Capitolo uno
Il suono violento e assordante dei tuoni rimbombò, facendomi svegliare di soprassalto, il respiro affannoso come se fossi tornata da poco a respirare. Sopra di me, un cielo ricoperto di nuvole nere intersecate da fulmini viola presagiva un temporale potentissimo. Mi sollevai da terra con movimenti lenti, confusa e con la testa dolorante, incapace di riconoscere il panorama che si ergeva davanti a me. Mi trovavo all'ingresso di una città talmente buia da farmi venire i brividi. I palazzi altissimi coprivano ogni visuale, e sembravano poter essere raggiunti dai fulmini che incorniciavano quello spettacolo inquietante.
Girai su me stessa, ma ai lati e dietro di me non c'era anima viva. Le prime gocce di pioggia mi bagnarono la nuca, ma ero troppo spaventata per muovermi. Come avevo fatto a finire in quel posto? In che paese sarebbe mai potuta essere una città simile?
Mi sforzai di ricordare, ma non appena ci provai un dolore lancinante mi riempì le tempie. Mi portai le mani alla testa e mi accovacciai, sperando che passasse in fretta. Non riuscivo a ricordare come fossi arrivata lì, né cosa stessi facendo prima di arrivarci. Era tutto così confuso e sbiadito. Come se qualcuno avesse cancellato una pagina intera dal libro del mio cervello.
La pioggia si fece più fitta e cominciò a inzupparmi. Non avendo altra scelta, avanzai verso l'ingresso di quell'oscura città.
Siderous. L'acropoli di ferro, recitava il cartello. Siderous? Esisteva una città con questo nome da qualche parte sul pianeta terra? Palpai le tasche dei miei jeans, in cerca del mio cellulare. Di solito Google Maps era un buon alleato in queste situazioni, però non oggi. Rovesciai le tasche tre volte, ma del mio telefono nessuna traccia. Anzi, mi accorsi di non avere neanche il portafogli. Perfetto. Ero in una città sconosciuta, con la pioggia che si stava infilando fin dentro i calzini, senza cellulare, senza soldi e senza documenti. Ma cosa diamine mi era successo? E perché non ricordavo niente?
In preda allo stato confusionale, varcai la soglia di Siderous. Ormai non potevo fare altro che addentrarmi. Dovevo trovare un posto in cui passare la notte, o almeno in cui aspettare che l'acquazzone terminasse, per poi trovare subito un modo per tornare a casa. Ma senza soldi come avrei fatto?
Mentre pensavo ad un modo per affrontare questa assurda situazione, mi resi conto che le strade erano deserte. Nemmeno una persona che correva sotto la pioggia con un ombrello per tornare a casa, nemmeno un'auto che attraversava l'asfalto. Mi sembrava di essere l'unica persona rimasta, ma sapevo che fosse impossibile. Eppure c'era qualcosa di tetro in quelle strade, in quei palazzi grigi che sembravano fatti di ferro, qualcosa di triste e angoscioso. Dovevo andarmene il più velocemente possibile da lì.
Continuai a camminare per un po', finché non trovai qualcosa che assomigliava ad un bar. Un barlume di speranza mi illuminò lo sguardo. Avrei potuto stare lì e aspettare che terminasse la pioggia. Avrei persino potuto usare il telefono della struttura! Aprii la porta del bar, che fece un rumore metallico, e ciò che vi trovai mi intristì al punto che la mia piccola speranza si affievolì. Le pareti, i tavoli, le sedie, ogni cosa sembrava fatta di ferro. Non c'era traccia di forme di vita...nemmeno una persona che fosse passata a prendere un caffè. Mi avvicinai al bancone e, non sapendo cosa fare, domandai: «Scusate, c'è qualcuno?». La mia voce era stridula e impaurita, come quella di una bambina che aveva perso i suoi genitori mentre facevano la spesa al supermercato. Cercai di ricompormi e, dato che non arrivava nessuno, ci riprovai: «Scusate... ci lavora qualcuno qui?».
