Capitolo sedici - parte 1
Mentre Monia scappò via, confondendosi con la massa di morti che si stava godendo il villaggio alla luce della luna piena, Eduar diede un colpo alla porta di legno, sbuffando per la cocciutaggine e l'incoscienza di quell'aliena che avrebbe potuto cadere nell'incantesimo di Lycoris solo perché non voleva ascoltare le parole di nessuno. Da un lato, se fosse stata davvero un nemico, la morte di Monia sarebbe stata un vantaggio; ma dall'altro, se il sospetto di Eduar si fosse rivelato come tutti gli altri, cioè infondato, lui avrebbe perso forse l'unica possibilità di fuggire da La Gabbia. Era arrabbiato e frustrato per quella situazione, ma sapeva di dover agire con giudizio.
«Dobbiamo trovarla» disse Shyla. Aveva già preso il corpetto marrone scuro e lo stava allacciando sulla camicetta con velocità. «Era troppo scossa, non possiamo permettere che cada nell'incantesimo di Lycoris».
«Se lo meriterebbe» sputò fuori Eduar, non riuscendo a trattenere il suo disprezzo. A passo falcato raggiunse la camera da letto, dove indossò la maglia della divisa da ex-Guardiano.
Shyla, per quelle parole, lo guardò con rimprovero. «Non fare lo stronzo. Siamo stati incauti» terminò di allacciarsi il corpetto e si accovacciò per mettersi le scarpe. «Non avremmo dovuto lasciarci andare con lei in camera».
Eduar la fissò, era bellissima come sempre. «Te ne sei pentita?» chiese con una punta di delusione, riferendosi a quel bacio. Sapeva che lei non avrebbe voluto riavvicinarsi a lui, tuttavia era accaduto. Che fosse stato per la situazione, per l'atmosfera, per la paura di fallire la missione e perdersi, era comunque accaduto e non si poteva cancellare.
Shyla puntò gli occhi nei suoi e sperò che lui non vi leggesse alcun tipo di pentimento, sperò vi leggesse quanto quel sentimento che avevano condiviso bruciasse ancora in lei, ma non fu capace di rispondere nettamente a quella domanda. E questo mandò Eduar in confusione.
Prima che lui potesse insistere, Shyla cambiò argomento, focalizzando di nuovo l'attenzione su Monia. «Dobbiamo evitare che colga il giglio del ragno rosso di quella ragazza. Forse è meglio se ci dividiamo, abbiamo più possibilità di trovarla».
Eduar la guardò raccogliersi i capelli nella sua solita treccia. Aveva mantenuto la stessa abitudine di lasciare dei ciuffi ai lati del viso, come quando erano più piccoli e la osservava intrecciarsi i capelli rossi con cura, scegliendo quali ciuffi tralasciare e quali no.
«Quindi non vuoi parlare di quello che è successo. Ho capito.» concluse, raffreddandosi. Si sentii uno stupido per aver pensato di essersi riavvicinato a lei.
«Non ho detto questo. È solo che non è il momento adatto. Ora dobbiamo concentraci su Monia» asserì Shyla. Sapeva che lui non avrebbe capito il fatto che non sarebbe mai stata pronta ad affrontare quel discorso.
Eduar uscì dalla camera, la schiena dritta e il portamento che aveva imparato ad assumere negli anni in cui si era addestrato tra i Guardiani. Era tornato il comandante dall'aria gelida, l'espressione dura e gli occhi da demone, il comandante che non si faceva alcuno scrupolo per superare le missioni.
Shyla lo seguì, preoccupata di averlo ferito in qualche modo. Stava per chiamarlo, ma lui non le diede l'occasione. Uscì di casa, la pistola nella fodera in vita. Shyla fece lo stesso, con la lancia trasformata in coltellino allacciato e nascosto alla caviglia. L'aria fresca della notte li investì. Le stelle puntinavano il cielo, mentre la luna illuminava il villaggio popolato dai morti, i quali camminavano per le strade conversando tra loro come se fossero i veri abitanti di un villaggio.
