3 - Tutto come doveva
Deidra
Presi l'ascensore per arrivare al mio piano. Fui così stupida e avventata, ma la paura mi aveva dato quel brivido di continuare a camminare in quell'oscurità che si celava dietro quella porta.
Il campanello suonò, l'ascensore si fermò e io ne uscii intatta.
Mi chiusi nell'appartamento. Mi spogliai. Lasciai cadere i vestiti per casa, noncurante. Aprii il rubinetto e mi lavai con l'acqua fredda. Feci scivolare di dosso tutte le brutte sensazioni ed emozioni.
Rabbia.
Rabbia.
Rabbia.
Quella pistola.
Rabbia.
Rabbia.
Rabbia.
Mi lavai i capelli e rimasi sotto la doccia più del dovuto.
Poi presi l'accappatoio e mi rifugiai in lui. Mi aggrappai alla stoffa come se fosse una persona, mi strinsi, mi abbracciai, mi cullai, poi lo tolsi, facendolo scivolare sul pavimento. Passeggiai per casa nuda, andai in camera e aprendo l'armadio notai la camicia bianca e i lederhosen, così presi anche l'intimo e, seduta sul divano in salotto, mi vestii, comoda.
Indossai degli stivaletti alla caviglia neri. Alzai gli occhi alla porta e mi portai il capo tra le mani. Poi mi alzai.
Scesi velocemente le scale e mi trovai davanti alla porta di quello sconosciuto. Esitai con l'indice sul campanello, poi scossi la testa, ricordandomi che avevo comunque il mio coltellino nei pantaloni.
Suonai.
«Sei venuta».
«Perché non avrei dovuto?» Lo guardai con un sorriso appena accennato ed entrai in casa. Lui chiuse la porta.
Avevamo appena finito di mangiare una buonissima pizza con il piccante e adesso ci stavamo squadrando, io mentre bevevo un bicchiere di rosso.
«Ti ho chiesto quando sei arrivato».
«Sì. Lo hai fatto», annuì.
«Perché non me lo dici e basta?» Abbassai il bicchiere. Lui rise.
«Arrogantella la ragazzina».
«Oh, cielo!» Feci roteare gli occhi.
«Sono arrivato nel pomeriggio e smaniavo di fare il tatuaggio. La confusione che vedi è a causa sua». Si alzò la maglietta e mostrò il tattoo sul fianco destro.
«Oh, capisco». Distolsi lo sguardo, bevendo quel vino.
«Hai disinfettato il tatuaggio?»
«Sì, Deidra». Alzai le ciglia.
«Che ne dici di vedere i disegni? Poi ti lascio andare». Mi porse la mano e la guardai.
«Non mordo».
«Io sì». Mi alzai dal tavolo seguita dalle sue risate.
«E va bene, ragazzina». Si alzò anche lui.
«Si trovano in questo scatolone. Di solito disegno in più taccuini, dipende dal disegno». Alzò le spalle e prese un quadernetto bianco.
«Sfoglialo».
«Anzi portatelo a casa, me lo restituisci domani. Pensa a quei disegni, immagina cosa possano raffigurare, dai loro un significato, prenditi il tuo tempo».
«Domani lavoro».
«Anche io. Ma portalo».
Quella serata finì che io, a letto, sfogliavo quelle pagine bianche piene d'inchiostro. Erano disegnate a penna e spesso le linee erano doppie. Quello stile mi piaceva particolarmente, piuttosto che un disegno asettico. Lui era caotico, proprio come me.
Mi addormentai con la lampada da comodino accesa e il quadernetto aperto sul disegno che aveva tatuato sul fianco.
Una donna senza testa, con un'ala. Sarebbe potuta essere benissimo la raffigurazione di me stessa.
La mattina seguente andai a lavoro con gli stessi pantaloni della sera precedente, i lederhosen, e con una camicia rosa antico, quella volta.
«Lavatrice rotta?» Sentii alle mie spalle.
«Simpatico. Davvero molto simpatico».
Non mi rispose ma facemmo un bel pezzo di strada insieme. Poi stranita mi girai verso di lui.
