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Quando la porta d'ingresso si aprì, rivelando una Vittoria particolarmente alta e sorridente, capii subito che quella non sarebbe stata la festa che aveva preso vita nel mio immaginario: una musica Jazz faceva da sottofondo al chiacchiericcio dei pochi presenti, sparsi tra divani, poltrone e tavolo del buffet nell'angolo; l'aria sapeva di profumo femminile e dopobarba, con una leggera punta di torta al cioccolato. Decisamente non il caos di alcool e musica Techno che mi aspettavo di trovare.
«Tara», disse Vittoria, chinandosi per abbracciarmi. Indossava tacchi di almeno dieci centimetri, bianchi e con un fiocchetto sulla punta, e un vestito rosa pallido senza spalline. Aveva i capelli legati in un'ordinata coda alta, con qualche boccolo a circondarle il volto, e un trucco leggero che le risaltava lo sguardo. Profumava di fiori e spezie. «Non credevo saresti venuta davvero».
«E invece eccomi qui!» Le allungai la busta col suo regalo. «Questo è per te. Auguri di buon compleanno! A proposito, quando è stato?»
Lei prese la busta e si scansò per farmi entrare. «Il sei. Ma col trasloco è stato difficile trovare un momento per festeggiare, e quindi eccoci qui». Richiuse la porta con un sorriso. «Vieni, ti presento gli altri».
«Va bene», risposi, seguendola attraverso la sala. Non riuscivo a credere che si spostasse così rapidamente con quei trampoli ai piedi: lo faceva con tanta scioltezza e disinvoltura da indurmi a pensare che non avesse fatto altro per tutto il corso della sua vita.
Vittoria mi prese per un gomito e mi attirò vicino a lei. «Ragazzi, questa è Tara! L'ho conosciuta qualche giorno fa, trascorre qui le vacanze. Tara, loro sono alcuni dei miei cugini». Indicò le due ragazze sedute sul divano, intente a sgranocchiare qualcosa da un piattino. La prima era riccia e castana, e indossava un abito rosso dal corpetto a forma di cuore; aveva tratti molto spigolosi e due fessure glaciali al posto degli occhi. La seconda, invece, portava dei pantaloni bianchi attillati e un top svolazzante che le lasciava scoperte le clavicole. I capelli rossicci le ricadevano mossi sulle spalle, incorniciandole il volto leggermente paffuto. «Quelle sono Chiara e Virginia».
«In realtà siamo qui solo per mangiare», esclamò la rossa, alzando il piattino con una risata.
Il ragazzo in piedi davanti al buffet si unì a lei, ridacchiando come un invasato. Aveva i capelli scuri e tagliati corti, che lasciavano intravedere diverse cicatrici sul cuoio capelluto, e sul suo naso c'era una brutta gobba. La camicia che indossava pareva contenere a fatica i muscoli gonfi delle braccia: un movimento troppo brusco e gli sarebbe esplosa addosso, probabilmente. «Quoto Virginia», disse. Posò il suo piattino sul tavolo e si voltò nella mia direzione; quando mi vide, però, il sorriso gli morì sulle labbra e un lampo smarrito gli attraversò lo sguardo. «Cristo santo, ma sei minuscola!» Attraversò la sala a grandi passi e si piazzò di fronte a me; gli arrivavo sì e no ai gomiti, in effetti. Mi afferrò un braccio e lo accostò al suo. «Minuscola», ribadì, spostando lo sguardo su Vittoria. «Dove accidenti l'hai trovata? In un negozio di bambole?» Mi passò un braccio attorno ai fianchi e mi sollevò da terra, stringendomi a sé come fossi stata davvero un bambolotto. «Senti quant'è leggera! Dio santo, ma quanto pesi?»
«Trentotto chili». Agitai le gambe, cercando di divincolarmi da quella morsa asfissiante. Santo cielo, ma dove ero capitata? «Ora potrei tornare giù, per favore?»
Mentre lui si scusava e mi rimetteva a terra, sentii le ragazze sul divano ridacchiare. Non capivo perché le persone mi ritenessero tanto buffa; certo, ero molto più bassa e minuta della media nazionale, ma non credevo fosse un motivo valido per ridermi dietro. O sollevarmi da terra come fossi stata un orsetto di peluche.
