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Capitolo cinque

I muscoli del braccio destro, dopo giorni di riposo forzato, avevano iniziato a dolergli prima del previsto, ma Bedwyr continuò ad aggrapparsi alla lancia. Se gli era servita a sopravvivere così a lungo, non l'avrebbe lasciata andare finché avesse potuto. Inspirò e sollevò il braccio libero per asciugarsi la fronte.

Questa volta, riuscì a fermarsi in tempo.

Il suo corpo rimase paralizzato troppo a lungo prima che riuscisse a costringerlo a obbedirgli. Inspirò e concentrò la propria attenzione sul braccio, saggiando il peso della lancia, ascoltando le fugaci fitte che gli percorrevano la spalla e tentando di comprendere se dovesse fermarsi o continuare a compiere gli stessi movimenti, lenti e regolari, fino a quando non fosse stato certo di avere ripreso il controllo di sé.

Era un bene che riuscisse finalmente a muoversi, anche se passava ancora la maggior parte delle mattine a desiderare di poter affondare nel suolo e fondersi con la terra. Si affaticava più in fretta di quanto aveva creduto possibile – la prima volta che era stato in grado di mettersi in piedi, dopo che la febbre se ne era andata, lo sforzo l'aveva lasciato madido di sudore e aveva dovuto attendere un tempo interminabile per compiere i primi passi – ma, se Morgan Tudd avesse avuto ragione, avrebbe presto riguadagnato del tutto le forze.

Tutto sarebbe tornato come prima. Provò a ripeterselo, a non pensare al marchio nella sua carne che, per quanto il suo stesso corpo tentasse di ignorarlo, si ostinava a non svanire.

Gettò uno sguardo allo scudo abbandonato al suolo, bianco di polvere. Avrebbe dovuto provare a prenderlo in mano. Maneggiare la lancia o la spada non gli sarebbe servito, se non avesse potuto difendersi dal primo affondo che un nemico avesse rivolto nella sua direzione.

L'immagine del pallore mortale sul viso di Pedrawt, del sangue che colava dal suo addome, l'eco del rumore metallico del suo corpo che cadeva su altri corpi gli invasero la mente.

Il ricordo fu abbastanza vivido da seccargli la bocca e portare un velo di freddo sul suo corpo. Bedwyr scosse la testa come se potesse bastare a scacciarlo. Era stato uno stolto. Gli era bastato abbassare la guardia per un istante perché la memoria tornasse.

Ma non poteva cedere ai suoi assalti, per quanto potesse volerlo.

La lancia rischiò di scivolare dal suo palmo sudato. Si chinò a poggiarla, rabbrividendo, e si strinse nel mantello. Quando abbassò lo sguardo, il verde cupo di cui era tinta la lana gli riportò alla mente gli alberi che lo avevano circondato e tra i quali aveva cercato la morte – ma fu solo per un attimo. L'indumento era morbido e caldo e non impacciava i suoi movimenti. Per quanto semplice, il tessuto era gradevole e ben filato sotto le sue dita.

Arthur aveva fama di essere un signore generoso, e che i suoi comandanti non avessero cercato di approfittare della sua giovane età ne era la prova, ma lui non si era aspettato di ricevere un dono. Sapeva che doveva essere un tentativo di comprare la sua lealtà, anche se non avrebbe saputo dire perché il re desiderasse tanto averlo al proprio fianco piuttosto che tenerlo come uno dei tanti soldati al proprio servizio. Eppure non aveva intenzione di lamentarsene, non quando le notti erano ancora così fredde.

Il sorriso di Arthur, quel giorno nella foresta, era stato così luminoso.

Quando il calore della stoffa ebbe offuscato il gelo dei cadaveri sul campo di battaglia, si costrinse a chinarsi per raccogliere la lancia. Gli era stata salvata la vita perché tornasse a combattere. Quando il suo corpo fosse stato pronto, non avrebbe potuto permettere alla propria mente di frenarlo.

Si diresse verso lo scudo, accovacciandosi per afferrarlo. Sentì la mano sinistra rispondere al comando della sua mente, la familiare contrazione delle falangi e dei tendini, il breve lampo del dolore che gli attraversò i muscoli e infine le dita che si chiudevano stringendo la presa.