Mi sedetti su uno degli sgabelli del bancone, e il contatto con il ferro mi gelò il fondoschiena. «Ma perché è tutto fatto di metallo, qui? Accidenti» mi lamentai, guardando il sedile dello sgabello.
«Non gradisci il design del nostro locale, signorina?» chiese la voce acida di una donna di mezz'età. Trasalii portandomi una mano al petto, non essendomi accorta che fosse proprio di fronte a me, dall'altro lato del bancone. Perché non avevo sentito i suoi passi?
La donna mi osservava con un'espressione annoiata e infastidita, come se l'avessi interrotta dal fare un'attività di estrema importanza. Portava degli occhiali in punta di naso che la facevano apparire ancora più disgustata dalla mia presenza, e un vestito grigio carcere tristissimo le fasciava il fisico esile. La mano poggiata sul fianco e le sopracciglia sollevate, aspettava la mia risposta.
Mi affrettai a negare. «No, non è così, anzi, è un design molto...moderno...» dissi. «È che, da dove vengo io, si usano anche altri materiali oltre al ferro». Non volevo risultare sarcastica, ma è probabile che la frase mi uscì nel tono sbagliato. Lei, infatti, mi rivolse uno sguardo carico di repulsione. Abbastanza vitale, considerato il pallore, le guance scarne del suo viso e le radici bianche dei suoi capelli che la invecchiavano di vent'anni.
«Non tutti abbiamo la fortuna di nascere, che ne so, a Somnium o a Cerasus. Purtroppo ti dovrai accontentare» rispose, pungente. Aggrottai la fronte. Somnium? Cerasus? Di cosa stava parlando?
Notando la mia perplessità, perse la pazienza. «Allora? Vuoi il menù?» chiese mentre poggiò senza un minimo di delicatezza una lastra di ferro sul bancone. La mia bocca si aprì leggermente, incredula. Avevano anche i fogli fatti di ferro? Dove ero finita?
Tentai di concentrarmi di nuovo sul mio obiettivo. «No, grazie, non sono qui per mangiare. Avete un telefono che potrei usare, per favore?»
Stavolta fu lei a fare un'espressione stupita. «Un che?»
Sentivo che mi stava prendendo in giro, ma evitai di scaldarmi. Avevo troppo bisogno di aiuto per cedere alle sue provocazioni. «Vede, non sono di queste parti e non trovo la strada di casa... ho perso il mio cellulare e non posso chiedere aiuto a nessuno. Potrei usare il telefono che avete qui, se ne avete uno, così posso contattare i miei genitori?»
La donna non smise di fissarmi, come se stessi parlando una lingua incomprensibile. Forse non si stava prendendo gioco di me: se davvero nessuno qui avesse saputo cosa fosse un telefono? Ma era impossibile. Nel ventunesimo secolo, tutti possedevano un telefono. Persino mia nonna aveva imparato a usarlo.
Dopo qualche secondo passato a studiarmi con attenzione, qualcosa nei suoi occhi cambiò. «Ti riferisci al Metaverba?» chiese, con un tono usato appositamente per farmi sentire stupida.
Il mio stato d'animo vacillava tra l'esaurimento e l'esasperazione.
Eh? Il Meta cosa?
Prima di esprimere la mia incomprensione, però, riflettei un attimo. Se in quella strana e misteriosa città il telefono veniva chiamato in questo modo, non dovevo far altro che adattarmi. Se questo Metaqualcosa avesse funzionato, sarei potuta tornare a casa mia.
Annuii, sorridente. «Sì. Può prestarmelo?»
Dopo avermi fissata ancora qualche secondo, la donna, sbuffando seccata, sparì in una stanza sul retro. Cercò il telefono con tutta la calma del mondo, non si preoccupò minimamente di avere nel suo bar una ragazza sperduta e impaurita che non vedesse l'ora di andare via.
