Capitolo ventiquattro
Rimasi a guardare le figure di Eduar e Shyla dalla fessura della porta d'ingresso, finché non svoltarono l'angolo. Sapevo che in realtà mi avessero incaricato di rimanere nascosta perché sarei stata d'intralcio. Chiusi la porta e sfiorai la lama del pugnale, per poi riporlo nella sua custodia. La nausea mi attanagliava le viscere al solo pensiero di usarlo ancora: lo vedevo affondare nella carne di Clara e macchiarsi di sangue. Sospirai e, arresa, legai il cinturino della custodia alla coscia. Forse, nonostante tutto, quell'arma mi si addiceva: piccola, apparentemente innocua, ma letale, tagliente e subdola. Un'arma che si usa per uccidere senza essere notati. Non una spada valorosa, né una pistola rumorosa, né una lancia imponente. Ottima per un sicario travestito da brava persona.
«Andrà tutto bene» disse Lilah, mentre finiva di aiutare Vik a prepararsi per la scuola. «Torneranno in fretta e qui non ti succederà niente».
Sfogliai un altro libro di testo e lo diedi a Vik. «Lo spero».
Non avrei sopportato di non vedere più Eduar dopo ciò che era accaduto la notte precedente. C'era una parte di me che non avrebbe voluto cambiare stanza, anzi, sarebbe rimasta tra le sue braccia, ma la razionalità aveva preso il sopravvento e la ritenevo giusta. Legarsi a qualcuno che amava un'altra persona era la cosa peggiore che potessi fare. Eppure desideravo già di rivederlo, preoccupata perché i Guardiani avrebbero potuto catturarlo. Odiai questa contraddizione.
«Per essere straniera, parli molto bene l'aerisiano». Il commento di Vik mi destò dai pensieri. Lo guardai interdetta.
«Siete voi che parlate la mia lingua».
Mi rivolsero sguardi confusi per un lungo istante. Era impossibile che conoscessi la loro lingua, io ero umana e non ero mai stata ne La Gabbia. Poi però riflettei su quante probabilità ci fossero di finire in un mondo in cui si parlasse la lingua inglese, mia lingua madre, o quella italiana, con cui ero cresciuta. Erano davvero poche. Possibile che non me ne fossi mai accorta? Che mi venisse talmente naturale parlare aerisiano, da non essermi resa conto di saperlo fare?
Ripresi il libro di testo di Vik e ne lessi qualche pagina. Spiegava l'algebra. I caratteri erano simili a quelli italiani, ma le combinazioni delle lettere erano diverse. Le terminazioni delle parole ricordavano i casi latini. Assomigliava a una lingua creola, al cui interno si mischiavano sistemi morfologici e sintattici provenienti da lingue differenti.
«Ecco perché sembravo una Proiezione» pensai ad alta voce, ricordando il primo colloquio avvenuto con Eduar. La Proiezione malvagia che sarebbe insorta contro Eris e avrebbe distrutto La Gabbia, confondendosi tra gli abitanti, conoscendo la loro lingua. Era comprensibile il fatto che non si fosse fidato di me.
Aerisiano. Anche il nome del mezzo con cui comunicavano si riferiva a Eris. Tutto, in questo mondo, era creato da Eris e per Eris. L'ostilità che provavo contro di lei crebbe sempre di più.
«È ora di andare o faremo tardi» disse Lilah. Riconsegnai il libro a Vik, che si mise lo zaino sulle spalle.
«Tornerò tra pochissimo. Rimani in una delle camere sommerse» mi ordinò. Annuii e la vidi uscire di casa con il nipote.
Adesso regnava il silenzio; mi sentii sola come quando avevo passato la notte nella cella di Siderous. Andai al piano inferiore, raggiungendo la stanza in cui avevo lasciato dormire Eduar. Il fondo del mare, visibile dall'alta vetrata, mi trasmise calma. Avevo sempre amato il mare. Purtroppo, con il tempo, avevo finito per odiarlo. Da oggi farai nuoto, mi aveva comandato mia madre. Io ho sempre desiderato saper nuotare, ma tuo nonno non me lo ha mai permesso. Tu invece dovrai imparare.
A mia madre non erano state permesse molte cose. Imparare a nuotare, uscire, finire gli studi. Aveva voti mediocri a scuola e, secondo mio nonno, una donna avrebbe dovuto badare alla casa e nient'altro, quindi non le serviva il diploma. Mia madre infatti aveva acquisito la sua libertà solo dopo essersi sposata, ma era rimasta una casalinga per scelta, a detta sua.