Lo scudo rimase a terra, e lui rimase a fissare il moncherino con cui terminava il suo polso. Non c'era più una mano che potesse muovere.

Il suo respiro tornò a farsi troppo rapido. Serrò la mascella fino a farsi male, come se potesse essere sufficiente a impedire all'aria di sfuggirgli. Si sarebbe dovuto abituare alla vista di quel troncamento innaturale. Aveva visto soldati tornati dal campo di battaglia senza una gamba e senza un occhio, e coloro che non erano morti urlando tra il fetore del sangue e della malattia erano riusciti a continuare a vivere nonostante le mutilazioni che li segnavano. Per lui non sarebbe stato diverso. Non aveva altra scelta che adeguarsi.

Ma sarebbe stato difficile, finché il suo corpo si fosse ostinato a fargli percepire una parte di lui che non c'era più.

Si allontanò dallo scudo con un movimento brusco, come se si fosse trovato di fronte a un piccolo incendio. Non avrebbe potuto comunque impugnarlo contemporaneamente alla lancia. Avrebbe dovuto imparare a combattere senza affidarvisi, o avrebbe dovuto rinunciare alla protezione che gli era stata offerta.

Forse si sarebbe dovuto semplicemente arrendere. Nessuna scelta gli avrebbe permesso di presevare la vita e l'onore, di raggiungere lo scopo che si era imposto di cercare.

"È tardi. Non dovresti essere qui."

Bedwyr sussultò e si alzò, voltandosi di scatto. Il movimento rischiò di sbilanciarlo, ma riuscì a mantenere l'equilibrio. Sebbene i suoi occhi si fossero abituati alla penombra, impiegò ancora qualche istante per assicurarsi che la figura che si ergeva di fronte a lui corrispondesse all'immagine che la voce aveva suscitato nella sua mente.

Arthur non era diverso da come era parso l'ultima volta che lo aveva visto, sebbene in quel momento il suo viso fosse più disteso e i suoi occhi meno scintillanti. Se fosse stato immobile più a lungo, sarebbe quasi potuto apparire una statua, con la sua postura attentamente eretta e la luce che scivolava sul pallore della sua pelle, gettandogli ombre sul viso. Portava sulle spalle un mantello di un rosso purpureo, e quando mosse pochi altri passi in avanti – un movimento deciso, come se quel semplice gesto bastasse a reclamare la terra sotto i suoi piedi – la fibula ricurva che ornava l'indumento emise un bagliore aureo sotto la luna nascente.

Eppure sembrava così giovane. Era più basso di lui, e la lievissima ombra nera sul suo volto non si poteva certo definire barba. Dimostrava la sua stessa età, se non, forse, un anno in meno.

Ma lui non gli doveva solo l'obbedienza destinata a un comandante e un sovrano. Doveva anche essergli grato per averlo tenuto in vita, anche se non era ancora certo che fosse stato ciò che il suo spirito aveva desiderato.

Esitò a rispondergli, cercando una traccia di collera nel viso dell'altro, senza trovarne. Arthur non incrociò il suo sguardo. "Dovresti riposare" proseguì. Bedwyr ebbe la sensazione di percepire la cura con cui stava modulando la voce, e si domandò di nuovo se nascondesse una minaccia. La compassione che gli era stata mostrata sarebbe potuta non durare per sempre.

Il vento sollevò il mantello di Arthur mentre lo superava. Al di sotto, il suo corpo era più esile di quanto apparisse a prima vista. Gli diede le spalle, in modo che lui non potesse leggere la sua espressione, e rimase a osservare lo scudo in silenzio prima di parlare di nuovo. "Mi dispiace per tuo padre."

Bedwyr si irrigidì, indietreggiando istintivamente. "Come..." si lasciò sfuggire. Arthur sollevò lo scudo e tornò a guardarlo, un sorriso spento a segnargli il viso come una ferita. "Cei ti ha sentito parlarne nel sonno. Posso immaginare il resto" spiegò gentilmente. Distolse lo sguardo, alzando la mano libera per assicurare meglio il mantello intorno al proprio corpo. "Mio padre... il mio vero padre... non mi ha tenuto con sé abbastanza a lungo perché potessi piangerne la morte" ammise. "Ma se fosse Cynyr ad andarsene immagino che potrei capire perché fossi..."

