lo avrebbero creduto un pazzo disposto a tutto, e forse avrebbero avuto ragione.

I due si voltarono bruscamente e sguainarono le spade con un gesto rapido. Sembravano buone armi, lunghe e robuste. Se fossero stati capaci di usarle, non avrebbe sofferto ancora per molto...

Il più alto dei due si pose davanti all'altro – il movimento fu così rapido che Bedwyr quasi non lo notò – ma esitò ad attaccarlo. Entrambi portavano l'armatura, e avrebbero potuto difendersi facilmente, prendendo tempo per salire sui loro cavalli e galoppare via.

E lasciarlo lì fino a quando la febbre non avesse finito il lavoro.

Non era quello il fato a cui voleva andare incontro. Forse avrebbe dovuto pagare per essere fuggito, ma non sapeva per quanti giorni avrebbe agonizzato prima della fine, e non voleva rischiare di scoprirlo. Non avrebbe avuto il coraggio di gettarsi sulla lancia. Quelle spade erano la sua unica possibilità.

Abbassò la lancia e si scagliò contro il suo avversario. Sapeva come uccidere, ma non era sicuro di essere ancora in grado di farlo. Non voleva. L'armatura avrebbe dovuto proteggere l'altro, ma vedersi in pericolo lo avrebbe dovuto spingere al contrattacco.

Quando si rese conto che lui non si sarebbe fermato, il ragazzo sussultò e cercò di spingere via il compagno con la mano libera prima di fare un tentativo di allontanarsi a sua volta dalla traiettoria dell'affondo.

Fu troppo lento – o forse era solo Bedwyr a sentire nelle vene un'energia che non aveva avuto neanche durante le poche vere battaglie che aveva combattuto, se non quando aveva tentato di vendicare suo padre. La lancia lo colpì di striscio, probabilmente senza danneggiarlo, ma l'impatto fu sufficiente a fargli perdere l'equilibrio con un urlo soffocato, più di sorpresa che di dolore.

Il secondo straniero sussultò nel vedere l'altro cadere, poi si voltò verso Bedwyr con gli occhi che fiammeggiavano, i muscoli tesi pronti all'attacco. Ma si immobilizzò quasi subito, abbassando di poco la spada. "Mi ricordo di te" disse molto piano.

Lo aveva già visto. Riconosceva i suoi occhi. Ma non riusciva a ricordare...

Vacillò e si chiese se avesse ancora la forza di reggere un altro assalto, e il suo nemico ne approfittò per chiudere la distanza tra di loro prima che lui avesse l'occasione di colpire. Era troppo vicino per usare la lancia. Bedwyr tentò per istinto di sottrarsi alla spada che vedeva arrivare, anche mentre la sua mente gli ripeteva di stare fermo e lasciare che la lama lo prendesse, ma il colpo giunse di piatto sulla sua spalla destra e non fece più che lasciargli un livido e intorpidirgli anche il braccio sano.

Attese ancora per un impercettibile istante, ma la lama non tornò ad abbattersi su di lui per ucciderlo. Fu più la frustrazione che il lampo di dolore che dal braccio sinistro risalì fino alla sua testa a spingerlo ad attaccare di nuovo.

La lancia non gli sarebbe servita a quella distanza. Non appena l'altro parve giudicarlo inoffensivo e abbassò la spada, gli diede una spallata in pieno petto sufficiente a coglierlo di sorpresa e a farlo rovinare sull'erba come era successo al suo compagno.

Raccolse la propria arma con studiata lentezza – questa volta non avrebbero potuto fare a meno di convincersi che avrebbe potuto ferirli – ma quando il ragazzo che aveva appena battuto sollevò la testa, i suoi occhi stavano brillando, e non di collera. Si mise in ginocchio, rinfoderò la spada e sogghignò, pulendosi il viso con il dorso della mano. "Non siamo mai stati destinati a ucciderci qui" commentò tranquillo, e la sua voce costrinse Bedwyr a fermarsi. "Il tuo nome?"

"Arthur!" sbottò il giovane biondo, accorrendo al suo fianco. "Non è il momento!" Aveva recuperato la spada, ma si fermò quando l'altro gli strinse una spalla, senza dire nulla.