Ti darò tutto quello che non ho avuto io, mi diceva per giustificarsi. Perciò imparai a nuotare. Diventai la più brava della classe a scuola, la bambina prodigio. Mi diplomai con il massimo a quel liceo in cui lei non sarebbe mai potuta andare. Entrai a medicina, facoltà che non avrebbe mai potuto permettersi. Eppure non era abbastanza. Non era mai abbastanza.
Aveva cresciuto una ragazza che non voleva fare la donnina di casa e non le stava bene. L'unica caratteristica in cui mia madre fosse superiore a me era quella, e non c'era giorno in cui non me lo facesse notare. Sei brava solo a studiare. Pensi che i bei voti ti rendano intelligente?
Mi piaceva il mare, ma non nuotare ore e ore, avanti e indietro, in una vasca d'acqua limitante, chiusa, opprimente, claustrofobica. Odiavo nuotare e purtroppo odiai anche il mare. Guardate quanto è brava mia figlia! esclamava, ogni volta in cui andassimo in spiaggia d'estate con i parenti. Saper nuotare era come prendere bei voti: un mezzo per rendermi un pupazzo di cui vantarsi.
Riuscii a sentire la sua voce, nella mia testa, mentre fissavo quella vetrata. La voce di quando le dissi di aver lasciato il nuoto. Quando mi rinfacciò di essere un'ingrata, una terribile figlia. Ogni mio errore era un'occasione per ricordarmi quanto non avessi valore. Non importava quanti bei voti prendessi o quanto fossi brava. Non sarei mai valsa niente.
Hai fatto bene, tanto non sei mai stata brava nel nuoto. Sei brava solo a studiare, tu. Posa quel libro e sistema la tua camera, piuttosto. «Monia! Perché c'è tutto questo disordine? Che razza di figlia sei? Monia! Hai lasciato la cucina in questo stato, ma quanto schifo fai?
Come osi rispondermi! Non capisci che rimarrai per sempre sola? È il tuo carattere. Sei tu il problema. Non montarti la testa solo perché sei entrata a medicina. Cosa? Non hai dato neanche un esame in questi mesi? Sapevi fare solo una cosa, studiare, e questi sono i risultati? Strano che tu mi chieda il permesso di uscire, hai trovato degli amici che non ti butteranno? Be', lo faranno, prima o poi; meglio non fidarsi di nessuno».
Afferrai un libro dagli scaffali e lo scagliai contro il vetro, gemendo per la frustrazione. «Stai zitta! Zitta!» urlai. Quelle frasi scorrevano nella mia testa come un fiume in piena, senza controllo, a causa dell'effetto di Somnium. Le avevo sempre tenute sotto chiave. All'improvviso la testa iniziò a dolermi.
Conoscevo quel tipo di dolore. Compariva ogniqualvolta rivivessi un frammento dei miei ricordi perduti, come era successo a Siderous.
Ricordai mia madre dirmi: tu non sei umana. Ricordai la sofferenza causata da quella frase. Poi rividi le stesse immagini che avevo visto a Siderous, ovvero sangue, sangue ovunque. «Sei tu il problema» ringhiava qualcuno. «Ti farò tornare indietro e riuscirò ad ucciderti».
Non ero entrata ne La Gabbia da sola. Mi ci aveva portato qualcuno e quel qualcuno era Eris.
Tentai di regolarizzare il respiro, come mi aveva consigliato Eduar. Potevo riprendere il controllo, nonostante l'influenza di Somnium fosse tanto potente. Mi sedetti sul letto, aspettai che il mal di testa passasse. Non vedevo l'ora di fuggire dal terzo piano. La mia testa era insostenibile. Troppe cose sotterrate.
Presi un libro a caso e mi immersi nella lettura per trovare una distrazione. Trascorsero così i minuti, mentre lessi la fiaba di una Bambola che, innamoratasi di una Proiezione, preferì morire piuttosto che cibarsi dell'amato. La morale, tuttavia, non dava ragione alla Bambola, bensì a Eris che l'aveva spinta nella condizione di scegliere se cibarsi di lui o morire. "Eris ha salvato il pover'uomo, dimostrando che le Bambole non hanno alcuna speranza di convivere con le Proiezioni, perché sono mostri senz'anima".
Ero talmente concentrata nella lettura che, quando sentii un lieve rumore, come una serratura che si apriva, provenire dalla porta, trasalii. Mi voltai per controllare, ma non c'era nessuno e la porta era chiusa. Il silenzio tornò ad avvolgere la stanza.
