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10

Quando entrai in cucina, frizionando i capelli umidi con l'asciugamano di spugna, trovai Vittoria nella stessa posizione in cui l'avevo lasciata poco prima: ritta come un fuso sulla sedia, le mani chiuse a coppa sul suo bicchiere di the e le labbra pressate in una linea severa.

«Mi spiace di averti fatto aspettare. Posso offrirti qualcos'altro?» Adagiai l'asciugamano sullo schienale di una sedia libera e feci un cenno verso il frigo. «Dovrebbe esserci un vasetto di gelato, se vuoi-»

«Sto bene così, grazie», mi interruppe, alzando leggermente il bicchiere di the. Catturò una gocciolina di condensa col polpastrello, arrestandone la caduta lungo il vetro, e sollevò lo sguardo verso di me. «Volevo parlarti dell'altro giorno».

L'altro giorno?, pensai, mentre aprivo l'anta del frigo. «Ti ascolto». Presi la bottiglia del the e la portai a tavola, sedendomi di fronte a Vittoria.

«Ecco... diamine, non so nemmeno da dove cominciare». Si passò una mano tra i capelli, lasciandoli poi ricadere sulle spalle abbronzate. «Io devo ringraziarti, Tara. Davvero».

Aggrottai le sopracciglia, mentre svitavo distrattamente il tappo del the. «Ringraziarmi? E per che cosa?»

«Come per che cosa?» Vittoria soffocò una risata. «Hai salvato la vita di Guglielmo!»

Raddrizzai le spalle di scatto, lasciando cadere il tappo sul tavolo. «Non pensavo che te ne avesse parlato».

L'unica richiesta di Giorgia, quella sera, era stata di non dire a nessuno ciò che era successo; non aveva voluto nemmeno che cercassimo Daniele, scappato chissà dove nel bosco, sostenendo che sicuramente se la stava passando molto meglio di noi. Sembrava quasi che volesse far finta di nulla, come se quell'episodio non fosse mai esistito.

Credevo che entrambi avremmo mantenuto la promessa, ma a quanto pareva lui non c'era riuscito. Stupido lingua-lunga.

«Non me l'ha detto, infatti».

Beh, come non detto. Però restava un dettaglio da chiarire. «Tu come fai a saperlo, allora?» le chiesi, versando un po' di the nel mio bicchiere.

«Ogni tanto parla nel sonno». Fece scivolare il braccio verso di me, stringendomi la mano destra nella sua. Stava tremando. «Non lo ammetterà mai, Tara, ma tu gli hai salvato la vita». Abbassò lo sguardo, lasciando che alcune ciocche dorate le scivolassero davanti al viso. «Non potrò mai ringraziarti a sufficienza per quello che hai fatto. Mai». Tirò su col naso e si strofinò gli occhi con la mano libera, voltando la testa dall'altra parte. «Guglielmo è tutto ciò che mi rimane, capisci? Se perdessi anche lui...» Scosse la testa, sbuffando dal naso. «Hai messo a repentaglio la tua vita per la sua, Tara. Ti sarò debitrice in eterno».

Io soppressi una risatina nervosa. «Adesso non esageriamo. Era solo un cinghiale». Per fortuna, aggiunsi mentalmente. Passai le dita tra le ciocche ancora bagnate dei miei capelli, incrociando le gambe sulla sedia. «Ho fatto solo quello che avrebbe fatto chiunque altro».

Vittoria incurvò un sopracciglio. «Ti sbagli. La maggior parte delle persone avrebbe pensato solo a salvarsi, in una situazione del genere».

Mi grattai la nuca. «Ho solo seguito il mio istinto».

«E gli hai salvato la vita», aggiunse lei. «Non sminuirti, Tara. Ti sarò sempre grata di quello che hai fatto». Un minuscolo sorriso fece capolino sulle sue labbra. «Come sta ora la tua amica? Giorgia, se non sbaglio».

«Molto meglio», risposi. «Ha fatto pace col fidanzato».

Vittoria sgranò gli occhi. «Anche se l'ha lasciata lì da sola?»

Io annuii, scrutandola con gli occhi socchiusi. «Guglielmo ha detto anche questo, mentre dormiva?»