«Questo è Alessio», disse Vittoria con un sospiro. «Mi scuso in anticipo per tutto ciò che dirà o farà stasera. È piuttosto fuori controllo, come avrai notato», aggiunse, scoccandogli un'occhiataccia.
Lui la afferrò per la coda di cavallo e la tirò a sé, lasciandole un bacio sulla testa. «Ma quanto sei simpatica, eh? Quanto?»
Vittoria si liberò di lui con una spintarella e mi prese sottobraccio. «Perché tu e quell'altro simpaticone laggiù non andate a farvi un giretto?» Indicò con un cenno l'arcata che dava sulla cucina. «Stasera siete particolarmente pesanti e noiosi».
Quando scorsi la figura di Guglielmo lì nei dintorni, cupo e scontroso come un cielo in tempesta, non potei che essere d'accordo. Altro che festa! Sembrava stesse partecipando a una veglia funebre.
«Allora... Tara, giusto?» La ragazza riccia – Chiara, probabilmente – mi squadrò da capo a piedi con un sopracciglio sollevato. «Com'è che sei così piccola? Sei malata o qualcosa del genere?»
Io repressi una risata, lasciandomi cadere su una delle poltrone libere. «In realtà sono una ginnasta».
Lei aggrottò le sopracciglia, mentre la sorella, di fianco a lei, rideva sotto i baffi. «Cioè fai quelle cose strane col cerchio e la palla?»
«Quella che dici tu è la ginnastica ritmica», la corressi. «Io pratico artistica da tredici anni. Usiamo la trave, le parallele asim-»
«Sì, ho capito, non mi interessa», mi interruppe. Adagiò la schiena sulla spalliera del divano, osservandosi le unghie scarlatte con un sospiro. «Perché sei vestita in quel modo, comunque?»
Io chinai la testa per guardarmi. «In che senso?»
Chiara aprì la bocca per replicare, ma la voce roca di Guglielmo la interruppe: «Sembri una dodicenne in campeggio con le Giovani Marmotte». Avanzava lentamente attraverso la sala, allentando con le dita il colletto della T-shirt nera. Un sorriso sghembo gli tendeva le labbra carnose. «Credo che Chiara si riferisse a questo».
Le risate si sprecarono. Vittoria non disse nulla, ma mi lanciò uno sguardo di scuse che valeva più di mille parole.
Io scrollai le spalle e sorrisi. «Penso che ognuno debba vestirsi come preferisce. Personalmente non indosserei mai qualcosa che mi faccia sentire a disagio con me stessa».
«Pal-lo-sa», scandì Chiara, facendo ridacchiare ancora la sorella. Poi un sorriso malizioso le incurvò le labbra. «Indovinate chi mi ha chiesto di uscire, ieri pomeriggio?»
Virginia si schiaffeggiò la bocca col palmo della mano. «Non mi dire! Lorenzo? Lorenzo Palombi?»
«Proprio lui», confermò Chiara. «Mercoledì mi porta a cena fuori e poi a casa sua». Si leccò le labbra. «I suoi sono andati in vacanza».
Per un po' cercai di seguire la conversazione, di cui Vittoria tentava disperatamente di rendermi partecipe, ma quando questa virò sull'argomento preservativi decisi di andare a prendermi qualcosa da mangiare.
Misi qualche oliva snocciolata in un piattino e mi versai un goccio di the freddo nel bicchiere, ondeggiando sulle note vellutate di Fever.
«Che esagerazione». Guglielmo apparve al mio fianco all'improvviso, lo sguardo fisso sul piatto che tenevo in mano. Il solito sorrisetto sarcastico e malizioso gli illuminava il volto. «Addirittura due olive? Non vorrai ingrassare, spero».
Sbuffai. «Lasciami in pace, Guglielmo».
«I light up when you call my name, and you know I'm gonna treat you right», cantò lui, sovrapponendosi alla voce di Peggy Lee. «Tempismo perfetto. Sarà un segno del destino?»