«Mi stai per caso seguendo?» Quasi ringhiai.
«Il tuo ego ti mangia, ragazzina». E quella volta sbuffai davvero forte, stringendo la borsa nera che mi ero portata quella mattina.
Entrai al Not only tattoos e Asher ghignò dietro di me.
«Ma quanti anni hai? Due? Per accettare la proposta?»
«Buongiorno anche a te, ragazzina», mi sussurrò all'orecchio. Io mi immobilizzai. Il cuore prese a battere e gli occhi si fecero grandi, la gola secca.
«Hey ragazzi, non entrate? Fa freddo fuori». Era River che con un cenno del braccio ci esortava a iniziare a lavorare.
«Se non ti sposti non posso andare dal mio capo», sussurrò ancora in una risata trattenuta.
«Oh, scusa». Imbarazzata mi diressi dritta nel mio studio. Tanto Trix non era ancora arrivata. Sistemai alcune cose e poi mi sedetti al mio sgabello.
"Che stavo facendo?" Pensai.
Asher dopo un'ora si presentò nel mio studio e si sedette allo sgabello. Guardandomi.
«Non hai clienti, oggi».
«Come fai a saperlo?» Alzai il capo dal mio cellulare.
«Ho controllato».
«Facciamo un giro».
«Sì, mi farebbe bene cambiare aria».
Uscimmo dal mio ufficio e dissi a Trix che se ci fosse stato qualche cliente di chiamarmi, non mi sarei allontanata molto. Lei aveva annuito.
Asher mi aprì la porta.
«Prima le ragazzine». Lo guardai male.
«Ieri ho lasciato la macchina nelle vicinanze visto che il negozio e l'appartamento sono vicinissimi. Seguimi, ti divertirai».
«Dove mi stai portando?» Era un parcheggio sotterraneo, mi vennero i brividi, rallentai.
«Non avere paura, guarda è qui la macchina». Prese il telecomandino e le luci dei fari mi illuminarono il volto.
«Audi R8, White? Davvero?»
«Davvero, ragazzina. Vedi di non graffiarla». Alzai gli occhi al cielo.
Lui mi aprì lo sportello e lo chiuse una volta che fui entrata. Lo ringraziai con un cenno al capo.
Uscì dal parcheggio sotterraneo e da quel momento il suo sguardo diventò di ghiaccio, non parlò, non mi stuzzicò, i suoi muscoli erano tesi.
Sentii che qualcosa non andava.
A volte guardava dallo specchietto retrovisore.
La radio era spenta, feci per accenderla ma lui mise una mano sulla mia e me la portò sulla coscia. Lo guardai concentrata, con i gli occhi traballanti e una strana sensazione nel petto. Lui era così serio, ebbi timore, ma anche eccitazione.
Poi mi lasciò. Poi. Poi.
Qualcuno si era schiantato contro di noi. I nostri finestrini erano oscurati quindi non si vedeva chi c'era all'interno, io non potevo permettermi di finire sui telegiornali e all'ospedale.
La macchina sbandò per pochi istanti, sbattendo contro qualche altro ostacolo, non lo capii.
«Asher». Era quello che sussurrai prima di vedere il buio avvolgermi.
Asher
C'era sangue. C'era sangue ovunque. I miei occhi guardavano solo quella ragazza sconosciuta seduta sul sedile della mia auto. Il suo volto era spento, aveva un taglio profondo sulla fronte e sulla guancia destra, il sangue gocciolava fino ad arrivare al labbro. Non riuscivo a muovermi, ero incastrato e anche la cintura di sicurezza mi impediva di muovermi. Lei non si svegliava, le scese solo una lacrima.
Riuscii a liberarmi, così le accarezzai una guancia. Sarebbe andato tutto bene.
Era andato tutto come doveva.
Provai a scendere dalla macchina e, dolorante, andai verso Deidra, aprii lo sportello, le slacciai la cintura e la presi in braccio.
Dovevamo raggiungere l'ospedale il più in fretta possibile. Non potevo permettere di far arrivare l'ambulanza in quel punto. Dovevo sbrigarmi, le mie gambe non avrebbero retto per molto.