Le energie che avevano sostenuto Bedwyr iniziarono a sparire, sostituite da una nuova ondata di dolore accecante. Barcollò e si appoggiò con la schiena all'albero più vicino finché non si sentì in grado di respirare di nuovo. Ansimando, alzò il mento e guardò il proprio avversario negli occhi. "Bedwyr ap Pedrawt" sibilò. Il dolore tornò a crescere, come se fiamme gelide stessero bruciando sotto la sua pelle, e considerò di rivolgere la lancia contro se stesso pur di farlo cessare, ma non ne ebbe il coraggio. "Per favore..."

"Bene, Bedwyr" proseguì la voce, e anche mentre la sua vista si stava annebbiando la dolcezza con cui il suo nome era stato pronunciato gli diede conforto. La frase successiva mostrò più compiacimento che l'ira che si era aspettato. "Da oggi potrai vantarti di avere sconfitto Arthur ab Uthyr."

Mentre iniziava a perdere i sensi, Bedwyr sapeva cosa significassero quelle parole. Se si fosse risvegliato, avrebbe avuto molte spiegazioni da dare.

                                                                                                       ...

Le mani di Mairenn erano sempre state forti, ma ora la loro presa gli stava quasi facendo male. Bedwyr si chiese silenziosamente se stesse cercando di sostenerlo o di aggrapparsi a lui. Almeno sentirla al proprio fianco gli permetteva di restare ancorato alla realtà.

Camminare stava diventando sempre più difficile, e avrebbe voluto convincersi che fosse solo per via della gamba non ancora del tutto guarita. Ma era stato lui a insistere per tornare lì, nel luogo in cui tutto era crollato.

A Camlann.

Non avrebbe dovuto farlo. Era quasi certo che, se avesse abbassato gli occhi, avrebbe rivisto i corpi che avevano macchiato per sempre l'erba verde della piana. Avrebbe rivisto il sangue sprizzato dalla schiena di Amren, gli occhi azzurri di suo figlio fissi ad accusarlo della sua fine.

Ma i morti non c'erano più. La pianura era di nuovo serena e verdeggiante come lo era stata prima della battaglia, punteggiata di piccoli fiori che si agitavano nella gentile brezza della tarda primavera, e se non fosse stato per il vuoto che gli lacerava il petto avrebbe potuto credere che tutta la morte a cui aveva assistito fosse stata solo un incubo.

Qualcuno aveva portato via i caduti. Chiunque regnasse a Celliwig se ne sarebbe dovuto occupare, ma non sapeva neanche se ci fosse ancora un sovrano o se Cynric o un altro dei tanti re dei Sassoni avessero già preso il trono che gli era stato consegnato dal tradimento. Forse non erano neanche rimasti abbastanza uomini da trasportare tutti i cadaveri né abbastanza donne per piangerli.

Eppure qualcuno doveva avere approntato le pietre che, silenziose e pacifiche, si ergevano contro il cielo purpureo del tramonto.

Non aveva il coraggio di avvicinarsi, ma si costrinse a farlo comunque. Mairenn, al suo fianco, rimase in silenzio, continuando a seguirlo e a stringerlo sempre più forte. Il loro respiro era impercettibile, offuscato dal ronzio delle api. Ora che i corvi se n'erano andati, il campo pareva un luogo bellissimo in cui riposare.

Sapeva che Myrddin aveva eretto simili pietre molti anni prima – aveva anche visto la Danza dei Giganti con i propri occhi. Ma non poteva essere stato lui a creare il circolo roccioso che si trovava di fronte a lui. Se Myrddin non se ne fosse andato, sarebbe stato in grado di salvare Arthur.

Forse era stata Dioneta, tornata per dire addio al fratello e per proteggere il suo corpo, come lui non era stato capace di fare. O forse Taliesin era riapparso per onorare i guerrieri che non avevano potuto udire il suo canto mentre morivano.

Tentò di correre, di raggiungere le pietre, pregando che sfiorare la loro superficie potesse fargli udire di nuovo le voci dei morti. La sua gamba cedette e si trovò in ginocchio nell'erba prima che Mairenn potesse trattenerlo, ma non tentò di rialzarsi, limitandosi per un momento a rimanere a terra, mentre le corolle dei narcisi e dei papaveri ondeggiavano serene intorno a lui.