«Riderei, se non fossi così tremendamente infastidita dalla tua presenza». Bevvi un sorso di the e mi leccai gli angoli della bocca. «E comunque non ho alcuna intenzione di parlare con te. Psicopatico». Feci per andarmene, quando lui mi rubò le olive dal piatto e se le infilò in bocca. «No! Erano le ultime!»
Caricai la mano destra per rifilargli una sberla, ma il mio polso sottile finì bloccato tra le sue dita calde e ruvide. Lo sguardo di Guglielmo si era improvvisamente rabbuiato. «E io che pensavo di farti un favore». Mi sfiorò il fianco sinistro con la mano libera, pizzicandolo poi attraverso il tessuto sottile della maglietta. «Le olive si accumulano tutte qua, lo sapevi?»
Mi allontanai di scatto, strattonando via il polso dalla sua presa. Gettai uno sguardo verso il divano; nessuno sembrava essersi accorto di quello che stava succedendo. Peggy Lee, nel frattempo, continuava a cantare indisturbata. «Non toccarmi». Scandagliai la tavolata alla ricerca di un'arma, e mi sembrò che il forchettone dell'insalata russa fosse un ottimo partito: lo afferrai e glielo puntai contro. «Fallo ancora e ti infilzo. Che cosa vuoi da me?»
«Credevo che ormai l'avessi capito».
«Sprechi il tuo tempo», scattai. «Io da qui non me ne vado».
La sua mano andò a sfiorare il manico del pugnale, che sbucava fuori dalla tasca dei jeans. «Sicura?»
«Non mi spaventi con i tuoi trucchetti da psicopatico», dissi, agitando il forchettone. «Io e Vittoria stiamo diventando amiche, e se non ti sta bene il problema è solo tuo!»
La serata proseguì relativamente tranquilla. Il resto della parentela – che comprendeva zio, nonna e altri due cugini maschi di cui non ricordavo il nome – si degnò di unirsi a noi solo per il taglio della torta, e sparì in giardino prima ancora che Vittoria iniziasse a scartare i regali.
Quando aprì il mio – una copia de I fiori del male di Baudelaire – capii di averci preso: mi rivolse un sorriso raggiante e venne ad abbracciarmi. «Come sapevi che adoro i poeti francesi?»
«Andiamo, Vittoria», risposi con un'alzata di spalle. «Chi non ama i poeti francesi?»
«Io». Guglielmo superò con un balzo lo schienale del divano e atterrò di schianto tra Chiara e Virginia, che si ritrassero con un gridolino. «Troppo narcisisti». Rubò un paio di tramezzini dal piatto di Chiara e se li infilò entrambi in bocca, sbriciolandosi abbondantemente sulla maglia nera.
«Animale», lo riprese Vittoria, accartocciando l'involucro di uno dei pacchetti. «Per me mamma e papà ti hanno adottato, sappilo».
Ora che ci pensavo, dov'erano i loro genitori? Ma, prima che potessi esporre la mia domanda ad alta voce, il telefono mi vibrò contro la natica sinistra; lo feci saltare fuori dalla tasca e diedi uno sguardo allo schermo. Che cavolo voleva Giorgia a quell'ora?
«Firenze già ti ha stancato?» risposi con una risatina.
Dall'altra parte risuonò un singhiozzo soffocato. «Ti prego, vieni a prendermi. È uscito di testa, non è normale! Lui... lui...»
Il sorriso mi morì sulle labbra, mentre il cuore prendeva a battermi all'impazzata. «Va bene, ora calmati e dimmi dove sei». Mi appiattii la frangia col palmo della mano, spostandomi di qualche passo verso la porta. «Daniele è ancora con te? Ti ha fatto male?»
«Non capisci», gemette lei sottovoce. «Quello è un mostro! Oh, Signore, mi ammazzerà. Aveva ragione Serena, avrei dovuto darle retta!»
Mi diedi un pizzico sulla coscia scoperta, cercando di non lasciarmi sopraffare dalla paura. «Non permetterò che ti faccia del male. Ma tu devi dirmi dove sei, Giorgia. Subito».