Ci trovavamo a Manhattan e come sempre le vie e i marciapiedi erano popolati da gente, ma lì eravamo in un brutto quartiere, non uno del centro. Lì le persone non guardavano nessuno, non guardavano nemmeno in faccia e tantomeno si soffermavano a parlare.
L'incidente aveva suscitato interesse ma nessuno aveva alzato lo sguardo, nessuno aveva chiesto se avessimo di bisogno. Avevano solo continuato a camminare a testa china.
Avevano tutti paura di imbattersi in occhi sbagliati, e io, in fondo, non li biasimavo.
«Ragazzina andrà tutto bene», le sussurrai all'orecchio, sapevo che poteva sentirmi. Doveva sentirmi. Il suo viso era angelico, le sue labbra così rosee sembravano morbide, stavano soffrendo. Il sangue ormai indurito era insediato su quelle labbra. Il suo respiro così pacato mi sfiorò e mi accarezzò. Sarebbe sopravvissuta, erano solo dei tagli.
«Hey tu, giovanotto! Una voce mi richiamò dalla fine della strada, mi voltai e un uomo sulla cinquantina corse verso di noi, tentando di farsi spazio tra la folla. Una volta raggiunti, posizionò le mani sulle ginocchia tentando di riprendere fiato, alzò, in fine, gli occhi sui miei.
Nessun timore galleggiava nel viso di quell'uomo. Sembrava come capirmi all'istante.
«Andiamo! Vi accompagno in ospedale, la mia macchina è qui. Avanti ragazzo, altri due metri». Io annuii. Poi lui ci aprì la portiera posteriore della macchina.
La feci sdraiare e poggiai il suo capo sulle mie gambe. I suoi capelli nero corvino mi incantarono, seppure non avrebbero dovuto, soprattutto in quel momento. Ma lei sembrava così angelica, anche se ricoperta di sangue.
«Grazie, signore». L'uomo mi guardò dallo specchietto con circospezione ma poi lo vidi annuire.
«Come ti chiami, ragazzo?»
«Sono Asher White, signore».
«White? Figlio di Jordan White?» Chiese ancora e io annuii.
Avevo imparato a non fare domande se volevo sopravvivere.
«Mi ricordi tanto tua madre, giovanotto». Disse con un sorriso paterno in viso, io però non riuscii a ricambiare il suo sguardo. Sebbene sembrava un uomo gentile, la discussione, per me, troncava lì.
In poco tempo eravamo in ospedale.
Entrai con Deidra tra le braccia, un infermiere subito mi venne in contro, spiegai le dinamiche dell'accaduto mentre camminammo verso una stanza, l'uomo mi disse di farla sdraiare sul lettino e così feci. L'infermiere mi fece uscire dalla stanza e mi fece accomodare in sala d'attesa. Non sarei rimasto lì per molto, volevo solo assicurami che non fosse niente di grave, dopo sarei tornato alla mia solita vita. In fin dei conti, non li conoscevo mica quegli occhi azzurri come il cielo, non sapevo da dove venivano, non sapevo cosa avevo passato, niente mi impediva di andarmene.
In quel momento più che mai volevo sapere chi era questa ragazza minuta con capelli corvini come la notte, dagli occhi azzurri come il mare e dalle labbra piene color ciliegia, dalla lingua tagliente e dal carattere frizzante. Perché proprio lei? Cosa aveva a che fare con tutto quello che mi circondava? Non mi era concesso fare domande, non mi era concesso avere delle riposte.
Mi alzai dalla sedia e sbirciai dalla porta in vetro il letto dove era sdraiata.
"Ah, al diavolo!" Pensai, ringhiai e uscii dall'ospedale.
I miei anfibi fecero rumore a contatto con il pavimento. Spinsi con violenza la porta d'ingresso.
Scesi i pochi gradini e mi allontanai a passi felpati, mi alzai il cappuccio della felpa, infilai le mani in tasca e mi diressi verso il luogo in cui avevo perso il controllo della macchina.
Dovevo svuotare la mente.
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