Dopo un tempo che mi sembrò interminabile, tornò di fronte a me. Posò sul bancone questo aggeggio -di ferro, ovviamente- dalla forma ovale. Con uno scatto sollevò il coperchio, che si aprì in due, rivelando degli strani segni in rosso, accompagnati dai numeri. Forse quello doveva essere lo schermo, anche se non c'era alcun display, solo i segni e i numeri che sembravano proiettati sul metallo.
«Prego» mi intimò l'amorevole signora. Presi l'aggeggio in mano -era pesantissimo- e composi il numero di mia madre. Non sapevo spiegarmi come, ma funzionava. Quando tentai di metterlo vicino l'orecchio, la signora mi bloccò. «Non c'è bisogno, ragazzina. Il Metaverba vi mette in contatto telepaticamente. Tutto ciò che la persona contattata ti dirà, lo sentirai nella tua testa.» spiegò, come se fosse l'informazione più ovvia del mondo. Sentii la mia pazienza crollare a poco a poco.
«Mi sta prendendo in giro?» le chiesi. Ma non fece in tempo a rispondermi, che una voce registrata sembrò parlarmi nelle orecchie, facendomi sobbalzare.
«Spiacenti, la Proiezione da lei contattata è inesistente. La preghiamo di riprovare.»
Posai l'aggeggio sul bancone, sconvolta. Cos'era? Magia? Stregoneria? Stavo sognando a occhi aperti? Cosa significava "Proiezione inesistente", poi?
La donna si stava godendo la scena, anche se vedevo fosse stranita per la mia reazione.
«Posso...» regolai il respiro per mantenere la calma. «posso provare a chiamare qualcun altro?» chiesi ancora. Lei fece un lieve cenno con il capo.
Composi il numero di mio padre. Sentii di nuovo la voce registrata. «Spiacenti, la Proiezione da lei contattata è inesistente. La preghiamo di riprovare.»
Che cosa stava accadendo? Perché mi veniva detta sempre la stessa frase?
Con le dita che cominciavano a tremare, composi il numero della mia migliore amica. Ma ottenni lo stesso risultato. «Spiacenti, la Proiezione da lei contattata è inesistente. La preghiamo di riprovare.»
Con lo sguardo preoccupato e arreso, avvicinai il Metaverba alla signora. Non sapevo nessun altro numero a memoria, ma qualunque altro numero componessi, l'esito sarebbe stato lo stesso. Ero spaventata. Non mi sembrava più di trovarmi sulla Terra.
Notai che la signora stava studiando il mio comportamento. Decisi di non farle vedere quanto fossi in ansia, così le offrii un sorriso di circostanza. «Pare che nessuno possa rispondermi, al momento. Visto che sta piovendo a dirotto, potrei aspettare qui che questo tempo si aggiusti?»
Lei mi guardò come se avesse capito qualcosa di stupefacente. Annuì ancora, non degnandomi di una parola. La ignorai e rimasi in quello squallido bar. Passavano i minuti, ma nessuno entrava lì dentro, e uscire per cercare qualcun altro era improponibile, dato che il temporale era troppo violento. Non avevo idea di cosa fare. Non c'erano telefoni sensati, la signora del bar era una stronza, prima di arrivare lì non avevo trovato nessun posto in città che potesse aiutarmi a parte enormi palazzi di ferro, e le uniche spiegazioni che mi avevano dato erano due parole: Proiezione inesistente. Parole per me incomprensibili.
Mentre stavo lì ad aspettare, la signora a volte passava a controllarmi. Mi guardava con sospetto e circospezione. Dopo avermi controllato per un po', la vidi tornare nella stanza in cui aveva preso il Metaverba.
«Qualcuno deve venire qui. Immediatamente. Secondo me non proviene da La Gabbia. C'è qualcosa di strano in lei, dovete intervenire» la sentii sussurrare. Non capivo con chi stesse parlando, né il senso delle sue parole.
