Capitolo tre
Credo che nessuno dorma la prima notte di carcere. Nel buio della cella, la solitudine ti divora con tutti i suoi mostri. I mostri che hai da sempre voluto nascondere sotto il letto, dentro l'armadio o dovunque tu li nasconda, lì escono tutti allo scoperto, pronti a scorticare quella maschera di perfezione che ti sei costruito con tanta fatica.
Anche i miei ci provarono, ma feci di tutto per tenerli a bada. Ero diventata molto brava a celarli, a opprimerli, a non permettere loro di sopraffarmi. È così che passai quella prima e -sperai- ultima notte (o almeno pensai fosse notte, ma non potevo accertarmene perché non c'era nemmeno una finestra), su un materasso sgualcito di un letto freddo di metallo. Immaginavo che il carcere fosse deprimente e angosciante, ma a Siderous oltrepassò i limiti della mia immaginazione.
Le celle erano tantissime, una accanto all'altra. Ogni cosa fatta di ferro, dal pavimento alle pareti, dai letti alle sbarre, copriva l'ambiente di un grigio tetro. Quando mi trascinarono per rinchiudermi, intravidi gli altri prigionieri: erano tutti pallidi, vestiti con una divisa a righe nera e marrone scuro. Nessuno aveva qualcosa che li contraddistinguesse. Tutti dai colori uguali, dalla corporatura minuta, tutti simili alla signora che avevo incontrato al bar.
Quell' omologazione che avevo notato ovunque a Siderous, mi faceva rabbrividire, mi metteva ansia. Ero così diversa da loro da risultare strana, fuori posto, un granello di sabbia finito per caso su una scogliera.
Tutte quelle ore passate rinchiusa, e non sentii volare una mosca, né la voce di un prigioniero, né una lamentela o risata o pianto, nulla. C'ero solo io, il rumore del mio respiro accelerato per la paura, il buio della stanza e quel poco di luce del corridoio che attraversava le sbarre. Rimasi per l'intera notte seduta con le gambe strette al petto, come se avessi paura che qualche mostro avrebbe potuto prendermi e portarmi con sé. Ve l'ho detto, i mostri sono sempre in agguato, ma in carcere ancora di più.
Immaginai fossero le prime ore del mattino quando sentii dei passi dal corridoio. Alzai di scatto la testa, che tenevo appoggiata alle ginocchia. Era il primo rumore che mi riempì le orecchie oltre a quello del mio respiro. Rimasi immobile. Il rumore di quei passi aumentò sempre di più, come la grandezza dell'ombra proiettata sul pavimento. Essa avanzò finché non si fermò davanti alle sbarre della mia cella.
Alzai lo sguardo, e una piccola torcia mi accecò. «Buongiorno, Monia. Ben ritrovata» disse una voce calda e sarcastica. Strizzai gli occhi per mettere a fuoco la figura imponente che mi fissava da oltre le sbarre.
«Poveretta, non hai proprio una bella cera» mi schernì, probabilmente alludendo alle occhiaie che mi solcavano il viso a causa della notte insonne.
«Un' altra notte passata a Siderous e finirai per non distinguerti più dalle Proiezioni che vivono qui. Ti immagino già con la pelle pallida, smunta e con i capelli che perdono colore» continuò.
Forse il passatempo preferito di Eduar era vessare i prigionieri.
Se ne stava lì, a giocare con quella stupida torcia puntandomela addosso, con quel ghigno maligno. Gli occhi rossi, più scuri per la poca luce, lo facevano apparire un demone travestito da umano. Era senza dubbio attraente, con quei capelli neri che gli incorniciavano il viso e il fisico atletico fasciato dalla divisa nera attillata, ma non potevo che provare un senso di nausea al pensiero di interagire di nuovo con lui.
Non mi mossi dalla mia posizione, né risposi alla sua provocazione, e questo lo alterò.
«Pensi di essere nella posizione di potermi ignorare, ragazzina?» sibilò. Spense la torcia, prese le chiavi delle celle appese alla vita e, con una di esse, aprì la mia solo il tempo di entrare, poi la richiuse subito. Il suono delle sbarre di ferro che batterono tra loro mi scosse.
Sospirai piano. L'ultima cosa di cui avessi bisogno era Eduar che mi interrogava per illudermi di poter essere liberata e poi lasciarmi lì dentro.
«Alzati» mi ordinò. Mi rifiutai di assecondarlo. Ci guardammo intensamente per qualche secondo. Nella penombra della galera, la sua presenza mi impauriva ancora di più, ma non cedetti. Mantenni il contatto visivo, fin quando lui non schioccò la lingua sul palato e avanzò verso di me.