Posai il libro e, in piedi di fronte agli scaffali, vagavo con lo sguardo in cerca di qualcos'altro. L'attenzione venne catturata da un volume dalla copertina nera, intitolato Storie di Bambole. Mi accinsi a leggerlo, ma una voce proruppe nella quiete.
«Ottima scelta».
Tentai di voltarmi, ma non feci in tempo: denti grondanti di saliva affondarono nella carne, all'altezza del collo. Gridai. Fili bianchi mi circondarono. L'ennesima sensazione di panico si impossessò di me, offuscandomi la vista in quella camera dalla luce già abbastanza soffusa.
Ybris prosciugò parte del mio sangue, mi sentii svuotare poco per volta. Cercando di mantenere la lucidità, corsi all'indietro, facendolo sbattere contro l'altro muro della stanza, affinché allentasse la presa.
Mi strinse la gola con un braccio; lo feci sbattere ancora contro il muro ma non ero abbastanza forte. Allora divincolai una mano dai fili, afferrai il pugnale alla coscia e lo accoltellai sul fianco destro.
Lui mi mollò il collo, così potei allontanarmi. Barcollai di fronte a lui, mentre con la mano libera mi coprii la ferita. Mi usciva copiosamente sangue, colò fino al pavimento. Aveva cercato di strapparmi la pelle, non era un semplice morso.
Ybris, il volto sporco e l'espressione delirante, si mise in posizione d'attacco, con i fili che puntavano contro di me.
«Ancora tu» dissi, il pugnale sollevato. «Com' è possibile?»
«Manomettere le serrature delle porte non è difficile con questi» rispose, riferendosi ai fili.
«Che cosa vuoi? Oggi la tua padrona si è svegliata e ti ha ordinato di uccidermi?».
Entrambi ci muovevamo lateralmente, a piccoli passi, come se seguissimo la linea di un cerchio.
«Non c'entra nulla la mia padrona. Sono io che voglio ucciderti. Prima ti renderò la mia bambola, ti farò uccidere i tuoi amici, e solo allora ti prosciugherò completamente. Sarai un ottimo ultimo pasto».
Non capii perché dovessi essere l'ultimo, né per quale motivo avesse pensato a un piano così assurdo. Ci fermammo, procinti a combattere. Non avevo alcuna possibilità contro di lui, ma non potevo arrendermi subito. Se avessi resistito finché non sarebbero tornati Eduar e Shyla...
Ybris si gettò su di me. Mi difesi interponendo tra noi la piccola scrivania, che non durò a lungo, trafitta dai suoi fili. Mi spostai e, nonostante mi avesse bloccato un braccio, li tagliai prontamente.
Non avrei dovuto perdere il pugnale per nessun motivo, o sarebbe stata la fine. Schivai dei calci e riuscii ad avvicinarmi al suo fianco, che, contro ogni aspettativa, non era ancora guarito dalla pugnalata precedente. Strano: le Bambole guarivano quasi subito, quindi cosa stava accadendo a Ybris?
Mi diede un pugno che mi scaraventò a terra. Sputai del sangue a causa del labbro spaccato. I fili mi avvolsero una caviglia, ma li tagliai ancora con la mia arma. Mi rialzai, aspettando una sua mossa.
Lo sentii ridere mentre mi avvicinò a sé con i fili, stringendomi il collo, i polsi e le cosce.
«Ti ho fatta sfogare un po'» disse. «Ora basta: fine dei giochi».
Sapevo di essere in pericolo di vita. L'istinto di sopravvivenza crebbe talmente tanto che un vigore che non mi apparteneva mi permise di liberare la mano che impugnava l'arma, strappando i fili con la sola forza bruta. Avevo sperimentato un'unica volta quella sensazione: a Lycoris e sempre contro Ybris, dopo aver ucciso Clara.
Approfittai di quell'improvviso potere per conficcare il pugnale nella stessa ferita inferta pochi istanti prima e, mantenendolo all'interno della carne, lo sollevai, provocando un taglio profondo e lungo fino allo sterno.
Ybris gemette e mi fissò come se avesse visto un mostro. «Di nuovo quegli occhi neri!» esclamò.
Ancora, non lo compresi. Evitai che mi distraesse. Sentivo i muscoli pervasi da una devastante energia, infatti strappai anche gli altri fili.
«La tua ferita non sta guarendo» osservai, la voce che parve più assottigliata e perfida. Dato che era scoperto, gli tagliai il petto seguendo una direzione diagonale, attraversando il busto da una parte all'altra. La lama, lacerandolo, causò un rumore sordo e le mie orecchie goderono.