«Già», rispose lei di getto. «È una macchinetta, non sta zitto un attimo. L'opposto di quando è sveglio, in pratica».

Ripensai al nostro breve colloquio allo spaccio, a quanto fosse stato restio nel rispondermi a qualsiasi domanda, e fui costretta ad ammettere che Vittoria aveva ragione.

«A proposito», esclamai, sciogliendo le gambe dall'intreccio. «L'altro giorno si è scordato il portafoglio allo spaccio». Mi alzai e feci un cenno verso la porta della cucina. «Vado a prenderlo, ce l'ho di sopra».

Salendo in fretta i gradini della scala, ebbi l'impressione che Vittoria mi stesse nascondendo qualcosa. Più che un'impressione era una certezza, a quel punto, ma non avevo idea di che cosa si trattasse: era un segreto di famiglia? O magari aveva solo visto altri cinghiali mutanti in giro per Roccascura?

Figurati se è quello, mi dissi, prendendo il portafoglio dalla scrivania. L'avrebbe già fatto presente a chi di dovere, ne ero certa. Vittoria era una persona buona e corretta, non avrebbe mai messo a repentaglio le vite di più di trecento persone.

Quando tornai al piano inferiore, la trovai in piedi davanti alla porta d'ingresso. Si dondolava sulle lunghe gambe affusolate, facendo ondeggiare la gonna del vestito celeste, e osservava una foto appesa al muro; ritraeva me e mio fratello in riva al mare, abbracciati e tutti sporchi di sabbia. Era stato secoli prima.

«Devi già andartene?» domandai, scendendo gli ultimi scalini.

Lei annuì brevemente, distogliendo lo sguardo dalla foto. «Mi dispiace, Tara. Non dovrei nemmeno essere qui».

Aggirai il divano e la raggiunsi, porgendole il portafoglio con un sopracciglio inarcato. «Che dici? È successo qualcosa?»

«No, figurati». Il suo sorriso non mi convinse per niente. «Ho solo delle cose da fare, avevo promesso a mio fratello di dare una sistemata in casa. Mi dispiace di averti trattenuto per tutto questo tempo».

Corrugai la fronte. «Guarda che mi ha fatto piacere stare un po' con te».

«Lo so, ma... diamine, lasciamo perdere». Scosse la testa con forza, facendo ondeggiare i lunghi boccoli dorati. «Spero che ci rivedremo in giro. E sta' attenta, ti prego».

Prima che potessi chiederle a cosa dovessi stare attenta, lei aprì la porta di casa e uscì in giardino; salutò con un cenno i miei, appena entrati dal cancelletto della staccionata, e se ne andò sotto lo sguardo perplesso di tutti.

«Qualcosa non va?» chiese mamma, seguendo Vittoria con gli occhi. «Avete litigato?»

Io alzai le spalle. «Figurati. Aveva delle cose da fare».

«Tanto meglio». Schioccò le dita e puntò l'indice verso la porta di casa, lanciando a mio padre uno sguardo di sbieco. «Va' subito a preparare il pollo, per favore. Questa storia del corteo ci ha fatto perdere un sacco di tempo».

Lui, che nel frattempo si era accomodato su una delle sdraio con un giornale, non trattenne uno sbuffo. «Sei stata tu a volerci andare. Neanche li conoscevamo, quei poveracci».

«Ora non metterti a discutere», borbottò, mentre io indietreggiavo lentamente attraverso il salotto. Mamma mi dava le spalle e sembrava essersi scordata della mia presenza, così pensai di dileguarmi prima che potesse attaccare anche me. Un secondo dopo essermi voltata, però, la sua voce mi fece congelare nel mezzo del salone. «E tu dove pensi di andare? Torna subito qui».

Mi girai con un sorriso a trentadue denti. «Hai bisogno di qualcosa, mamma?»

«A che ora hai gli allenamenti?»

«Iniziano alle sei».

Lei controllò l'orologio che aveva al polso sinistro e mi lanciò uno sguardo tagliente. «Sono quasi le cinque. Perché non sei ancora pronta?»

«Avevo perso la cognizione del tempo», replicai con un sorriso. «Mi dispiace, vado subito a prepararmi». Prima che potessi voltarmi, però, mamma mi tirò indietro per un lembo della canottiera. «Cosa c'è?»