La sua risata sembrò amplificata a causa dell'eco della stanza. «È così? Hai deciso di non reagire?» chiese. Continuò ad avvicinarsi. Arrivato di fronte a me, si abbassò con una velocità tanto prorompente da spaventarmi, poggiando le mani sul muro che mi sosteneva la schiena. In quel modo non potevo spostarmi, mi bloccò tra sé e il muro. Emessi un lieve verso di terrore, stringendo più che potevo le ginocchia al petto che mi aiutavano a nascondere il viso. Tutto pur di non affrontarlo faccia a faccia.
Ciononostante, sentivo il suo respiro e potevo immaginare i suoi occhi cremisi bruciarmi viva. «Be'...» disse Eduar in un soffio, «peggio per te. Vorrà dire che non uscirai più da questa cella».
Scostando una mano dal muro, prese tra le dita una ciocca dei miei capelli castani. Quel gesto mi fece trasalire. Ogni cellula del mio corpo mi diceva di scappare da lui, in quel momento.
«Sarà un piacere vederti diventare come tutte le Proiezioni di Siderous» disse. Dopodiché si allontanò con la stessa velocità con cui si era avvicinato, e mi sembrò di aver trattenuto il respiro per tutto il tempo.
Eduar era pronto a riaprire le sbarre, ma io raccolsi tutto il coraggio che avevo per rispondergli. Se ero proprio destinata a consumarmi in prigione, senza sapere di cosa fossi colpevole né perché, e senza sapere nulla del posto in cui ero finita, almeno dovevo tentare la sorte.
«Non è detto che diventerò come loro» ribattei. Essendo rimasta in silenzio da molte ore, la mia voce uscì roca.
Non appena mi sentì, Eduar si fermò e rise di me. Di nuovo. Stavo cominciando a odiare il suono della sua risata.
«Oh Monia, povera ingenua» disse, facendolo sembrare un insulto. Odiai anche il modo in cui pronunciava il mio nome. «Nessuna Proiezione sfugge al destino di Siderous» continuò. «Chi vive qui non vede mai la luce del sole. In questa insulsa città di ferro, tutti vivono la stessa vita in case uguali, vestiti uguali, auto uguali. E non fanno altro che vedere palazzi di metallo, nuvole, fulmini e pioggia» chiarì, tendendo a gesticolare in modo teatrale. Ciò mi fece capire come mai tutti avessero la pelle pallida e i capelli spenti dalla ricrescita biancastra. Mi stupì, però, la vena di rabbia con cui Eduar pronunciò quelle parole. Che non gli piacesse il luogo affidatogli in qualità di comandante?
«Infatti, devo ammettere che mi hai sorpreso, sai?» aggiunse. Iniziò a camminare avanti e indietro, una mano posata sul mento. «Non mi aspettavo di trovare una Proiezione come te. Non vedevo qualcuno di diverso da anni. Capisci perché hai destato tanta curiosità, dunque?» ora tenne le mani dietro la schiena, l'atteggiamento di chi stava spiegando un argomento semplicissimo a una bambina poco sveglia.
Abbassai le ginocchia e mi alzai da quel letto scomodo. Volli approfittare della sua smania di chiacchierare. «E se ti dicessi che non sono una Proiezione?»
Quegli occhi cremisi saettarono su di me. «Ti direi che è impossibile» sentenziò, contraendo la mascella. Percepii il suo corpo irrigidirsi. Una breccia di dubbio parve colpire il suo muro sicuro e compatto, così insistei.
«Non lo è» obiettai. Feci qualche passo in avanti, ignorando quella paura che prima mi aveva immobilizzato. Ve l'avevo detto di essere diventata brava a nascondermi.
«Non sono una Proiezione, non provengo da questo posto. Aiutami a scappare. Fammi uscire da qui e non dovrai più vedermi.» cercai di persuaderlo. Ero sicura di aver catturato la sua attenzione.
Espirò pesantemente e incrociò le braccia. «Nessuno può entrare o uscire da La Gabbia. Smettila di mentire» disse, con una punta di agitazione.
Aggrottai la fronte, interdetta. «La Gabbia?»
A quel punto Eduar implose. Sbarrò gli occhi, e la mia paura tornò a dilaniarmi. «Mi prendi in giro?» urlò. Si voltò in preda alla rabbia e aprì le sbarre della cella, causando un rumore fastidiosissimo. «Vuoi farmi credere di non sapere nemmeno di essere ne La Gabbia? Pensi che io sia così stupido?»
