Chào các bạn! Vì nhiều lý do từ nay Truyen2U chính thức đổi tên là Truyen247.Pro. Mong các bạn tiếp tục ủng hộ truy cập tên miền mới này nhé! Mãi yêu... ♥

Capitolo tredici

Esibirsi al Teatro Massimo era stato spettacolare. Tutti i ragazzi che avevano partecipato al progetto PON erano stati coinvolti, infatti l'orchestra che si venne a creare era di dimensioni pazzesche. Non ricordavo quante ore passai in quel teatro, tra prove generali e concerto: di sicuro ricordavo l'ansia da prestazione -di cui soffrivo per ogni cosa che dovessi eseguire- e il senso di piacevole libertà mentre suonavo. Purtroppo io e Clara non eravamo state scelte come compagne di leggio, ma non mi rattristai troppo: lei era finita con Carlo, un ragazzo che faceva già parte dell'orchestra in cui io e Clara aspiravamo a entrare, dopo aver concluso il PON; sapevo bene che Clara avesse iniziato a nutrire un interesse per lui, perciò fui solo contenta che potesse passarci un po' di tempo e conoscerlo meglio. Quel giorno, tra l'altro, ero così felice di essere lì, che non mi curai di nient'altro. Né della stanchezza, né dei calli ai polpastrelli che bruciavano. Nulla avrebbe potuto spezzare quell'incantesimo di gioia. Infatti, esso mi aveva inebriata per tutta la giornata, anche dopo aver finito il concerto ed essere tornata a casa, sclerando al cellulare con Clara e Rosa. Per la prima volta il nostro sogno ci era sembrato palpabile, superando la nostra fervida e ricca immaginazione. 

Sclerammo ancora di più quando, qualche settimana dopo il concerto (e quindi la fine del progetto PON), scoprimmo di essere state prese tutte e tre nell'orchestra che ci aveva dato quella opportunità: l'orchestra di MusicaInsieme. Fummo inserite sia nel coro, che nei gruppi dei vari musicisti (io e Clara chitarra classica, Rosa violoncello), e grazie a questo conoscemmo un sacco di persone nuove. Iniziammo a girare tutte le chiese di Palermo, facendo concerti per ogni occasione, comprese le feste. Ci avevano regalato la possibilità di assaporare il profumo dei nostri sogni. Non ce la saremmo fatta scappare per nulla al mondo. 

Durante tutto quel primo anno di liceo, tra drammi scolastici e compiti da fare, tra spartiti da imparare, prove, lezioni, concerti, tra tisane per rilassare la voce e calli alle dita, Clara mi iniziò a raccontare di quanto si fosse pentita di non aver scelto il liceo mio e di Rosa, che voleva imparare il greco per iscriversi nella nostra classe al secondo anno, e che stava frequentando anche altre lezioni di altri strumenti perché forse la chitarra non era il suo forte. Clara era così: una ragazza che cercava la sua strada freneticamente, che pensava di non essere abbastanza talentuosa per spiccare, che dovesse dimostrare di saper fare di più. Capivo la sua ambizione e l'insicurezza che vi si nascondeva, ma avrei tanto voluto che lei si fosse vista, anche per un solo secondo, con i miei occhi: per me era un talento. Non si dava mai per vinta, lottava per ciò a cui teneva, era forte. Io vedevo questo di lei. Anche se vi scorgevo la paura e l'insicurezza, io la vedevo. Soprattutto mentre suonava o cantava. Ma lei no.

Il primo anno di superiori passò, così come i primi nove mesi nell'orchestra, ma Clara non riuscì a cambiare indirizzo, rimanendo allo scienze umane anche per il secondo anno. Io e Rosa continuammo a stare in classe assieme e ci vedevamo anche alle lezioni di coro. Clara, invece, che oltre alla chitarra adesso provava sia percussioni che violoncello, spesso saltava le lezioni. A volte non la vedevo nemmeno a lezione di chitarra. Avevo paura che l'avrebbe lasciata per altri strumenti, e che non saremmo più state compagne di leggio. Poi però scoprii che mancava anche alle altre lezioni, ma, nonostante il nostro rapporto, lei non si apriva su questioni delicate con me, quindi non sapevo cosa le stesse accadendo.

«Sta avendo un po' di problemi in famiglia» mi spiegò una volta Rosa, durante l'ennesima lezione di coro in cui non vidi Clara. Non riuscii a chiedere spiegazioni più precise, perché doveva esserci un motivo se Clara non me l'aveva detto. Non mi sembrò il caso di farmi raccontare i suoi problemi da qualcun altro. Tuttavia provai una leggera invidia: ero consapevole che Rosa e Clara si conoscessero da più tempo e fossero più legate, ma avrei voluto sentirmi anch'io parte di quell'intimità. Proprio come la sentivo quando cantavamo o suonavamo insieme. Eppure non potevo aspettarmi troppo da un'amicizia a tre, visto che, in tutte le volte in cui ne avessi fatto esperienza, quella esclusa ero io. 