«Non ne ho idea», singhiozzò lei. «È una strada sterrata, coi boschi ai lati. Oddio, Tara, l'ho visto. L'ho visto. La pelle... la pelle gli si stava strappando! E gli occhi...» Deglutì e tirò su col naso. «Oh, Signore, i suoi occhi. Erano gialli, Tara. Gialli!»
«Nasconditi», le dissi, sopprimendo il tremolio nella mia voce. «Vengo subito a prenderti, ma tu resta nascosta. E cerca di non fare rumore, va bene?»
«Fai in fretta, ti prego», singhiozzò lei. «Ho paura!»
Quando riattaccai, Vittoria mi posò una mano sulla spalla. «Va tutto bene?»
«No», risposi. «Era Giorgia. Le è successo qualcosa di strano, devo andare a prenderla. Scusami».
Vittoria però mi trattenne, afferrandomi per un gomito prima che potessi fare un passo. Rivolse un'occhiata fulminea a Guglielmo, che nel frattempo mi stava soppesando con lo sguardo. «Strano in che senso?»
Io scossi la testa. «Ha parlato di un mostro con gli occhi gialli. E ha detto che la pelle gli si stava strappando. So che suona assurdo, ma-»
«Andiamo», mi interruppe Guglielmo, alzandosi dal divano. Attraversò la sala a grandi passi e tolse un mazzo di chiavi dal gancio accanto alla porta d'ingresso. «Dov'è la tua amica?»
Rimasi a fissarlo inebetita per qualche secondo, cercando di capire cosa accidenti gli stesse prendendo; si stava davvero precipitando a salvare Giorgia, una perfetta sconosciuta che per quanto ne sapeva lui poteva aver solo esagerato con gli spinelli? Immaginai che dietro ci fosse un secondo fine, ma in quel momento la priorità era recuperare Giorgia e portarla al sicuro. Così accantonai ogni pensiero e mi sforzai di restare lucida. «Una via sterrata circondata dal bosco», dissi. «So che dovevano andare a Firenze, quindi probabilmente hanno imboccato una strada che porta a est».
«Bene». Fece un cenno millimetrico alla sorella. «Tu resta qui. Me la sbrigo io». Aprì la porta e uscì, ma quando si accorse che lo stavo seguendo si arrestò di colpo. «Che cosa pensi di fare?»
Io reclinai la testa per poterlo guardare negli occhi. «Non avrai pensato che restassi qui, spero».
«Torna dentro». Allungò il braccio tatuato verso un punto alle mie spalle. «Subito».
«Non prendo ordini da te», replicai. «E onestamente dubito che tu conosca le strade bene quanto le conosco io. Ti perderesti nel giro di dieci minuti».
Lui serrò la mascella. «So cavarmela. Non sono nato ieri, ragazzina».
«Ci sono quattro strade che portano a est», dissi. «Potresti metterci troppo tempo a trovare quella giusta. E io non voglio che a Giorgia succeda qualcosa di brutto». Sospirai, mettendo da parte l'astio che provavo nei suoi confronti. «Giuro che non ti ostacolerò, qualunque cosa tu debba fare. Voglio solo riportarla a casa».
Dopo quelli che parvero secoli, Guglielmo rilasciò un sospiro secco. «Guai a te se ti azzardi a non fare come ti dico. E adesso andiamo».
Meno di un minuto dopo eravamo già in marcia. Aprii bocca solo un paio di volte, per comunicargli dove svoltare o che direzione prendere, e per tutto il tragitto continuai a tenere d'occhio il telefono; avevo paura che Giorgia potesse chiamarmi e che io non l'avrei sentita.
«Quella ti dice qualcosa?»
Alzai lo sguardo dallo schermo del cellulare. Oltre il parabrezza, ferma in mezzo alla strada, vidi la Micra verde di Daniele; entrambi gli sportelli erano spalancati, e i fari ancora accesi gettavano un fascio di luce giallognola sul terreno polveroso.
«Non ci provare nemmeno», disse Guglielmo, nel momento esatto in cui io scendevo dalla macchina. «Ragazzina, torna subito qui».