Uscì dalla cella e con uno scatto richiuse le sbarre. Io corsi per fermarlo, ma non feci in tempo, allora attraversai gli spazi delle sbarre con le mani e gli afferrai i polsi, impedendogli di allontanarsi. «No! Non andartene!» la mia voce uscì implorante, e lo detestai. Non volevo dipendere da lui, ma non sapevo cosa altro fare per fuggire da lì.
«Sto dicendo la verità! Fidati di me. Non so niente di questo posto, voglio solo andare via. Non sono un pericolo. Pensaci bene: se fossi stata un nemico tanto potente, che motivo avrei avuto per farmi catturare, sapendo di non poter uscire da qui?» gettai fuori quelle frasi a raffica. Non avevo intenzione di passare altro tempo rinchiusa in quel posto orribile.
Guardai ancora i suoi occhi rossi nel modo più sincero che potei. Era odioso, sarcastico, teatrale e irascibile, ma Eduar era la mia unica speranza. Dovevo fare in modo che si fidasse di me.
«Non lo so! Potresti anche star fingendo di non sapere nulla!» esclamò, stanco. Con uno strattone si liberò dalla mia stretta. Rimasi in silenzio, lo sguardo basso. «Non è così» ribattei, sconfitta ed esausta. Ma forse le mie reazioni gli stavano dimostrando che non stavo mentendo.
«Se non sei una Proiezione, che cosa ci fai qui? E come hai fatto a entrare? La Gabbia è sempre stata e rimarrà sempre chiusa» disse. Tornai a guardarlo. Non capii cosa significassero quelle parole, né cosa fosse La Gabbia. Ma mi aspettavo che Eduar mi avrebbe abbandonato lì. Invece rimase, al di là delle sbarre, con il viso vicino al mio e gli occhi che volevano inchiodarmi.
Scossi la testa. «Non posso darti le risposte che cerchi, perché non ricordo niente» parlai piano. «Un attimo prima ero a casa mia, e quello dopo mi sono risvegliata a Siderous. C'è un vuoto nella mia memoria che non riesco a colmare».
Eduar scostò lo sguardo. Si stava sforzando di prendere le mie parole per vere. «Ma se c'è stato un modo per arrivare, ce ne sarà uno per andarmene. Ed è quello che voglio trovare.»
«Un modo per uscire da La Gabbia...» sussurrò. Annuii. Quando, finalmente, mi sembrò di averlo convinto, lo scetticismo prese il sopravvento su di lui. «No, è impossibile. Non esiste un modo.»
Fu allora che capii qualcosa che, probabilmente, Eduar non voleva mostrare a nessuno. Qualcosa che avrebbe potuto metterlo in pericolo.
«Tu vuoi uscire da La Gabbia, non è così?» intuii. Sentendo quelle parole, strinse le sbarre con entrambe le mani e mi lanciò un' occhiata fulminante. «Adesso taci, Monia».
«È così...anche tu vuoi andartene, come me» insistetti. «Liberami, Eduar. Ti prego. Andiamo via da qui».
Lui chiuse gli occhi e regolò il respiro. Ci ero riuscita, lo avevo colpito. Era l'ultima persona con cui avrei mai avuto voglia di collaborare, ma dovevo servirmi di lui se volevo tornare a casa.
Lasciò le sbarre e mi rivolse un ghigno crudele. «Ti lascerò marcire ancora un po' qui dentro» disse, «ma la mia curiosità di scoprire quale sia il tuo scopo è abbastanza forte. Se entro stasera mi vedrai tornare, vorrà dire che avrò deciso che cosa fare di te» terminò. Era tornato l'Eduar dalla voce gelida e gli occhi che sembravano prendere fuoco.
«Bastardo» sussurrai, non riuscendo a trattenermi.
Lui mi sentì e, senza darmi il tempo di evitarlo, infilò una mano tra le sbarre e mi afferrò il collo. Quel contatto improvviso mi fece trasalire. La mano venosa di Eduar era abbastanza grande da cingere gran parte della mia gola. Dato che tentai di divincolarmi, strinse la presa ancora di più.
Fece di no con la testa, mugugnando. «Che cosa hai detto? Dovresti solo dirmi grazie» sibilò, la voce in un sussurro tagliente.
Raccolsi ogni sforzo possibile per bofonchiare un «Grazie» strozzato. Mantenne quella posizione per un altro secondo, poi mi lasciò bruscamente e si ritirò. Tornai a sentire di nuovo solo il rumore del mio respiro ansimante dopo la sua stretta attorno al collo, e quello dei suoi passi che si congedavano.
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