Clara venne sempre meno spesso alle lezioni e ai concerti. Durante questi ultimi, in sua assenza, finivo per essere compagna di leggio di Carlo, a malincuore. Non che Carlo fosse chissà quale brutta persona, ma non c'era paragone: suonare con Clara era un'altra cosa. Oltretutto, i concerti in chiesa stavano iniziando a stancarmi -io non ero poi tanto religiosa-, così come il fatto che, cantando in un coro, la mia voce non spiccava. Per diventare una cantautrice, come diceva Clara, dovevo puntare più in alto di così. Avevo fatto gavetta per quasi due anni in quell'orchestra: mi sentivo pronta a fare un passo in più. Ne parlai con Clara al telefono (ormai ci vedevamo poco) e lei mi supportò nel migliore dei modi.

«Sai che sono d'accordo con te. Secondo me dovresti studiare canto seriamente, i rudimenti di chitarra li hai già» mi consigliò, dall'altro capo del telefono. Io bevvi un sorso della mia tisana allo zenzero, accanto alla stufa, guardando oltre la finestra di casa il tramonto di quella fredda giornata di fine novembre. Esattamente un anno dopo il concerto al Teatro Massimo, esattamente poco meno di due anni dalla mia iscrizione al PON. 

«Pensi che si arrabbieranno se lascerò l'orchestra per studiare musica privatamente?» chiesi. Avevo il terrore di comunicare ai miei insegnanti quella decisione.

«Ma no... credo che capiranno, lo vedono tutti che hai talento. E comunque, anch'io avevo pensato di lasciare» rispose Clara, la voce titubante all'ultima frase. Mi sollevai dalla poltrona e poggiai la tazza sul tavolo. «Perché? Che è successo?»

Esitò. «Non lo so... ho provato tante cose, ma non mi vedo brava in nessuna. Sta cominciando a non piacermi più nulla».

«Non devi mollare per nessun motivo» ribattei prontamente. «Non ti rendi neanche conto di quanto tu sia brava».

Clara sospirò. Non lo comprendeva proprio. Non sapevo più come dimostrarle le sue qualità...forse lei per prima non voleva vederle. Come avrei potuto mostrargliele, se aveva i paraocchi? Mi sentii così frustrata. Lei era riuscita a togliere i miei paraocchi, tanto che adesso avevo preso coraggio e avevo chiesto ai miei genitori di iscrivermi in una scuola privata di canto per inseguire il mio sogno, perché tutti quanti, lei per prima, mi avevano permesso di vedere il talento che albergava in me. Clara ci era riuscita. Perché io non ero stata capace di restituirle il favore? Perché non ero stata in grado di togliere i suoi paraocchi?

«Ci penso su, dai» disse. «Però ti ripeto una cosa: lasciami sempre un biglietto per la prima fila e per il backstage. Non scordarti di me quando sarai famosa, mi raccomando» scherzò, ripetendomi le stesse parole di un anno prima. Io risi, anche se il suono della mia risata risultò amaro, pregno di impotenza. 
«Sei una stupida» risposi. 

Dopo qualche settimana, sostenni l'audizione per entrare in quella scuola privata e la superai. Con un po' di pianti e incoraggiamenti, comunicai la mia decisione agli insegnanti dell'orchestra, lasciandola definitivamente. Da un lato mi sentivo come se stessi tradendo Clara; dall'altro, però, sapevo fosse la prima a supportarmi, e questo mi dava la forza per credere nella mia passione. Anche gli insegnanti reagirono bene: mi dissero di essere fieri di me, e che una porta per l'orchestra sarebbe rimasta sempre aperta. Ero loro grata per tutto quello che avevo imparato. Anche loro avevano creduto nel mio talento. Non potei fare a meno di conservarli in un posticino del mio cuore. 

I mesi passarono e, tra lezioni nella nuova scuola di canto, studio e impegni vari, io e Clara ci sentimmo sempre più di rado. L'ultima volta che la sentii era gennaio, in occasione della Notte del Liceo Classico. Mi scrisse un messaggio in cui disse di essere venuta nel nostro liceo per vedere come fosse il nostro open day e per assistere allo spettacolo di Rosa (faceva parte del gruppo di teatro della scuola), ma non era riuscita a incontrarmi. Poi aggiunse che ci saremmo dovute vedere e uscire qualche volta, visto che non lo facevamo da un po'. Io ero totalmente d'accordo, ma le settimane continuarono a trascorrere frenetiche senza sentirci o vederci, e inevitabilmente iniziammo ad allontanarci sempre più. Ormai non sapevo quasi nulla di lei, e in classe Rosa aveva fatto amicizia con altre ragazze, quindi non parlavamo spesso, nemmeno di Clara. Mi accorsi che non avevamo mai avuto chissà quale rapporto stretto...il nostro collante era Clara. Senza di lei e senza l'orchestra a unirci, non avevamo altro in comune.