A Garanwyn e Amren sarebbero piaciuti. Ricordava i fiori che Eneuawc aveva portato tra i capelli il giorno del suo matrimonio e il sorriso radioso che aveva rivolto al fratello e al marito.

Mairenn lo chiamò e accorse al suo fianco, costringendolo a rimettersi in piedi. Bedwyr non la guardò, continuando a fissare il cerchio. Poteva quasi udire le voci dei suoi compagni chiamarlo. Cystaint, Lluch e Sywyon, Gwalchmei, Gwalhavet e Llacheu, Garanwyn, Cei e Amren.

Ma non Arthur. Lui non era lì. Non poteva esserlo, se la promessa che aveva fatto a Bran il Benedetto era stata vera.

Non poteva esserci alcuna tomba per lui, quando era destinato a tornare.

Perché te ne sei andato?

"Dovremmo tornare indietro" mormorò Mairenn, così piano che il suo sussurro a malapena riuscì a infrangere il silenzio. Bedwyr annuì, rendendosi conto solo allora delle lacrime che gli rigavano il viso.

Sarebbe dovuto restare a contemplare il risultato del tradimento che non era riuscito a prevedere. Ma se lo avesse fatto, forse non sarebbe riuscito a resistere al richiamo che emanava dal cerchio di pietre, e non poteva permettere che accadesse. Non prima di avere saputo fino a che punto Camlann avesse distrutto il regno che aveva servito.

Mairenn si strinse a lui prima di condurlo gentilmente via. Bedwyr si impose di non guardarsi indietro. Ci sarebbe stato tempo per tornare lì una volta che avesse compiuto il suo dovere.

Celliwig li stava ancora aspettando.

                                                                                  ...

Olwen posò la spoletta e passò una mano sugli occhi arrossati. Sapeva bene che non era per via della stanchezza. Continuò a ripetersi che si stava fermando solo perché la luce stava finalmente calando, sopraffatta da nubi grigio scuro che promettevano di riversare la loro acqua da un momento all'altro, ma la verità era che, sebbene Culhwch fosse tornato, in tutto il tempo che era trascorso dal tradimento di Medraut era diventato difficile fare qualcosa di diverso dal fissare il vuoto e tentare di non pensare al campo di battaglia.

Sapeva che per Culhwch era lo stesso. Lo aveva sentito agitarsi tra gli incubi per quasi tutte le notti che erano trascorse da quando aveva visto morire gli uomini con cui aveva combattuto. Anche quando lei lo aveva stretto a sé e gli aveva accarezzato i capelli, il suo tremito non si era placato.

Mairenn non sembrava stare molto meglio. Quando era tornata da Camlann, saldamente aggrappata al braccio di Bedwyr, la sua espressione era stata indecifrabile, ma Olwen l'aveva sentita piangere non appena aveva creduto di essere rimasta sola. Non sapeva se fosse per il ricordo della morte di Goreu e Amren o per lo sguardo ancora privo di vita del suo amante o per le sue visioni, ma non aveva il coraggio di chiederglielo.

Respirare sarebbe tornato a essere più facile – dovevano solo attendere alcuni mesi, come aveva fatto lei da bambina, quando sua madre era morta. Ma sentiva, dentro di sé, che questa volta sarebbe stato diverso. Il mondo in cui si era trovata dopo la morte di sua madre era lo stesso di prima, l'erba dell'Irlanda aveva avuto la stessa morbidezza e lo stesso colore brillante e suo padre aveva continuato a ridere di lei e dei suoi tentativi di allontanarsi come aveva fatto fin dal primo momento in cui lei aveva rifuggito il tocco delle sue dita insanguinate.

Questa volta, non era stata solo lei a cambiare. Non aveva ancora avuto il coraggio di allontanarsi da casa abbastanza a lungo da rendersi conto di cosa la morte di Arthur avesse comportato. La lenta guarigione di Bedwyr era stata solo un pretesto per ritardare il più possibile il momento in cui avrebbe dovuto sapere.

Un giorno o due sarebbero bastati a prepararsi per tornare a Celliwig e vedere con i loro occhi se fosse già troppo tardi. Erano passati anni dall'ultima volta che vi aveva messo piede, ma aveva sperato di tornare in circostanze diverse.

Non era prudente partire e rischiare di avventarsi tra le fauci della corte di Cynric o di chiunque si fosse impadronito del trono, ma dubitava che Culhwch e Bedwyr volessero ascoltarla, e lei non aveva intenzione di lasciare che suo marito se ne andasse da solo. Non di nuovo.

I suoi pensieri si interruppero bruscamente. Avrebbe riconosciuto ovunque il suono dei passi di Mairenn che si avvicinavano, rapidi e leggeri. Si sentì come se qualcuno le avesse spinto degli aghi sotto la pelle.

La voce, flebile e timorosa, dell'amica la raggiunse da dietro. "Olwen..." "Cosa hai visto?" le rispose, voltandosi bruscamente. Qualunque fosse stato il contenuto della visione, avrebbe promesso solo altro sangue e altro dolore.

Lo sguardo di Mairenn – a malapena presente – non fece che confermare i suoi sospetti, ma le parole non erano quelle che si era aspettata. "So chi possiede Caledvwlch ora" sussurrò l'altra, la sua voce innaturalmente lenta e calma.

La frase era stata pronunciata così piano che, per un momento, Olwen non fu in grado di comprenderla. Quando la sua mente capì, il suo cuore ebbe un sussulto. Non avrebbe saputo dire se fosse per la speranza o per la paura di ciò che Mairenn avrebbe potuto rivelare.

Culhwch aveva ragione. Caledvwlch era solo una spada. Ma per anni, per tutti coloro che avevano combattuto al fianco di Arthur e creduto che potesse salvarli, era stata molto di più. Era stata il simbolo che avevano seguito, e ogni goccia di sangue scivolata sulla sua lama aveva sussurrato una promessa di vittoria.

Vederla in mano nemica sarebbe stato come vedere riaperte le ferite dei morti di Camlann.

Olwen deglutì. Bedwyr avrebbe voluto sapere, ma non dubitava che Mairenn gli avrebbe nascosto la verità, se avesse rischiato di farlo sprofondare ulteriormente nell'abisso in cui si trovava dal giorno della battaglia. Lei stessa non era certa di volerla conoscere. "Dimmelo" mormorò a propria volta.

Mairenn schiuse le labbra per parlare, ma un rumore proveniente dall'esterno la costrinse a voltarsi verso la porta. Olwen sentì il gelo che pareva averla avvolta farsi più intenso.

Qualcuno, all'esterno, stava per raggiungere la loro casa. Il nitrito di un cavallo risuonò brevemente, seguito dal suono degli zoccoli sul terreno. Il rumore era troppo forte per essere prodotto da un animale solo, e si stava facendo sempre più vicino.

Lei e Mairenn si scambiarono un'occhiata. Era probabile che coloro che si trovavano là fuori – Sassoni o meno – fossero uomini senza più padrone in cerca di prede, o forse superstiti di Camlann che, dopo aver finito di saccheggiare il campo di battaglia, avevano deciso di spingersi oltre. Sapevano entrambe cosa sarebbe successo se qualcuno avesse tentato di entrare con la forza e le avesse trovate. Culhwch e Bedwyr almeno non avevano perso le proprie armi, ed era possibile che qualcuno degli schiavi sapesse combattere, ma forse non sarebbe stato sufficiente. Non sapevano nemmeno chi fossero i loro nemici e quanti potessero essere.

Fece un cauto passo indietro, sapendo che sarebbe servito a poco se chiunque si fosse trovato all'esterno avesse voluto aggredirla. Si avvicinò istintivamente a Mairenn e si ripromise che non sarebbe vissuta abbastanza a lungo da piangerne la morte come aveva fatto con Goreu.

Qualcuno bussò alla porta – freneticamente, ma senza tentare di forzarla. Poi giunse la voce, profonda e limpida, percorsa dall'agitazione. "Olwen? Ti prego..."

Sapeva chi stesse parlando. Non si era aspettata di vederlo di nuovo, un giorno – era passato così tanto tempo dall'ultima volta che lo aveva visto – ma lo riconosceva. La tensione che teneva in ostaggio i suoi muscoli svanì, e non si rese conto di quanto piano avesse respirato fino a quando l'aria non tornò a riempirle pienamente i polmoni con un sussulto quasi doloroso.

Le bastò guardare Mairenn per vedere che anche lei aveva rilassato le spalle e le sue guance ripreso colore. Forse, ora avrebbero avuto qualcuno in più con cui parlare della sua visione. Avrebbero potuto fare qualcosa di diverso che restare fermi ad aspettare che il mondo crollasse del tutto.

Le parve di muoversi come in sogno mentre si spostava per aprire la porta.

Aveva riconosciuto la voce. Ma non era preparata a vedere le tre figure alla sua porta. Trasalì e fece un passo indietro mentre la luce morente del sole illuminava i loro volti, segnati dallo sfinimento e dal lutto ma ancora vividi nella sua memoria. Erano stati presenti al suo matrimonio, erano rimasti al fianco di Arthur negli anni che erano seguiti, e lei non li aveva dimenticati del tutto.

"Voi?" 




Note dell'autrice:

Pais Dinogad: la ninnananna che ho citato nel flashback. La sua presenza è una licenza poetica perché è effettivamente antica (viene attribuita a Aneirin e se ciò fosse vero sarebbe già di fine VI/inizio VII secolo), ma probabilmente non così antica (qui siamo tra la fine del V e l'inizio del VI secolo). Mi sembrava però una buona idea citarla. Qui sotto una versione particolarmente bella per chi volesse ascoltare:

https://youtu.be/s2jOPcNm4I0

Magia, preveggenza e incantesimi: mi sembra corretto fare una nota onnicomprensiva subito. Il concetto di bardo in questo contesto non indica semplicemente un musicista, ma anche qualcuno in possesso della capacità magica derivata dalla parola. E Artù è definito "bardo" sia nelle Triadi Gallesi sia nel Dialogo di Artù e dell'aquila e probabilmente anche altrove (in questi testi non solo parla con gli animali, ma gli viene anche attribuita la capacità di rendere la terra sterile per sette anni, anche se onestamente non so se questo sia attribuito a un potere magico o se sia un modo per indicare un guerriero particolarmente feroce). L'attribuzione di poteri (anche se molto blandi) di preveggenza (che è un tipo di potere completamente diverso da quello di un bardo) deriva invece dal fatto che nell'Historia Brittonum di Nennio il veggente che prevede la morte di Vortigern non è Merlino (come accade dall'Historia Regum Britanniae in su) ma Ambrogio Aureliano, che successivamente diventa zio paterno di Artù. Lo stesso Merlino nella sua concezione attuale è possibilmente una sorta di personaggio composito tra Ambrogio e Myrddin, un bardo della seconda metà del VI secolo (vissuto quindi molto dopo Vortigern e completamente slegato dal contesto arturiano) - la spiegazione potrebbe essere più complicata di così, ma questo sembra abbastanza plausibile. Inoltre Uthyr/Uther, sempre nelle Triadi, conosce uno dei tre incantesimi dell'isola di Britannia. Diciamo quindi che la magia sembra essere di famiglia, anche se per quanto riguarda la preveggenza in questa storia il più grande rappresentante resta Myrddin/Merlino, seguito da Mairenn che è, per l'appunto, un personaggio originale. Per finire, alla corte di Artù nella tradizione gallese (e talvolta anche in quella romanza, ma il cast non è decisamente lo stesso) appaiono diversi guerrieri dotati di poteri magici, come lo stesso Cei o Menw fab Teirgwaedd, allievo di Uthyr stando alle Triadi. Siccome questo è un fantasy, sfrutterò la cosa il più possibile.

Danza dei giganti: un cerchio di pietre, identificabile con Stonehenge. La tradizione al riguardo è abbastanza ricca, ma in questo caso faccio riferimento alla versione dell'Historia Regum Britanniae, in cui Merlino trasporta le pietre dall'Irlanda alla Britannia per costruire una sorta di monumento ai guerrieri morti seguendo Ambrogio. Il cerchio diventa in seguito la tomba di Ambrogio e di suo fratello Uther.

Tomba di Artù: nel Libro nero di Carmarthen, viene esplicitamente detto che se Artù ha una tomba, non si sa dove sia.


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