Eduar guardò Shyla: alla luce della notte era ancora più bella. Sembrava che qualcuno le avesse inserito nelle iridi quel cielo stellato. Soffocò quella sensazione piacevole causata dalla visione di lei; non voleva abbandonare la maschera di comandante irremovibile.
«Tu vai a Est, io a Ovest. Se non dovessi trovarla, aspettami al campo di gigli, io farò lo stesso» ordinò, come se fossero stati gli anni in cui lei era ancora una sua sottoposta. Si voltò e se ne andò per liberarsi da quella vista stupenda quanto dolorosa. Shyla avrebbe voluto dirgli qualcosa: sapeva che quell'atteggiamento freddo fosse sinonimo di chiusura in se stesso, sapeva che fosse solo una protezione che Eduar aveva imparato bene a maneggiare. Almeno, questo era ciò che aveva sempre pensato lei, perché la dolcezza con cui lui si era preso cura del suo cuore non aveva niente a che vedere con quella maschera da comandante indurito.
Avrebbe voluto fermarlo, dirgli di non perdersi se avesse incontrato il suo lutto non superato, ordinargli di non morire, perché non glielo avrebbe perdonato. Ma non lo fece. Decise di rispettare il suo silenzio gelido, e in un battito di ciglia perse di vista la sua figura. Dopo aver fatto un respiro profondo, si diresse dalla parte opposta.
****
Eduar camminava deciso, sebbene la sua testa fosse un subbuglio. Un agglomerato di pensieri che, come un nodo, si attorcigliava e gli provocava un dolore insopportabile alle tempie. Shyla, quel bacio, il loro passato, La Gabbia, Monia e i sospetti su di lei, la paura di perdere l'occasione di fuggire; erano troppe le questioni da risolvere e il fatto che si erano accalcate tutte insieme non lo aiutava.
Attorno a lui i morti si comportavano da vivi: chi sorseggiava alcol in una locanda, chi conversava animatamente delle proprie vite ormai giunte al termine, bambini che giocavano tra loro rincorrendosi per strada; il villaggio sembrava in festa. Eduar avanzava tentando di evitare il più possibile di assistere a quello spettacolo, perché nonostante fosse felice che quei morti avessero pace, era straziante sapere che fosse tutto un incantesimo. Perché i morti non potevano tornare in vita. Perché si trattava solo di un capriccio di Eris, che si divertiva a giocare con i traumi altrui. Era questo ciò che pensava.
«Bel giovane!» si sentì chiamare, all'improvviso, da una signora di mezza età che si stava intrattenendo con delle sue coetanee vicino un ostello. Eduar si fermò. Non era propenso a interagire con i morti, ma decise lo stesso di non fuggire. Raggiunse le signore e lanciò loro un cenno.
Indossavano tutte delle vesti elaborate, forse provenivano da una ricca famiglia. I segni sui vestiti sembravano quelli di Biblion. Eduar intravide anche una certa somiglianza tra le loro corporature esili, i loro visi tondi e i capelli dorati. Era probabile che fossero parenti.
«C'è qualcuno che cerchi in particolare?» gli chiese la donna che lo aveva avvicinato. Magari aveva notato che stesse camminando per il villaggio scrutando ogni angolo.
Eduar ne approfittò, sperando che avrebbe potuto aiutarlo. «Sì. Sto cercando una ragazza. È alta più o meno così» con la mano segnò un punto che arrivava al suo petto, «e ha capelli e occhi castani. L'avete vista?»
La donna si posò una mano sul mento, ripensando a tutti coloro i quali i suoi occhi azzurri avessero visto passare per quella via. Lanciò un'occhiata alle altre donne. Si guardadono tutte con espressioni interrogative.
«Non ho visto nessuno che corrispondesse alla tua descrizione. Mi dispiace molto» rispose, alla fine.
«Un nuovo giglio?» chiese un' altra donna. Posò una mano al petto. «Peccato che sia morta così giovane» commentò rammaricata.
«Purtroppo è ancora viva» si affrettò a dire Eduar, le mani strette dietro la schiena. «Ma se dovessi trovarla, la ucciderò io stesso» affermò con sarcasmo, per pentirsene subito dopo.
La donna che gli aveva rivolto la parola per prima esibì un sorriso di circostanza.
«Ti prego di farle lasciare questo mondo senza arrecarle troppo dolore, allora. Fai un lavoro migliore di quello che fece nostro padre» disse, il tono diventato improvvisamente serio. Le quattro donne si guardarono tra loro, consapevoli della tragedia che le aveva viste protagoniste.
«Stiamo solo aspettando che venga qui a supplicare il perdono» continuò la donna. «Non ha mai superato il suo stesso crimine. Non vediamo l'ora che arrivi e colga i nostri gigli. Così sarà fatta giustizia».
C'erano anche situazioni del genere a Lycoris, Eduar lo sapeva bene. Nel corso delle sue missioni era dovuto passare dal secondo piano, e aveva sentito così tante storie di morti. Massacri, fraticidi, femminicidi, genocidi, erano più frequenti di quanto si potesse pensare. Anche se l'incantesimo di Lycoris era terribile, a volte era una vendetta giusta, una punizione per il colpevole omicida che sarebbe rimasto tormentato per sempre. Eduar, però, continuava a odiare quel piano. Quelle storie lo straziavano, e poi aveva sempre avuto paura di incontrare il suo lutto non superato. Non aveva intenzione di rivivere il suo brutto passato.
Si congedò con educazione dalle donne, così poté tornare alla sua ricerca. Più percorreva le strade del villaggio, più cresceva una enorme seccatura contro Monia. Malediva la testardaggine di quella ragazza, sempre pronta a causargli problemi, sempre capace di far uscire un lato di lui che non gli piaceva, quello provocatorio e un po' stronzo. Monia riusciva a farsi odiare così bene da lui che Eduar si sorprendeva di come fosse possibile. Un odio che lo aveva colpito dalla prima volta che l'avesse vista, e che come una calamita lo aveva attirato verso di lei.
Dove diamine si era cacciata? Come aveva fatto a sparire così? E se quella Clara l'avesse già intrappolata nell'incantesimo di Lycoris? Il loro viaggio non avrebbe più avuto senso. Eduar immaginò Monia cogliere il giglio del ragno rosso, segnando la sua rovina. Lo sguardo si sarebbe perso in luoghi che solo lei avrebbe visto, e nessuno avrebbe più potuto salvarla. Nello stato d'animo inquieto e scosso in cui era, Monia avrebbe potuto cedere. E lui aveva contribuito a renderla instabile.
Un brivido di paura gli percorse la schiena, ma continuò a camminare con un atteggiamento impassibile. Io? Paura? E per chi, per lei? pensò, irritandosi con se stesso. No, questo è solo fastidio. Nessuno era mai riuscito a infastidirmi così tanto.
Ricondurre tutto al disprezzo era l'unica cosa che sapesse fare quando c'era di mezzo Monia. E funzionava. Era vero, provava un profondo disprezzo. Disprezzava se stesso per non essere più in grado di togliersi di dosso quella maschera di gelo, perché faceva ormai parte di sé. E disprezzava anche Monia, perché aveva notato che lei portava una maschera proprio come lui.
Doveva assolutamente trovarla. Non poteva perdere l'occasione di fuggire da La Gabbia, sebbene fosse ancora pieno di dubbi su Monia. Decise di metterli da parte, perché non era solo: anche Shyla subiva le conseguenze delle sue azioni. E adesso era in giro a rischiare anche lei. Sapeva fosse una ragazza forte e che non avrebbe ceduto all'incantesimo di Lycoris, ma Eduar si era promesso di proteggerla a prescindere da tutto ciò che sarebbe potuto accadere e, anche se era rimasto deluso dal suo atteggiamento evasivo su ciò che era scattato tra loro, avrebbe mantenuto quella promessa.
Tutti quei pensieri zittivano il mondo circostante: Eduar vedeva solo le figure dei morti muoversi, parlare, ridere, ma si era come distaccato da ogni cosa; ogni rumore era ovattato, percepiva soltanto il suo respiro entrare e uscire dai polmoni con violenza. Come a rallentatore, quei morti superavano la sua vista man mano che avanzasse tra le strade a ciottoli del villaggio, ma nessun viso corrispondeva a quello di Monia.
All'improvviso, però, intravide da lontano la figura di una donna che aveva qualcosa di familiare. Eduar la osservò entrare in una locanda -notò che ce ne fossero davvero molte in quel grande villaggio-, i lunghi capelli neri e liscissimi svolazzarono quando la donna sparì lì dentro.
Quella vista lo riportò alla realtà, tanto che Eduar si fermò di scatto. I rumori del villaggio tornarono limpidi, così come le voci dei morti, i suoni dei loro passi, ogni cosa adesso era dettagliata, anzi, era tutto troppo reale. Provò a respirare profondamente, convincendosi che doveva aver visto male. Forse i ricordi del passato che lo tormentavano ogni giorno stavano portando la sua mente a fargli uno scherzo. Sapeva che Lycoris potesse mostrargli i suoi lutti non superati, ma in quell'istante irrazionalmente non ci credette. Era molto diverso quando se ne faceva esperienza in prima persona. Quando si intravedeva il proprio lutto, era difficile non lasciarsi trasportare dalle emozioni.
Eduar fece un ultimo respiro, poi entrò anche lui nella locanda. Aveva sempre temuto di incontrare il suo lutto non superato, ma pensò di essere abbastanza forte per affrontare quella situazione, anche se la donna che aveva visto fosse stata proprio lei. Non avrebbe ceduto: lui era l'ex comandante dei Guardiani di Siderous, aveva già vissuto esperienze peggiori.
Forse.
La locanda era piena di gente che faceva festa: i boccali pieni di birra brindavano in quel tavolo o in quell'altro, famiglie che si riunivano in quell'aldilà fittizio e festeggiavano, donne e uomini di mezza età e anche anziani che bevevano, gruppi di giovani deceduti che avevano fatto amicizia e sedevano allo stesso tavolo; c'era di tutto. L'odore di alcol e di arrosto impregnava la sala, ma... era stranamente accogliente. Eduar non assisteva a uno spettacolo così spensierato e festoso da anni, a causa del soggiorno a Siderous. Sebbene il primo piano de La Gabbia sembrasse impopolato, in realtà era uno di quelli che conteneva un gran numero di popolazione, ma a causa della continua pioggia risultava impossibile uno stile di vita come quello che si scorgeva a Lycoris. Eduar si rattristò al pensiero che quelle Proiezioni gioiose, però, fossero tutte morte.
Eccola la donna che aveva visto. Sedeva da sola vicino al bancone, un boccale di birra in mano portato con un'eleganza che strideva con il contesto rozzo e informale della locanda. I capelli neri, lucenti e setosi, erano inconfondibili, così come la corporatura minuta. Eduar la raggiunse e, quando lei si voltò -come se sapesse che si sarebbero incontrati-, perse qualche battito. Era rimasta la stessa di anni e anni prima: le gote rosee e alte, il viso curato dai lineamenti taglienti così simili ai suoi, le labbra leggermente sottili, gli occhi color cremisi. Portava una gonna blu scuro che la copriva fino alle caviglie e una veste bianca a maniche lunghe. Ciò che indossava l'ultima volta che l'aveva vista.
Gli occhi della donna si riempirono di lacrime. «Eduar» pronunciò in un filo di voce. Quella voce che lui non sentiva da lungo tempo, amorevole e rassicurante. Gli era mancata moltissimo.
Cercò come meglio poteva di rimanere ancorato alla realtà, nonostante risultasse difficoltoso a dismisura. Perché quella donna era sua...
«Madre» ricambiò il saluto. E si sforzò di non cadere a pezzi.
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