Andai a dare una sbirciata all'interno dell'abitacolo; il parabrezza e il finestrino del conducente erano in frantumi, e profondi graffi lineari attraversavano il cofano dell'auto.
«Che ti avevo detto?» ringhiò Guglielmo alle mie spalle, afferrandomi per un gomito. «Adesso vai in macchina. Qui ci penso io».
«Devo tro-»
Un singhiozzo leggero mi zittì all'istante. Proveniva dalla macchia di bosco che si allargava di fronte a noi. «Tara? Sei tu?»
Mi liberai dalla presa di Guglielmo e scattai in avanti. «Sì, Giorgia, sono io. Adesso vieni fuori, ce ne andiamo a casa». Mi fermai a ridosso dei primi alberi, tentando di scorgere qualcosa con la luce flebile dei fari. «Riesci a vedermi?»
«Sì». Giorgia fece capolino da dietro un abete, avanzando a piccoli passi nella mia direzione. Il canto impazzito delle cicale dominava il bosco, coprendo il rumore dell'erba che le frusciava sotto i piedi. Si muoveva a piccoli passi, tremando e incespicando sulle gambe, e continuava a guardarsi attorno con gli occhi sbarrati; aveva il trucco colato, diverse foglie incastrate tra i capelli e graffi superficiali su braccia e gambe.
«Andiamo via di qui», le sussurrai, quando lei scoppiò a piangere tra le mie braccia. Lasciai che si appoggiasse a me, e avanzammo lentamente verso Guglielmo. «Adesso torniamo a casa. Ci riporta Guglielmo, contenta?»
Lui mi gelò con lo sguardo, poi si rivolse a Giorgia con fare sbrigativo. «Da che parte è andata la bestia?» Prima che potessi anche solo pensare di chiedere spiegazioni, lei indicò un punto alle sue spalle. «Chiudetevi in macchina. E se stavolta non mi ascolti ti sgozzo».
«Senti, vedi di darti una calma-»
L'urlo di Giorgia riecheggiò per tutta la strada, stordendomi. «Dietro di te!» strepitò, aggrappandosi con forza al mio braccio. «Attento!»
Riuscii appena a scorgere la sagoma alle spalle di Guglielmo; incombeva su di lui come un'ombra scura, un'ombra decisamente troppo massiccia e deforme per poter appartenere a un essere umano.
«Scappate!» esclamò Guglielmo, un attimo prima che la figura lo colpisse alla gola. Stramazzò a terra di schiena, sollevando una nuvola di polvere sottile, e l'ombra si chinò lentamente su di lui. A quel punto, il fascio di luce dei fari la colpì in pieno e io mi sentii mancare il fiato.
L'essere stava ritto sulle zampe posteriori, chino sul corpo inerme di Guglielmo, e fiutava l'aria dal muso umido e allungato; rivoli di bava densa colavano fuori dalle fauci, da cui si intravedevano file e file di denti acuminati. Il suo corpo – partendo dalle orecchie fino ad arrivare alla punta della coda – era ricoperto di ispido pelo nero.
Conoscevo la zona abbastanza bene da sapere che era normale imbattersi in animali di grossa taglia, ed ero anche abbastanza brava a distinguerli l'uno dall'altro, ma non avevo davvero idea di cosa fosse quello.
L'animale affondò gli artigli nella terra, avanzando ancora verso Guglielmo, e un ringhio cupo mi fece sussultare; era lo stesso che avevo sentito quel giorno nel bosco, ne ero sicura.
«La tua borsa», sibilai a Giorgia, scuotendola per una spalla. «Dov'è?» Lei mi scrutò con gli occhi sgranati, senza accennare a rispondere. Tremava da capo a piedi. «Giorgia, per favore!» La scrollai ancora più forte, e lei mi indicò la macchina di Daniele con un cenno del capo.