La voglia di pugnalarlo ripetutamente, tanto da distruggergli le membra e vederlo agonizzante in una pozza di sangue, si appropriò di ogni proposito di moralità. Io che, sulla Terra, avevo sempre evitato di essere aggressiva, ora bramavo violenza e non volevo moderarmi.
Ybris si difese creando uno scudo di fili. Lo spezzai con movimenti veloci e decisi, armeggiando il pugnale come se fossi nata per questo. Risi per la sua espressione confusa. Adesso sembravo io la creatura folle e delirante.
Schivai un destro, poi un sinistro. Afferrai i fili che uscivano dalla mano destra e attirai Ybris verso di me, così potevo tagliargli quelle luride dita. Impaurito, mi colpì con i fili della mano sinistra. Feci un giro su me stessa, caricai un calcio e lo colpii allo stomaco.
Lui barcollò e successe qualcosa che non mi sarei mai aspettata di vedere. Vomitò. All'inizio pensai vomitasse per il contraccolpo all'addome, ma non la smise più. Stava rigurgitando tutto il sangue che aveva bevuto da me.
Non lo ricordavo così debole. Soddisfatta, aspettai che si alzasse. Mi gettò contro prima un fascio di fili, poi un altro, e io li afferrai entrambi con una singola mano. Questa volta non puntavo alle dita, ma direttamente alla sua gola. Lo tirai in avanti e, usandola come slancio, saltai sulla scrivania accanto a lui. In questo modo mi ritrovai a mezz'aria, dietro di lui, pronta ad aggrapparmi alle sue spalle, il pugnale puntato alla sua schifosa gola. Stavo per sgozzarlo: sebbene lui stesse provando a difendersi, io sarei stata più veloce. Ma qualcosa mi distrasse.
«Monia! Stai bene?».
Lilah.
La donna aprì la porta, precipitatasi al piano di sotto perché, probabilmente, rientrando in casa aveva notato che la serratura della porta fosse stata forzata. Quella minuscola svista mi costò cara. Ybris mi afferrò per le braccia e mi lanciò contro il muro davanti a lui. Sbattei la schiena, il fiato si spezzò.
«Lilah, scappa, presto!» la implorai. Tutta la forza che mi aveva pervaso il corpo era svanita. I muscoli si svuotarono di potenza e ogni singola ferita doleva moltissimo.
Lilah, sconvolta, mi venne incontro e mi aiutò ad alzarmi. La allontanai bruscamente. «Che stai facendo? Devi fuggire!».
I suoi occhi ambrati brillarono, coraggiosi. «Non posso abbandonarti. Shyla non mi perdonerebbe mai».
Ybris avanzò. Macchiato di sangue sul petto, sul fianco e agli angoli della bocca, con i denti insalivati e gli occhi celesti spalancati che riflettevano la nostra immagine, era un vero e proprio demone.
«Che tempismo! Un ricordino da lasciare a Shyla quando tornerà qui. Sei pronta per finire all'altro mondo, nonna?».
Usando ancora un fascio di fili, lo scagliò contro Lilah. Io la difesi con il mio corpo, ponendomi di fronte a lei. I fili mi trapassarono, da parte a parte, il fianco già ferito. Provai un dolore talmente intenso che i sensi si affievolirono. Ogni cosa cominciò a sbiadire e i suoni divennero ovattati. Sentii il sapore di una striscia di sangue sfuggire dalla bocca.
Lilah mi fissava terrorizzata e impotente. Le misi le mani sulle spalle con la poca energia che mi rimaneva.
«Nasconditi e di' loro che è stato l'Orgoglio» sussurrai.
I suoi occhi non trattennero delle lacrime. Frustrata, perché avrebbe voluto aiutarmi, corse via. Se proprio avessi dovuto morire, almeno avrei salvato una vita.
«No...» Ybris mostrò disappunto. «Ho perso la preda... pazienza, non ho voglia di rincorrerla. Anche perché ne ho una più importante».
Estrasse i fili dal mio corpo. Barcollai, voltandomi verso di lui. Tremante, mi toccai il fianco: la mano si inzuppò, colorandosi di un rosso scurissimo.
«Non fai più il fenomeno, adesso» disse, ghignando. «Per tua fortuna non puoi morire, è troppo presto. Soffrirai e basta. Tranquilla, durerà poco. Però, le tue ultime ore di vita saranno intense».
Mi accasciai al suolo, sfinita e intontita. Ogni cosa, intorno, girava. Non riuscii a rimanere sveglia. L'ultima cosa che percepii fu il rumore dei suoi passi verso di me. Poi la mia coscienza scivolò via, lasciandomi inerme.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro