Capitolo 9 - Modelle
Leonardo e la ragazza sciolgono il loro abbraccio, mentre io, presa dalla curiosità, mi affretto a nascondermi dietro il primo albero che trovo. In caso mi vedessero, sarei pronta a chiudermi in casa per in prossimi dieci anni o a sprofondare nel minuscolo laghetto poco lontano da qui, ma non è il momento di pensarci.
Osservo la figura femminile, notando che non è esteticamente perfetta come le modelle che sono abituata a vedere sulle riviste di gossip. Indossa dei jeans aderenti, neri, quasi sicuramente in pelle e una camicia bianca piuttosto lunga, che le arriva sino a metà coscia. I capelli corvini e molto corti, quasi mascolini, le donano un'aria sbarazzina, indurendole leggermente i lineamenti. A questa distanza non riesco a osservarla meglio, ma intravedo una bellezza piuttosto naturale e, probabilmente, ha anche qualche anno in più di Leonardo.
Iniziano a parlare, sorridenti, mentre lui è intento a riporre l'attrezzatura nelle proprie borse.
Dovrei smettere di fissarli e tornare verso casa. Non dovrebbe importarmi, lo so: avere la vana speranza che un ragazzo come lui potesse interessarsi a me è ormai nulla. Prima il suo disinteresse al bar e adesso lei... i conti tornano.
Cammino a passo veloce uscendo dal parco, diretta alla metro in cui spero di non incontrare altre modelle. Per oggi ne ho fin sopra i capelli.
***
Più mi osservo nel mio specchietto da viaggio, più noto una certa somiglianza con un personaggio dei film horror. Non intendo la ragazza bellissima che salva la terra da un'invasione zombie, no, ma lo zombie stesso.
Mi sono addormentata piuttosto tardi ieri sera, nonostante la tisana rilassante che ho deciso di prepararmi quando ormai era già notte inoltrata e oggi ne porto i segni, comunemente chiamate anche occhiaie da panda.
«Buongiorno ragazzi, come procede il progetto?» chiede il professor Ludicoli entrando in classe. Il chiacchiericcio in sottofondo si trasforma in un silenzio tombale.
«Per quanto riguarda il nostro gruppo, mancano solo pochi scatti e le stampe. Stavo giusto pensando che, se va bene ai miei compagni, potremmo trovarci oggi pomeriggio per concluderlo» interviene Ilaria, mentre cerca in aula i visi dei nostri colleghi con aria compiaciuta.
«Benissimo! Per quanto riguarda gli altri?» Il silenzio regna nuovamente sovrano, persino Ilaria tace. «Bene, li vedremo direttamente mercoledì, allora. Oggi invece affronteremo un argomento difficile nel mondo della fotografia: le luci. Tirate fuori i vostri appunti, nel vostro primo esame sarà un punto fondamentale!»
Dannazione, devo proprio comprare un Tablet. Mi sento un pesce fuor d'acqua con tutta questa tecnologia e il mio vecchio blocco note tra le mani.
Mi volto per cercare una dannata penna nella mia tracolla; alzando lo sguardo noto Leonardo, che si trova esattamente nel posto dietro al mio. Gli porgo un cenno di saluto alzando leggermente il mento, fingendo disinteresse, mentre lui mi sorride lievemente.
"Ci credono tutti che sei disinteressata. Guarda, stai arrossendo!"
"Non è vero, ho solo caldo!"
"Ma se sei a mezze maniche e ci sono quindici gradi!"
"Ssssh!" Alzo il dito verso il naso, facendo segno alla mia coscienza di tacere. Mi accorgo poi di aver discusso con me stessa e un ghigno prende forma sulle mie labbra, consapevole di essere ormai da manicomio.
«Sofia? La spiegazione del flash è così spiritosa o per caso ho del dentifricio sui baffi?» mi chiede il professore in tono spiritoso, facendo sghignazzare l'intera classe.
Arrossisco visibilmente. «No, scusi, ero solo distratta.»
«Bene, allora vieni pure qui. C'è un set al mio fianco che aveva giusto bisogno di un po' di colore e quale modo migliore se non avere una modella dai capelli blu. Forza, che iniziamo con la pratica!»
Ecco, come temevo, il momento è arrivato: quello in cui tingermi i capelli di colori troppo inusuali mi si rivolta contro. «Non sono una modella» ribatto. "E sto valutando se tornare castana naturale", penso tra me e me.
«Oh, forza. Non eri attenta, almeno questo me lo devi, non credi?» afferma, come se fosse mio padre. In effetti, potrebbe.
Le alternative sono due: rifiutarmi e farmi prendere di traverso dal professore o accettare e cercare di non annegare nella vergogna.
«... e va bene!» Mi alzo e vado a posizionarmi davanti ad un telone nero, accomodandomi su uno sgabello bianco troppo alto per la mia persona e cercando di mantenere una certa concentrazione per non arrossire. Mi sento impacciata come un'adolescente al suo primo bacio.
«Qualcuno si offre volontario per provare il flash e le luci?»
«Posso?» Chiede Marco dal fondo dell'aula. I miei nervi si rilassano un po', almeno è un viso conosciuto.
«Oh, un volontario! Vieni pure» afferma Ludicoli, soddisfatto. «Sofia, sorridi ogni tanto! Cos'è quel broncio? Dai!» Mi incita poi, nel vano tentativo di mettermi a mio agio.
Marco inizia a scattare e i miei occhi dopo pochi flash chiedono pietà. Come resistono le modelle per ore intere?
«Ora guarda verso il tuo posto, o non guardare me. Perditi nei tuoi pensieri.»
"Oh, lo faccio più spesso di quanto tu non creda", penso.
«Marco, non siamo a una lezione di filosofia...» interviene il professore. Mi scappa un risolino.
«Oh, giusto. Mi scusi.»
Scatta l'ultima fotografia, mentre io sono intenta a fissare punti indefiniti attorno all'aula, evitando di incontrare i suoi occhi.
«Marco, torna pure al tuo posto e lasciami la schedina. Guardiamole subito.» Ludicoli la inserisce nel Computer e il mio viso viene proiettato sul grande schermo della lavagna.
«Vedete? Le due luci voltate verso il viso, nonostante l'uso del flash, hanno ammorbidito i lineamenti, che solo con il secondo sarebbero risultati più duri.»
Impallidisco visibilmente: ciò è ancora più imbarazzante. Oltre a non essere particolarmente fotogenica, si notano le mie evidenti borse sotto gli occhi e alcune imperfezioni della pelle grazie al flash.
Dannate luci.
Dannato set.
Dannate modelle.
Non potevo darmi all'ippica?
Per fortuna l'ora è ormai terminata: farò finta di non aver nemmeno aperto gli occhi e la giornata giungerà al termine velocemente.
Nell'attesa del cambio di lezione, i ragazzi del gruppo si avvicinano per discutere dell'uscita. «Che ne dite se ci troviamo oggi? Tutti d'accordo?» chiede Ilaria per prima.
Un "sì" in coro rimbomba sopra il chiacchiericcio formatosi in pochi minuti. Neanche in Cattolica sarebbero così in sintonia sulle note di una canzone.
«Idee per il luogo? Uomini, rendetevi utili!» scherza lei, mentre i due ragazzi la guardano di traverso.
«Beh, io vorrei visitare la mostra di Vivian Maier. Potremmo andarci insieme e poi decidere dove spostarci, tanto è in centro!» interviene Laura.
«La aspettavo da tempo, per me va benissimo!» confermo, elettrizzata.
«Vada per la mostra, allora. Ore sedici, puntuali, in Duomo!" sentenzia Ilaria.
Torniamo ai nostri posti, pronti per altre due ore di appunti. Questa volta, devo stare attenta a non farmi prendere di mira.
***
Vivian Maier è una delle icone della fotografia di strada più importanti e, nonostante io non sia portata per il genere, ho sempre amato le sue immagini. Partecipare a una mostra di un personaggio importante nella storia dell'arte, per la prima volta nella vita, mi ha decisamente alleggerito la giornata.
Il museo ospita centoventi suoi scatti, esposti lungo un corridoio bianco, asettico. Li osserviamo uno a uno, incantati.
Il primo che attira la mia attenzione è una panoramica di New York, scattata nel 1953. La grande metropoli è ripresa dall'alto in bianco e nero; gli imponenti grattacieli presenti già ai tempi, le carrozze della periferia, i vestiti lunghi e semplici delle dame, rendono l'idea di una città in continua evoluzione.
Più avanti, due bambini di colore sono ripresi in primo piano, con le orecchie da topolino e la loro aria beffarda. Continuando alla nostra destra, una coppia di anziani mentre dormono poggiando le teste una sull'altra in autobus, una carrozza di due nobili innamorati, un giornalaio addormentato incorniciato dai suoi stessi giornali.
«Che meraviglia!» sospiro, estasiata.
«Già. Un giorno vorrei diventare come lei...» ammette Ilaria speranzosa, da amante del genere.
Alla fine delle lunghe pareti piene di cornici e opere d'arte, si accede a una piccola sala rossa, su cui sono appesi gli auto ritratti dell'artista, illuminati da piccoli led a luce fredda, con annessa storia della sua vita.
Era un personaggio particolare, si scattava fotografie in ogni specchio che trovava davanti a sè: nei vagoni dei treni, a casa, negli specchietti delle moto, nelle vetrate dei negozi. Ciò che fanno ora le persone non famose, in pratica, ma che ai tempi era considerata arte e ora una presa in giro. In effetti, non ho mai capito l'incoerenza di questa "filosofia", ma è un pensiero che lascio agli ignoranti. Credo che qualsiasi scatto realizzato con cura e passione sia degno di essere chiamato arte.
«Che dite ragazzi, facciamo anche noi un autoscatto di gruppo?» Marco distoglie l'attenzione dai quadri, rivolgendo il suo obiettivo verso di noi.
«Dite tutti: Vivian Maier! Però sorridete anche» annuncia Ilaria, mentre ci avviciniamo.
Leonardo mi cinge la vita con un braccio. Un contatto probabilmente non intenzionale, ma che mi provoca una piccola scossa lungo la schiena, raggiungendo le guance accaldate e anche il cuore, non appena si gira verso di me.
«Vivian Maier!» urlano in coro gli altri tre.
Solo loro, perché io sono persa nei suoi smeraldi.
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