Corsi fino ad affacciarmi nell'abitacolo e recuperai la borsa dal cruscotto; la svuotai sul sedile e, dopo aver frugato fra tamponi, mascara e fazzolettini, trovai finalmente ciò che stavo cercando: un deodorante spray ad alto contenuto d'alcool. Recuperai anche un grosso pezzo di vetro dal sedile del conducente, e quando venni fuori dall'abitacolo feci cenno a Giorgia di nascondersi.
«Non farlo», piagnucolò lei, aggrappandosi al mio braccio. «Ti prego, andiamo via!»
Io me la scrollai di dosso e le feci cenno di stare zitta; non potevo bruciare l'unica possibilità che avessi solo perché lei aveva paura. «Zitta, Giorgia. E nasconditi da qualche parte». Le lanciai uno sguardo eloquente e mi voltai in fretta dall'altra parte. La bestia sfiorava il petto di Guglielmo con gli artigli affilati; di lì a poco avrebbe sferrato un altro colpo o, peggio, se lo sarebbe direttamente divorato. Dovevo sbrigarmi.
Mi avvicinai abbastanza da avvertire la sua puzza di putrefazione e morte, da sentire il suo respiro sibilante e irregolare e quel ringhio tetro che mi faceva tremare i polsi.
Impugnai saldamente la mia arma di fortuna, facendo correre lo sguardo sulla schiena ricurva e deforme dell'essere, e con un minuscolo sospiro coprii gli ultimi passi che ci separavano. Strinsi le dita attorno alla grossa scheggia di vetro e, con una violenza che non credevo di possedere, la piantai nel fianco della bestia. Un liquido nero e denso mi schizzò sulla mano, colandomi rapido lungo il polso e l'avambraccio, ma io continuai a rigirare la scheggia nella ferita finché l'essere non si rizzò su in piedi. Rilasciando un latrato acuto e sofferente, la bestia si voltò verso di me.
Scorsi i suoi occhi solo per un momento: erano gialli, quasi fosforescenti, e mi scrutavano con un odio che di terreno non aveva nulla. Non credevo nel diavolo, o nell'inferno, ma quella creatura era quanto di più simile al Male avessi visto in vita mia.
Senza dire una parola, premetti l'indice sulla sommità della bomboletta e puntai il getto dritto verso i suoi occhi. I fanali gialli si spensero all'improvviso e la bestia indietreggiò, inciampando nella sua stessa coda; si trascinò all'indietro verso il bosco, disseminando tracce nere sulla terra, mentre dei lievi uggiolii fuoriuscivano dal suo grugno bavoso.
La seguii con lo sguardo finché non sparì, inghiottita dal buio che galleggiava tra gli alberi.
Quando Guglielmo mi tolse la bomboletta di mano sobbalzai, indietreggiando di un passo; non mi ero accorta che si fosse alzato. In tutta sincerità pensavo che fosse morto stecchito, ma supposi che quello potessi tenerlo per me.
«Deodorante alla vaniglia, eh?» Un sorriso sghembo gli incurvò le labbra, mentre il suo sguardo allusivo scivolava su di me. Si scansò una ciocca corvina dalla tempia e sospirò. «Bella pensata». Ma poi Guglielmo tornò mortalmente serio e mi incenerì con lo sguardo. «Ce l'avrei fatta benissimo anche senza di te, ragazzina. Non dovevi intrometterti».
Aprii la bocca per replicare, indignata, ma il mio stomaco si rivoltò e tutto ciò che riuscii a tirare fuori fu un potente e verdastro conato di vomito.
La ciliegina sulla torta, in pratica.
♥ Spazio Yumi ♥
Salve, popolo di Wattpad! (#foreveralone pt. 2)
Dopo tante peripezie sono finalmente riuscita a ultimare questo malefico sesto capitolo (l'avrò riscritto quaranta volte, miseria ladra, e faceva sempre schifo), e adesso eccolo qui, in tutto il suo stupenderrimo splendore! (porella, sta messa proprio male).
Anyway, fatemi sapere se la storia vi sta piacendo, vi sta facendo schifo, se c'è qualcosa da migliorare... o se magari è meglio che cestini tutto e mi dia all'ippica c:
Grazie ancora a tutti per le letture, i voti e i commenti!
Al prossimo aggiornamento,
- Yumi ♥
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