«Hai i capelli bagnati», osservò, prendendo una ciocca nera tra le dita. «Come mai?»

«Mi sono fatta la doccia». Mi feci aria con una mano. «Si moriva di caldo, prima».

Il suo sguardo mi squadrò dall'alto in basso, soffermandosi per più tempo del dovuto sulle mie cosce scoperte. «Mi sembri ingrassata, Tara. Di almeno un paio di chili. Stasera niente cena, d'accordo?»

Il mio stomaco brontolò per protesta, ma io annuii con un sorriso. «Ogni sua richiesta è un ordine, caporale».

La risposta sembrò soddisfarla e, finalmente, mi lasciò rientrare in casa. Feci per imboccare le scale, quando udii un bisbiglio che mi costrinse ad arrestarmi per l'ennesima volta.

«Stai esagerando». La voce di papà era ridotta a un sussurro, ma riuscii comunque a percepire la sua preoccupazione. «Ha bisogno di mangiare, Caterina! Specialmente con tutti gli allenamenti che deve sostenere!»

Mi accucciai in silenzio dietro la porta, sperando che non si accorgessero della mia presenza. Normalmente non mi piaceva origliare, ma in fondo stavano parlando di me: avevo tutto il diritto di sapere cosa stessero dicendo.

«Sta' zitto», sibilò mia madre. «Che ne sai di cos'ha bisogno un'atleta del suo calibro?»

«E tu invece?» Le assi della sdraio scricchiolarono. «Tara è nostra figlia, Caterina. Non una proiezione di quello che avresti voluto essere tu».

Il rumore secco di uno schiaffo risuonò fino a me. «Non permettetti mai più. Come puoi pensare una cosa del genere?» Il singhiozzo strozzato che seguì mi fece stringere il cuore: mia madre non piangeva quasi mai. «Voglio solo che realizzi quello per cui abbiamo sempre lottato. Qualsiasi genitore lo vorrebbe per il proprio figlio, Paolo».

«E per farlo la stai soffocando». Sentii papà sospirare. «Lasciale un po' di spazio. Falla uscire, falle conoscere gente nuova. Falla sbagliare. È soltanto una ragazzina, Cate, ha diritto a queste cose».

«L'anno prossimo mia figlia andrà alle olimpiadi», sibilò mia madre. «Non posso lasciarle spazio, non se questo significa farle perdere di vista il suo obbiettivo». Ci fu qualche secondo di silenzio. «E io non permetterò che niente e nessuno si metta in mezzo».

«Già, le olimpiadi». Papà fece una risata amara. «Il suo sogno oppure il tuo, Caterina? Hai mai pensato che Tara potrebbe volere altro, per il suo futuro?»

Non ascoltai nient'altro: corsi su per le scale più in fretta che potevo, chiudendomi in camera con un sospiro. Odiavo quando litigavano per colpa mia. Capitava spesso, negli ultimi tempi, forse anche troppo. Io ce la mettevo tutta per farli felici entrambi, allenandomi sempre al massimo e coltivando gli interessi preferiti di papà, ma i miei sforzi sembravano non bastare mai.

Controllai in fretta il borsone, assicurandomi di avere tutto ciò che mi serviva, e asciugai le lacrime che non ero riuscita a trattenere.

«Presto o tardi ce la farò», sussurrai tra me e me, aggiustando la cinghia della borsa. «Un giorno sarete fieri di me, mamma e papà. Lo prometto».

E, con quelle parole ancora a bruciarmi sulla lingua, uscii dalla mia camera a testa alta.

***

«E anche oggi abbiamo finito!» esclamò Katia, battendo le mani. «Ottimo lavoro, ragazze. Ci vediamo dopodomani alle sei».

Mentre le altre guadagnavano l'uscita, chiacchierando e ridacchiando spensierate, io mi posizionai di nuovo in un angolo del tappetone. Controllai che i talloni non toccassero la linea del margine e presi un respiro profondo.

«L'allenamento è finito anche per te, Tara». Mi voltai appena, incrociando lo sguardo di Katia. Era appoggiata a una delle due travi alte, le braccia incrociate sullo stomaco e un sorrisetto divertito sul viso. «Lavori a quella diagonale da più di mezz'ora. Cos'è che non ti convince?»