La situazione andò avanti in questo modo, finché non arrivò quel maledetto 14 maggio. Il secondo anno di superiori era al suo ultimo mese, la primavera ormai somigliava più all'estate, e io ero concentrata sullo studio per gli ultimi compiti in classe e per il saggio di fine anno della scuola di canto. Ma quel 14 maggio, come una nube carica di tempesta oscura il sole, Rosa venne verso di me, durante la ricreazione, e con un tono serissimo disse: «Ti devo parlare».

Avevo sempre odiato i "ti devo parlare". Mi trasmettevano ansia, angoscia, impazienza di scoprire ciò che non conoscevo. Di scoprire che quella informazione a me ignota mi avrebbe ferita... e, in quel caso, sarebbe andata proprio così. 

Ci sedemmo su una panchina del cortile scolastico, pieno per la pausa. Rosa si sistemò gli occhiali da vista con un dito, per poi fare un bel respiro. «Riguarda Clara» annunciò.

Il mio cuore fece un piccolo tonfo. Che cosa avrebbe mai dovuto raccontare, con così tanta solennità, su Clara? Un brutto presentimento si fece spazio nella mia mente. Rimasi in silenzio, esortandola a continuare.

«Ecco... è in coma» spiegò, secca. 

I miei occhi sbarrarono. Incredula e confusa, non riuscii a processare quell'informazione tanto velocemente. Di solito assorbivo anche le informazioni più brutte con facilità e lucidità. Come era successo con mio nonno, ad esempio. «Il nonno se n'è andato», mi avevano detto, ma non avevo battuto ciglio. Il nonno se n'è andato. Il nonno se n'è andato. Il nonno se n'è andato, avevo ripetuto in loop nella mia testa. Ed era così, lo avevo capito. Il nonno se n'era andato, punto. Oppure, ancora: «Tuo padre mi ha tradita», mi avevano detto. Avevo dovuto processarlo in fretta, perché non ebbi il tempo per starci male, dati i litigi continui dei miei genitori. Mio padre ha tradito mia madre. Mio padre ha tradito mia madre. Mio padre ha tradito mia madre, era andata così, punto. Nessuno mi aveva insegnato ad assorbire le informazioni di quel tipo, quindi avevo costruito il mio metodo: processarle in fretta e lasciarle perdere. Ma quella volta, stranamente, la stessa tattica non funzionò. O meglio, pensai che avesse funzionato, ma non era così. 

Clara è in coma. Clara è in coma. Clara è in coma, mi ripetevo. Mi sforzavo di buttare anche questa informazione nel dimenticatoio, ma tornava sempre a galla nel mio inconscio. In seguito scoprii che anche tutte le altre informazioni tornavano a galla, perché il mio metodo equivaleva a lasciar sanguinare una ferita senza curarla mai. Ma quella era un'altra storia.

«Le hanno trovato una specie di tumore al cervello» continuò Rosa. «L'hanno dovuta operare d'urgenza, ma l'operazione era molto difficile. I dottori l'hanno indotta al coma».

Non riuscivo a crederci. Aveva un tumore. Aveva un tumore. Aveva un tumore. Niente. La mia testa non lo voleva proprio assorbire, ed era oramai partita per un viaggio di non ritorno. Un viaggio fatto di rimpianti, di paranoie, di parole non dette, di mancanze. Un viaggio che ripercorreva ogni momento passato con Clara, e ogni tappa era più dolorosa della precedente.

«Si sveglierà, no?» chiesi, riuscendo a interrompere per un attimo il mio loop interiore. Rosa si affrettò ad annuire. Fu allora che capii che, nonostante la schiettezza e il presunto distacco con cui mi aveva spiegato la situazione, si stesse sforzando in tutti i modi di non perdere la speranza.

«Certo che si sveglierà» disse, sicura di sé. «Clara è forte».
E cosa le restava, se non aggrapparsi all'ottimismo? Rosa era in bilico, sostenuta da quel terreno colmo di speranza. Se fosse crollato, sarebbe caduta anche lei.