«Scusi...va tutto bene?» le chiesi. Lei ricomparve dietro il bancone. «Non si origliano le conversazioni degli altri» ribatté.
Le mie labbra si assottigliarono, infastidite. Poi sospirai. «Ha ragione, mi perdoni» dissi, ma non c'era alcun tono pentito nella mia voce.
Si allontanò e io alzai gli occhi al cielo. Mi voltai e guardai dalla piccola finestra della porta. La pioggia non accennava ad affievolirsi. Ormai sembrava piovere da un'eternità. Avevo passato una buona mezz'ora in quel bar, ed ero disposta ad aspettare il tempo necessario, ma ero stanca degli sguardi ripugnanti e sospettosi di quella signora.
All'improvviso, vidi la porta aprirsi. Due uomini entrarono nel bar. La mia speranza tornò ad illuminare la situazione. Mi alzai, felice di vedere altre forme di vita oltre quella stronza di mezz'età.
I due uomini erano in forma, e portavano una tuta nera che non avevo mai visto. Fasciava ogni muscolo del loro corpo. Le spalle, la vita e le ginocchia, però, erano cinte da un ricamo spesso color argento, che spiccava sul nero. A pensarci bene, più che una tuta sembrava una divisa.
Non fui in tempo nemmeno a spiccicare parola, che si avvicinarono a me con aria minacciosa. Se prima li avevo guardati piena di fiducia, ora iniziai a preoccuparmi. Uno di loro guardò la signora, che era tornata dietro al bancone. «Va tutto bene, qui?» chiese quell'uomo, autoritario.
La signora mi indicò. «Eccola, è lei. Dice di essersi persa. Secondo me non proviene nemmeno da questo posto. Eris ci aveva avvertiti che sarebbe arrivato un nemico pericoloso!» esclamò, il viso contorto dal disgusto.
La fissai ad occhi sbarrati. «Che sta dicendo?»
«Ho chiamato i Guardiani, ragazzina. Ci penseranno loro a scoprire che cosa sei!»
Mentre continuai a fissarla incredula, quei due uomini mi presero per le spalle.
«No!» urlai, tentando di divincolarmi. «Lasciatemi stare, io non ho fatto niente!»
Ma loro non mi ascoltarono. Mi ammanettarono e mi spinsero sotto la pioggia, fuori dal bar. Mi fecero entrare in una specie di auto dalla forma ovale, che però non vidi bene a causa della forte pioggia e dello shock di essere stata arrestata per la prima volta in vita mia.
«Questo lo scopriremo dopo averti fatto un paio di domande» mi rispose freddamente uno di loro, nel momento in cui mi spintonò dentro il veicolo. Dopodiché gli sportelli si chiusero, e l'auto partì.
S|A 🌸
Ciao a tutti e benvenuti in questa nuova avventura!
Nonostante non abbia molta esperienza con il genere fantasy/avventura, ho deciso di imbarcarmi con voi in questa nave misteriosa. L'idea di Cage of dolls nasce per caso, da un racconto breve che aveva bisogno di essere esteso perché aveva troppo da dire per poter rimanere com'era.
L'avventura della nostra Monia inizia così, con più domande che risposte. Dove sarà finita, e perché?
Riuscirà a trovare tutte le risposte che cerca?
E voi, avete voglia di leggere una storia un po' fuori dagli schemi? Siete pronti a scoprire il significato di un viaggio alla scoperta di sé stessi?
Se la risposta è sì, sarei felice se mi accompagnaste in questo viaggio, facendomi sapere cosa ne pensate.
Proverò ad aggiornare una volta a settimana, purtroppo l'università mi toglie molto tempo quindi ci vorrà un pochino prima di poter arrivare a un calendario stabile.
Vi abbraccio tutti, grazie per aver letto! ❤️
-Tiní
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