Folle?, pensò Bedwyr, ma si guardò dal parlare ad alta voce.

"Sconvolto" concluse l'altro. Strinse lo scudo a sé come se ne stesse cercando la protezione. "Non posso ridarti ciò che hai perso" aggiunse. "Non posso restituire a nessuno ciò che è scomparso. Ma voglio ottenere una vittoria che possa vendicare quelle perdite, che possa essere un motivo di sperare di nuovo..."

Sembrava parlare più a se stesso che a lui, e Bedwyr desiderò credergli. Si trovò a sperare che quella parvenza di sincerità non fosse contraffatta.

Ascoltando le sue parole, per un attimo il suo cuore stanco aveva reagito, e lui aveva provato il desiderio di seguire il giovane che gli stava di fronte. Di restare al suo fianco per contribuire alla vittoria che cercava.

L'istante successivo, gli occhi di Arthur brillarono in un lampo d'argento mentre il suo sguardo si faceva più presente. Tornò da Bedwyr ad ampi passi, pesanti e misurati, e gli porse lo scudo. Tornò a sorridere quando, dopo un momento di esitazione, l'altro allungò la mano, cercando la cinghia e stringendovi finalmente le dita in una presa non ancora abbastanza salda. "Troveremo un modo" disse.

Si allontanò, rapido come era arrivato, quasi senza fare rumore, questa volta, e all'altro non rimase che restare immobile e aggrapparsi allo scudo, chiedendosi se avesse semplicemente sognato ciò che aveva udito.

"Ma perché risparmiarmi?" sussurrò. "Perché scegliere me?" Non si rese conto di avere formulato i propri pensieri fino a quando non vide Arthur voltarsi di nuovo.

"Perché avere un alleato in più non potrà che darmi la forza di cui ho bisogno" rispose, "e sapevo, prima ancora di vederti combattere, che... che il giorno del nostro incontro avrei trovato qualcosa di prezioso. E perché..." I suoi occhi tornarono assenti, ma la luce che ancora una volta li animava non era, forse, dovuta solo al riflesso della luna. "Come potrei salvare la terra, se lasciassi morire insensatamente un uomo?"

Riprese il suo cammino, confondendosi sempre di più con le ombre. Bedwyr lo seguì con lo sguardo fino a quando non fu più in grado di distinguerlo.

Anche se Arthur era parso sincero, era improbabile che il futuro di cui aveva parlato si avverasse, come non si era avverato sotto suo padre. Gli anni lo avrebbero reso un re indegno, o lo avrebbero ucciso prima che potesse raggiungere il proprio obiettivo. Eppure...

Bedwyr rafforzò la presa sullo scudo. Eppure voleva sperare. Se quel futuro, in qualche modo, si fosse realizzato, lui voleva vederlo.

...

Dall'ampia aula giungeva, ancora ben udibile, un vociare confuso. Custennin non conosceva abbastanza bene la lingua dei Sassoni da sapere di cosa i guerrieri di Cynric stessero parlando, ma, a giudicare dal tono cupo, non stavano gioendo per la loro più recente vittoria, per quanto grandiosa.

Poteva comprendere il perché. Gran parte dei loro compagni non avevano mai lasciato il campo di battaglia. Ricordava i loro corpi, anche se non avrebbe saputo dare un nome a nessuno di loro, e il loro sangue mescolato a quello dei Britanni.

Ma non ci sarebbero più state battaglie. Ora che era lui a sedere sul trono, non ci sarebbe stato bisogno di versare altro sangue. Camlann era bastata.

Mosse qualche passo, sperando che la distanza bastasse ad attutire il lamento di quelli che un tempo erano stati suoi nemici. La loro lingua non avrebbe dovuto risuonare in quel luogo.

Eppure, ora che Celliwig era quasi vuota, ogni suono pareva rimbombare in un eco senza fine. Continuava a credere che i guerrieri che vi avevano dimorato potessero tornare, e che allora avrebbe udito di nuovo le loro voci, ma il tempo passava e l'aula restava fredda e priva di vita.

Non avrebbe rivisto quegli uomini. Lui stesso aveva calpestato i loro corpi, facendosi strada tra l'erba insanguinata per raggiungere ciò di cui aveva avuto bisogno. Ma nel silenzio, a volte, credeva ancora di sentirli chiamare.

Si fermò, cercando disperatamente di concentrarsi sulle parole dei Sassoni. La loro strana lingua sarebbe sempre stata più gradevole dei fantasmi che continuavano ad aleggiargli intorno.

Presto sarebbero scomparsi. Non aveva alcun motivo di pentirsi. Aveva fatto ciò che era giusto – e sarebbe stato ripagato, quando la terra fosse guarita. Aveva ormai rimosso tutti gli ostacoli che lo avevano separato dal suo obiettivo, e non c'era nessuno in grado di fermarlo, ormai. Non più.

Il tocco già freddo della mano di Bedwyr, nell'istante in cui aveva resistito intorno all'elsa di Caledvwlch, sembrava permanere ancora sulla sua pelle.

Scosse la testa. Aveva vinto. Dopo tutti gli anni che aveva passato a sognare, non osava ancora crederlo – ma aveva vinto. Non aveva motivo di pensare al passato, quando il futuro che lo attendeva era tanto lucente.

Non importava come la spada fosse arrivata al suo fianco. Solo che ora fosse nella sua mano.

Ora che la stringeva, pareva quasi insignificante, una lama come tutte le altre. Nient'altro che un lungo, affilato prolungamento in ferro, con un'elsa di semplice legno a cui si aggrappavano alcuni residui di bronzo, forse risalenti ancora all'epoca dell'addio di Roma. In pugno a suo zio, il suo bagliore era stato quasi accecante.

Non era stata forgiata per una mano come la sua, liscia e mutilata. Quando l'aveva sollevata per la prima volta, il suo peso gli era parso quasi insostenibile. Ma con il passare dei giorni stava diventando una presenza familiare contro il suo fianco sinistro, e presto si sarebbe abituato all'idea di possederla.

Aveva lottato a lungo per ottenerla, ma non sarebbe mai riuscito a impugnarla se non ne fosse stato degno. Ora nessuno avrebbe dubitato che lui fosse l'erede di Arthur, neanche il suo stesso cuore.

Eppure lui non sarebbe stato un sovrano come suo zio. Sarebbe stato diverso – la sua condotta sarebbe stata più assennata e il suo dominio più solido. Cynric doveva essersene accorto, anche se Custennin non era ancora certo che il lupo che si nascondeva sotto la pelle del re fosse del tutto placato. Ora doveva solo convincere gli altri.

Aveva sperato che almeno i sopravvissuti di Camlann potessero restare dalla sua parte. Era stata una sfortuna che Kynnwyl, Sandde e Morvran non si fossero voluti fidare – e non poteva dimenticare la morsa gelida che gli aveva serrato lo stomaco alla consapevolezza che non avevano creduto all'illusione che aveva costruito con tanta cura. Non aveva desiderato la loro fine, ma era ormai passato il tempo in cui gli era stato possibile compiere una scelta diversa.

Sperava che non tornassero indietro. Se fossero rimasti lontani da lui, se non lo avessero sfidato oltre, lui non avrebbe avuto bisogno di sacrificare altre vite.

Avevano rovinato ogni cosa. Se non fosse stato per loro, Golwg e Celemon – e Eneuawc – avrebbero continuato ad avere fiducia in lui. Se non fosse stato per loro, non sarebbe stato costretto a fare ciò che aveva fatto.

Non avrebbe versato lacrime per Gwenhwyfach, e anche la perdita di Gwenhwyfar e Goewin era stata un prezzo accettabile da pagare. Eppure non aveva avuto alcun motivo di rivolgere i propri pensieri contro di loro. Il sangue nelle loro vene sarebbe stato un vantaggio, non un ostacolo – e non aveva dimenticato i giorni luminosi della loro infanzia, quando le risate delle sue compagne di giochi si erano unite alla sua in un'armonia che non aveva mai voluto spezzare.