Io, invece, non reagivo così ai problemi. La speranza, dentro di me, era solo un minuscolo granello di sabbia in mezzo a tantissimi granelli pessimisti. Mi aspettavo sempre il peggio da ogni cosa, in modo tale da non farmi lacerare dalla mia stessa positività. Era più facile far finta di assorbire le cose brutte, così; perché me le aspettavo già. E mi illudevo che il dolore se ne sarebbe andato prima.

Su Clara, però, la speranza era un po' più forte del solito, e sapete perché? Perché avevamo quindici anni e ci sembrava che la morte non facesse per noi. Non siamo le protagoniste di un romanzo o di un film drammatico, pensai. Clara ha quindici anni, come me. È troppo giovane, non può morire.

La morte mi sembrava troppo lontana per raggiungerci. L'avevo vista portarsi via mio nonno e in seguito mia nonna. Era stato doloroso, ma me n'ero fatta una ragione perché erano anziani e mi aspettavo che non sarebbero rimasti per sempre con me. Più si avanza con l'età, più si ha il tempo di accettare di dover morire. Anche i miei nonni avevano avuto un cancro, però soffrivano da diverso tempo a causa della malattia, quindi interpretai la loro morte più come un sollievo per le loro sofferenze.

Ma Clara... Clara aveva tutta la vita davanti a sé. Aveva tante cose da sperimentare e da vivere, aveva dei sogni da realizzare, aveva tante persone da amare e da cui sentirsi amata. E aveva anche il diritto di possedere più tempo per tutto ciò. Come avrebbe potuto morire? Come avrei mai potuto accettare un'evenienza simile?

Dopo quel 14 maggio, Rosa mi teneva aggiornata sulle condizioni di Clara. Un giorno, dopo la scuola, ci incontrammo con delle compagne di classe della nostra amica e realizzammo insieme un cartellone di benvenuto per il momento in cui si sarebbe svegliata. Loro volevano portarglielo in ospedale, ma io le lasciai andare senza di me.
Non riuscivo a farle visita. Come con mio nonno e mia nonna, io non riuscivo a far visita alle persone che stavo per perdere, perché l'ultimo ricordo che mi sarebbe rimasto di loro sarebbe stato stesi su un letto di ospedale a lottare tra la vita e la morte. Invece volevo ricordarli in salute, felici, ancora vivi.
L'ultima volta in cui avevo visto Clara era stata a una delle lezioni con l'orchestra. Suonava e cantava e stava bene. Volevo ricordarla così. Non avevo bisogno di ulteriori ricordi dolorosi.

Rosa mi diceva spesso che le condizioni di Clara si stavano stabilizzando. Sebbene fosse passata una settimana e la nostra amica fosse ancora in uno stato comatoso, Rosa non si perdeva d'animo.
«Appena si sveglia facciamo quell'uscita che ci aveva proposto a gennaio» mi disse, una volta. Io la supportavo e le davo retta, ma ormai avevo iniziato a tenere in considerazione l'idea che Clara non si sarebbe svegliata presto.
Eppure pregai così tanto chiunque tenesse le redini del nostro mondo di non portarla via con sé. Perché sarebbe stato troppo ingiusto e crudele.

L'anno scolastico terminò, l'estate ormai si fece spazio nella torrida Palermo. Io e Rosa non ci vedevamo né sentivamo da inizio giugno. Erano passati esattamente ventinove giorni da quel 14 maggio, quando mi arrivò questo messaggio da parte sua:

Monia, Clara non ce l'ha fatta.

In quel momento ero sul letto dei miei genitori, perché in camera loro c'era il condizionatore e mi ero messa lì per combattere il caldo d'inizio estate. Mia madre, sdraiata accanto a me, mi vide cambiare espressione in un attimo. «Che è successo?» chiese.

Non fui in grado di risponderle. Non posso crederci, fu il mio primo, ipocrita pensiero. Mi sentii immersa in una bolla: attorno a me nulla aveva più senso, tutto sembrava deforme.
Chiesi spiegazioni a Rosa, dato che mi aveva detto, qualche tempo prima, che le condizioni di Clara fossero stabili, ma lei mi scrisse:

Purtroppo le possibilità erano o che non si sarebbe più svegliata, o che, se ci fosse riuscita, sarebbe stata un vegetale. Lo hanno detto i dottori.

Non ebbi la forza di chiedere altre spiegazioni. Mi feci dare tutte le indicazioni per il funerale.

Se puoi, indossa la maglietta di MusicaInsieme. Noi dell'orchestra eseguiremo il suo brano preferito, e il coro lo canterà. Puoi partecipare anche tu, se vuoi.

Apprezzai il pensiero di Rosa di includermi in quell'ultimo brano per celebrare la nostra amica. Avrei indossato volentieri quella maglietta. Ma non sarei stata più in grado di cantare.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro