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Capitolo diciassette

Sedutosi di fronte a sua madre, Eduar usò tutte le sue forze per non cedere al dolore dei ricordi. Lei, cui nome era Delia, aveva deciso di spostarsi dal bancone della locanda per scegliere un tavolo un po' in disparte, così che avrebbero potuto conversare senza dover sovrastare con la voce il baccano provocato dai morti.

Eduar sapeva che sarebbe arrivato quel momento, prima o poi. Non si sarebbe mai sentito abbastanza pronto per guardare in faccia il suo passato, il suo fallimento e le sue colpe, ma avrebbe dovuto affrontarlo. Non si illuse di poter alleggerire il peso della tragedia di cui era stato artefice ma, almeno, avrebbe potuto aprirsi con se stesso.
Avrebbe potuto concedersi il permesso di soffrire.

«Quanto sei cambiato, figlio mio...» disse sua madre, lo sguardo pieno di malinconia e il tono di chi non aveva avuto la possibilità di osservare la propria prole crescere.
Eduar abbassò gli occhi per un istante. «Ho dovuto» commentò.

Delia scosse la testa, rammaricata. Non era questa la strada che voleva veder intrapresa da suo figlio. Quel bambino così dolce, così pieno di sogni, cui occhi brillavano di meraviglia... ora era un giovane uomo segnato dal dolore. Aveva notato subito il suo cambiamento. Lo aveva scorto nei suoi occhi, ormai duri e spenti.

«Eri così curioso e vivace. Ti ricordi quando, di nascosto da tuo padre, ti lasciavo prendere in prestito i libri sulle leggende de La Gabbia dalla biblioteca del nostro villaggio?» un sorriso accennato si fece spazio sul viso di Delia. Il ricordo di quei giorni spensierati stringeva in una morsa il suo cuore. «Eri così desideroso di scoprire i segreti di questo mondo...»

«La mia curiosità ha portato solo distruzione» affermò Eduar, stringendo le mani, poste sul tavolo, a pugno. «Mio padre aveva ragione. Non avrei dovuto pormi tante domande. Mi aveva avvertito che avrei messo in pericolo tutti quanti, ma ho agito lo stesso come volevo».

«Tuo padre era troppo severo. Forse sì, dovevi ascoltarlo un po' di più. Ma lui non avrebbe dovuto schiacciarti con le sue aspettative» obiettò Delia.

«E io sarei dovuto essere meno egoista» concluse l'ex comandante, con un tono che non ammetteva repliche.

I due si guardarono per qualche secondo. L'argomento di cui stavano discutendo stonava con l'ambiente caloroso e allegro della locanda. Attorno a sé, Eduar non riusciva più a sopportare quella gioia. La eclissò, tutto divenne impercettibile. C'erano solo lui e sua madre. Anzi: lui, lei e la loro sofferenza.

Delia sospirò, posando una mano su quella chiusa del figlio. «Ti senti ancora in colpa, dopo tutto questo tempo?» gli chiese.

«Sì. Io sarò per sempre colpevole. Il passato non si può modificare» rispose, gli occhi che iniziarono a pungere. «Per colpa mia la nostra casa è andata distrutta. Per colpa mia tu e papà siete morti. E io convivrò per sempre con questo peso. L'immagine della vita che abbandona i vostri corpi mi seguirà fino alla morte».

Il viso di Delia si contorse in un'espressione di dolore. Quel bambino non aveva più possibilità di tornare?

Strinse ancor più forte la mano di Eduar. «È davvero colpa tua? O è colpa di una Padrona troppo crudele, di un sistema di regole opprimente?».

Lui scosse il capo. «È mia. È solo mia» disse. Non voleva trovare nessuna scusa. Voleva solo affogare nel peso della sua responsabilità. «Se non avessi coinvolto il nostro villaggio e il nostro intero piano, tu non saresti morta. Nemmeno papà. È già un miracolo che Shyla sia ancora viva».

«Eduar» lo chiamò sua madre. Lui riprese a guardarla negli occhi.
«Le cose sono andate male. Il nostro piano è stato distrutto e siamo morti. Ma ad aver perso più di tutti sei stato tu».

Una leggera espressione di sorpresa attraversò il viso di Eduar. Quelle parole gli provocarono un certo effetto.

Delia continuò. «Sei tu che hai visto i tuoi genitori morire. Sei tu che sei diventato un Guardiano contro il tuo volere, e sei stato costretto a vivere nella Siderous che tanto odiavi. Sei tu ad aver perso la ragazza che amavi, a esserti ritrovato completamente solo. Noi abbiamo perso le vite. Tu hai perso tutto il resto».

Eduar scostò la mano dalla presa di sua madre, irritato, e cercò di ricacciare indietro quel groppo alla gola che lo stava soffocando. Le immagini di quel giorno riaffiorarono con prepotenza: la rivolta contro La Gabbia, il villaggio in fiamme, il piano distrutto da una delle Bambole di Eris. Suo padre che lo fissò, per l'ultima volta, deluso. Sua madre che tentò di salvarlo.
Violenza, sangue, distruzione, morte.

No. Basta. Smettila. Tutto questo è avvenuto a causa mia. Non provare pena per me. Non compatirmi. Odiami! Perché non mi odi?

Si ricordò di quando sua madre lo salvò, quel giorno. Il viso, sporco di terra, fumo e polvere, era addolorato. Lei piangeva, credendo di aver perso suo figlio. Sforzando ogni muscolo del suo corpo, sollevò un masso di parete di pietra proveniente da una casa che, andata distrutta, gli aveva bloccato la gamba. Gli diede dei colpetti sul viso, lo chiamava senza sosta. Quando lui si destò, lei pianse con più impeto. Eduar vide il cielo nero, la devastazione attorno a loro, briciole di fuoco che si sollevavano in aria. Le sue orecchie sentirono il suono ovattato della voce della madre.
«Scappa!» gridava. «Scappa, Eduar! Va' via di qui!».

E lui le aveva ubbidito. Delia aveva scelto di salvarlo ed era rimasta vittima. Come faceva a non provare rancore per quel figlio ingrato e ribelle che aveva portato solo rovina? Perché non lo disprezzava come lui disprezzava se stesso?

Concentrandosi sul presente, tornò a fissare sua madre. «Perché mi hai salvato? Non avresti dovuto» disse.

Delia si rabbuiò. «Avrei mai potuto lasciare mio figlio lì a morire?» ribatté. Una lacrima sfuggì lungo la sua guancia rosea. «Non mi pentirò mai di quel gesto, Eduar. Lo rifarei altre mille volte».

Aveva bisogno di sentirsi dire quelle parole, malgrado detestasse la sua debolezza. Eduar si mise la testa tra le mani, i gomiti poggiati sul tavolo. Respirò profondamente. Sua madre era così reale: era lì, gli diceva che poteva soffrire. E che, anzi, aveva sofferto abbastanza. Stava conferendo una dignità a quel dolore che Eduar pensava di non meritare.

«Se solo potessi...» la voce si spezzò. «Se solo potessi, cambierei ogni cosa. E tu saresti ancora viva».

Sua madre sospirò ancora. «La tua pena è troppo grande?» gli chiese.
«Sì»
«E vorresti farla sparire?»
«Sì»
Eduar sentì la lucidità offuscarsi. La voce di sua madre parve più ipnotica che mai.
«Un modo c'è» confessò Delia, quasi in un sussurro. «Esiste un modo per farla sparire».

La mente di Eduar cadde nel caos totale. In tutto quel subbuglio, non riusciva a trovare un appiglio di razionalità. Voleva solo stare in pace.

«Qual è?» chiese a sua madre, impaziente.
Lei lo prese per mano e disse: «Seguimi».

Uscirono dalla locanda. L'aria notturna contrastava con il tepore del luogo in cui avevano conversato. Le strade erano ancora trafficate dai morti e illuminate dalla luce delle lanterne.
Eduar non lasciò la mano di sua madre. La seguì, in silenzio, desideroso di zittire quel dolore. Le immagini di quel maledetto giorno continuavano ad affollargli la mente, eppure si era sforzato così tanto per chiuderle a chiave, da qualche parte nel suo cuore. Erano troppo pesanti da sopportare. Ora che si stavano mescolando, tutte insieme, Eduar non capiva più come districarle e ammutolirle.

Si concentrò sulla presa sicura di sua madre. Sul rumore dei suoi passi. Sulle voci dei morti in festa. Sulla luce della luna piena che seguiva il loro avanzare verso l'uscita del villaggio.

Verso il campo dei gigli del ragno rosso.

Esso stava sprigionando il suo magnifico potere. Polvere dorata risaliva dai gigli fino al cielo. Il loro colore così brillante ammaliava e meravigliava, spiccando contro il buio della notte.
Delia rivolse un sorriso rincuorante a suo figlio. Lo condusse verso uno di quei fiori, poi gli lasciò la mano.

Si posizionò davanti a Eduar, il proprio giglio tra loro. «Non c'è bisogno che tu soffra per tutta la vita» disse. Indicò il fiore. «Puoi rimanere per sempre con me».

Il petto di Eduar si alzò e si riabbassò vistosamente. Si inginocchiò verso il fiore. La tentazione era troppo forte.

«Davvero termineranno le mie pene?» chiese, guardando sua madre.
Lei annuì. «Lo sai meglio di me» si inginocchiò cosicché i loro visi fossero sullo stesso piano. «Cogli il mio giglio, e io non sarò mai morta. Tu non avrai nessuna colpa. Potremo tornare a casa.»

Eduar si ricordò di quei momenti tranquilli in cui, da bambino, aiutava sua madre a portare la legna in casa, con la quale avrebbero acceso un bel fuoco e si sarebbero scaldati durante una lunga sera d'inverno. Ricordò di quando suo padre tornava dopo una missione -essendo un Guardiano partiva spesso- e allora era festa: Delia preparava il suo piatto preferito e pranzavano insieme. Ricordò i baci della buonanotte, la complicità con cui gli lasciava prendere quei libri dalla biblioteca, la forza con cui lo difendeva contro la severità del padre, l'amore con cui lo curava quando prendeva l'influenza; se avesse colto quel giglio, avrebbe riottenuto tutto questo? Quel giorno di violenza, sangue, distruzione e morte sarebbe stato cancellato? Avrebbe potuto cambiare il passato? Avrebbe potuto tornare bambino?

La tentazione di scoprirlo mosse la sua mano, che si fermò a mezz'aria.
È quello che mi merito, pensò. Mi merito di morire nell'illusione di aver eliminato le mie colpe.

«Coglilo, Eduar» la voce di Delia risultò come un dolce ordine. Riecheggiava nella sua mente come un canto ipnotico. «Coglilo e torneremo a essere felici». Con una mano gli sfiorò la guancia. «Tornerà tutto come prima. Quel giorno non esisterà mai più».

Eduar fissava il giglio con intensità. Sfiorò i suoi petali, desideroso di strapparlo da terra. Avrebbe finalmente smesso di soffrire.

Ma poi un'altra immagine gli tornò in mente. Rivide Monia che, da dietro le sbarre della prigione di Siderous, gli diceva di non essere una Proiezione. Gli confessava di voler trovare un modo per uscire da La Gabbia. Pronunciava delle parole che gli avevano conferito qualcosa che aveva perso da molto tempo: la speranza.

Perché stava pensando a lei in quel momento? Che cosa voleva dirgli quel barlume di ragione superstite?
La mano rimase ancora lì, sospesa, bloccata tra il voler mettere fine a quella misera esistenza e il voler tornare indietro con la speranza di scappare.

«Cosa stai aspettando?» insisté Delia. «Cogli il mio giglio, Eduar».

Se c'è stato un modo per arrivare, ce ne sarà uno per andarmene. Ed è quello che voglio trovare! aveva detto Monia.

Delia guidò la mano di Eduar allo stelo del fiore. «Puoi decidere di non soffrire mai più. Il mio bambino non avrebbe dovuto stare così male».

Eduar strinse lo stelo del giglio, ma la sua testa non voleva saperne di funzionare. Passato e presente si fusero in un turbinio di emozioni contrastanti. Il viso di Monia si mescolò a quello di sua madre che, piangente, lo salvò dalla morte.

Era vero che qualcuno gli aveva ridato la speranza.
Ma la disperazione, forse, era talmente potente da prendere il sopravvento su qualsiasi altra cosa. Fu lei a decidere.

E ritenne che l'alternativa migliore fosse quella di non soffrire più.




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