Aveva trascorso troppo tempo con l'ombra nel cuore, a calcolare ognuno dei passi che l'avrebbero condotto al suo obiettivo, consapevole della fine che sarebbe calata su di lui se avesse fallito anche una sola volta. Solo il pensiero di dare a Eneuawc la notizia della morte di Bedwyr lo aveva quasi condotto a rinunciare alla vittoria che gli si era presentata.

Aveva promesso, asciugando il sangue del guerriero dalla propria lama, che non avrebbe ferito ulteriormente sua figlia. Non aveva mai voluto infrangere il giuramento, ma lei non gli aveva lasciato altra scelta.

Non le avrebbe fatto del male. Non era necessario. Ma avrebbe dovuto sopportare il suono del suo pianto ancora per qualche tempo, avrebbe dovuto sopportare il ricordo dell'odio nell'occhio sano di Celemon e della maledizione che Golwg gli aveva scagliato contro, stringendo la figlia come se potesse bastare a sottrarla al destino che spettava loro. Le loro voci erano più reali di quelle dei fantasmi, e lo trafiggevano con più violenza.

Presto non avrebbe più avuto bisogno di trattenerle. Avrebbero capito, avrebbero trovato la forza di perdonare, nel momento in cui lo avessero visto riuscire nel proprio obiettivo.

Avrebbe guidato la sua terra come Arthur non era mai stato in grado di fare.

Ma prima doveva calmarsi. Doveva tornare nella grande sala e affrontare i propri nuovi alleati, gli ospiti che si era procurato a così caro prezzo. Se non avesse trovato il coraggio di osservare il risultato di tutti i propri sforzi, non sarebbe mai riuscito a convincersi che ogni sacrificio fosse stato necessario. E come avrebbe potuto persuadere la sua gente della verità, se non riusciva a persuadere nemmeno se stesso?

Custennin inspirò, stringendosi con la sinistra le dita della destra nel tentativo di scaldarle. Celliwig era ancora troppo fredda. Il suo mantello purpureo, nonostante la brillantezza dello smalto rosso che lo tratteneva sulle sue spalle, nonostante la fitta trama accurata, ingombrava più che dargli calore. Forse sarebbe stato meglio nella sala. Almeno, sarebbe stato circondato da corpi vivi, benché sconosciuti.

Si mosse troppo velocemente, rischiando di perdere l'equilibrio. Per un istante che parve infinito il suo corpo ondeggiò sgraziatamente, e lui si maledisse. Come aveva fatto a dimenticare quanto fosse irregolare il terreno?

Si fermò di nuovo, abbassando lo sguardo e perdendosi ancora una volta nei lampi scomposti di rosso e bianco ancora visibili nelle tessere dei mosaici sbrindellati ai suoi piedi. Forse avrebbe dovuto tentare di ricostruirli, riportarli allo splendore che avevano avuto prima che l'impero li abbandonasse. Suo zio aveva affermato più volte che lo avrebbe fatto, una volta che non fossero più rimasti Sassoni da combattere.

Forse avrebbe dovuto semplicemente distruggere ciò che ne restava.

Avrebbe avuto tempo per pensarci. Aveva superato il fiore della giovinezza, ma aveva ancora anni davanti a sé. Anni in cui sarebbe stato libero di agire indisturbato e avrebbe mutato l'inverno perenne che si era posato su di loro in una nuova primavera.

E non avrebbe commesso gli stessi errori dei suoi predecessori. Non si sarebbe lasciato ingannare, e non sarebbe caduto. Nessuna torre in fiamme lo attendeva nel suo futuro.

Ripose Caledvwlch nel fodero, affrettandosi finalmente a raggiungere Cynric. Non aveva più bisogno di rimanere nascosto nell'ombra. Non ora che era lui il re.







Note dell'autrice:

-Goewin: altro personaggio inventato da me, questa volta la moglie di Llacheu.

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