«Voglio solo che sia perfetta», risposi, scrollando le spalle. «Qualche consiglio?»

«È già perfetta». Katia si staccò dalla trave e si avvicinò al tappetone. «Ne parlavo poco fa con Vincenzo. Una delle diagonali più pulite e controllate che abbia mai visto».

Io inarcai le sopracciglia. «Ne sei sicura? Aspetta, la rifaccio, così-»

«Ti sei allenata abbastanza», mi interruppe lei dolcemente. «Sei distrutta, Tara. Va' a casa».

Mi sarei opposta volentieri, ma in fondo Katia aveva ragione e io non potevo comunque rimanere oltre l'orario di chiusura. Così, rassegnata, recuperai le mie cose e mi dileguai nello spogliatoio.

«Bellissimo allenamento», disse la ragazza biondiccia accanto a me, tirandosi su i calzoncini bianchi. «Sei veramente brava. Ai mondiali spaccherai».

Io smisi per un attimo di frugare nel borsone e le sorrisi. «Troppo carina. Spero solo di dare il meglio di me, come in ogni altra gara». E soddisfare le aspettative di tutti, aggiunsi mentalmente.

Quando finii di sistemarmi, le altre ragazze se n'erano andate tutte. Fuori il sole era tramontato già da un po', ma all'orizzonte resisteva ancora una strisciolina rosa e arancione; il cielo iniziava a puntellarsi di minuscole stelle, e una brezza leggera soffiava sulla mia pelle accaldata. Per strada regnava il silenzio, spezzato solo dal passaggio di qualche automobile lontana o dall'abbaio di un cane solitario.

In tutta quella quiete pareva quasi che i miei passi riecheggiassero dietro di me, ma ben presto mi resi conto che c'era qualcun altro a camminare lungo quella strada. Deviai la mia traiettoria verso le auto parcheggiate accanto al marciapiede sinistro, e arrischiai un'occhiata alle mie spalle. Non c'era nessuno.

Te lo sarai immaginato, pensai, tornando sui miei passi. Troppi film di paura.

Un momento dopo, però, il rumore riprese da dove si era interrotto. Io feci finta di nulla, camminando rapidamente sotto la luce dei lampioni e pregando che, chiunque fosse, non stesse seguendo proprio me.

Ma che vai pensando!, mi rimproverai. Queste cose succedono solo nei film, Tara.

Quel pensiero non mi tranquillizzò affatto: riuscivo a sentire il suo respiro affannato alle mie spalle, adesso, e avvertivo uno sguardo insistente puntato sulla schiena.

Ora basta.

Mi arrestai in mezzo alla strada, voltandomi di scatto. Una figura in ombra scattò verso destra, acquattandosi come un gatto tra due auto parcheggiate, ma io la vidi fin troppo bene.

«Non c'è bisogno di nascondersi», dissi, indietreggiando di qualche passo. «Ti ho visto. Tanto vale che esci fuori e mi dici perché mi stavi seguendo». Ci fu un fruscio e qualche passo ovattato. «Hai bisogno di soldi?» continuai, facendo scorrere la cerniera del borsone verso destra. «È per questo che mi seguivi?»

«No», rispose una voce soffocata. «Non è per quello».

Lasciai cadere il portafoglio nel borsone, continuando a indietreggiare. «Meglio, perché non ho una lira. Ti sarebbe andata male». Mi sembrò di sentire una risata, ma non ci avrei giurato. «Perché mi seguivi, allora? Hai bisogno di qualcos'altro?»

La figura emerse dall'ombra tra le due auto, avanzando a passo lento verso di me. A giudicare dalla corporatura massiccia era sicuramente un maschio. «Niente di particolare, in realtà». La sua voce mi risultava familiare, ma non riuscivo a capire a chi appartenesse. L'avevo già sentita in passato, di quello ero sicura.

Dopo altri due passi entrò nel cono di luce gettato da un lampione acceso, e allora riuscii a vederlo in faccia.

Edoardo, mani in tasca e un cappellino con la visiera calcato in testa, sorrideva. «Volevo solo fare la pace con te, bambolina».

Fu in quel momento che ebbi la certezza che qualcosa in lui non andava.

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