5
Il primo pensiero lucido che mi attraversò la mente fu che si trattasse di un borseggiatore: la metro A, in sostanza, ne era la patria.
«Ho solo venti euro» annunciai, senza riuscire a reprimere il tremolio nella mia voce. Mi voltai sulle gambe incerte, il portafoglio stretto tra le mani e il cuore che martellava sulle costole. L'uomo era a pochi metri da me: stazionava davanti all'imbocco per l'uscita, in ombra e grondante d'acqua. Aveva le mani libere, ma non potevo dare per scontato che fosse disarmato.
«Ecco» tentennai, lanciando il portafoglio nella sua direzione. Si schiantò a pochi passi da lui e rimbalzò fino a toccare la punta della sua scarpa destra, ma l'uomo non lo guardò nemmeno: i suoi occhi erano fissi su di me.
«È talmente... inebriante» disse poi, la voce arrochita da fumatore. Annusò l'aria, due sniffate veloci che si persero nello scroscio della pioggia alle sue spalle, poi avanzò di un passo. «Sei brava a scappare, bellezza, non è vero?»
Scappare? Che stava dicendo? «Forse ti confondi» balbettai, la voce sottile e sul punto di spezzarsi. Indietreggiai di un passo verso i tornelli e le suole bagnate delle scarpe stridettero sul pavimento. «Io non-»
«Questo profumo è inconfondibile» mi interruppe, avanzando ancora. «E il sapore deve essere ancora meglio.»
Oh, buon Gesù, era un pazzo cannibale.
«Devi confonderti per forza» tartagliai, mangiandomi le parole. «Esco adesso da cinque ore di palestra e dubito seriamente di avere un buon odore.»
L'uomo mosse altri due passi verso di me, entrando finalmente nel cono di luce di una lampada al neon, e i canini lunghi e appuntiti che pungevano il labbro inferiore mandarono un bagliore sinistro. «Infatti è il tuo sangue a profumare, bellezza.»
Non persi tempo a questionare se quanto appena visto fosse frutto di un'allucinazione o meno: corsi via. Mi buttai in ginocchio per scivolare sotto le sbarre del tornello più vicino e, seguendo l'istinto, mi catapultai alle scale mobili che portavano ai treni. Capii di aver commesso un errore quando sentii i suoi passi pesanti venirmi dietro: a meno di non voler spostare la mia fuga sulle rotaie della metro, non potevo andare oltre. Mi ero messa in trappola da sola.
Saltai in blocco gli ultimi gradini e schizzai lungo la linea gialla della banchina, controllando con la coda dell'occhio il tabellone elettrico che baluginava nella penombra. Il convoglio successivo sarebbe passato in tre minuti, un lasso di tempo potenzialmente fatale: non sapevo che intenzioni avesse quell'uomo, ma non gli ci sarebbe voluto molto a spararmi un proiettile addosso.
O a morderti, suggerì una vocina molesta, rievocando l'immagine dei suoi canini affilati. Era un incubo. Doveva essere un incubo, non c'erano altre spiegazioni. Presto mi sarei svegliata nel mio letto, già rincasata da ore e...
«Io te l'ho detto» ghignò la voce dell'uomo alle mie spalle. «Oggi non mi scappi, bellezza.»
Mi voltai di scatto, continuando a indietreggiare lungo la banchina, e oltrepassai l'ultima fila di sedute in ferro. Presto sarei giunta al capolinea.
«Che vuoi da me?» sbottai, le mani serrate sulla cinghia della borsa come a farmi forza. «Che cosa vuoi, si può sapere?»
L'uomo sorrise e, ancora una volta, i canini aguzzi brillarono sotto le lampade al neon. A quel punto ne ero piuttosto certa: le zanne non erano affatto frutto di un'allucinazione. C'erano per davvero.
La parola vampiro si dispiegò lettera per lettera nel mio cervello, ma mi impedii di rimuginarci su troppo a lungo: qualunque cosa fosse, avevo i miei seri dubbi che le sue intenzioni fossero amichevoli.
«Ti inseguo da giorni» ghignò, continuando a guadagnare terreno. «Tre lunghissimi giorni a seguire la scia del tuo profumo da un lato all'altro della città... Merito anch'io un premio, non credi?»
Deglutii a vuoto e indietreggiai ancora, giusto per scontrarmi con il muro gelido in fondo alla banchina. Ed eccolo lì, il mio capolinea.
Dal sorriso dell'uomo intuii che l'avesse capito anche lui: non potevo più scappare.
«Sembra che l'uccellino sia finito in trappola.»
Per un attimo, mentre la distanza che ci separava diminuiva a vista d'occhio, venni sopraffatta dal panico: il cuore pompava furibondo, la vista si annebbiava e tutto ciò a cui riuscivo a pensare era la mia morte. Sarebbe finito tutto così, dunque? Me ne sarei andata senza aver gareggiato ai mondiali, preso un sei in matematica o detto addio alla mia famiglia?
Poi, però, un briciolo di razionalità riprese il sopravvento: non potevo sopraffarlo fisicamente, ma magari giocando d'astuzia...
Saggiai il peso del borsone e, senza distogliere lo sguardo da quell'essere, lo sfilai lentamente dal braccio destro. Raggiungeva i sei o sette chili, almeno: non sapevo se sarebbe bastato per ciò che avevo in mente, ma a quel punto tanto valeva provarci.
«Ti prego, non farmi del male» farfugliai, afferrando la cinghia con entrambe le mani. «Ti scongiuro, io... farò tutto ciò che vorrai, ma-»
«L'unica cosa che voglio è assaggiarti, uccellino» mi interruppe lui, avvicinandosi di un altro passo.
Adesso o mai più.
Lo vidi aprire la bocca per aggiungere qualcosa, ma non ebbe tempo di emettere il minimo suono: un secondo dopo caricai il borsone oltre la spalla sinistra e lo usai per colpirlo dritto in faccia.
L'essere barcollò all'indietro, colto alla sprovvista, poi i suoi occhi incrociarono i miei e si riempirono di furia cieca. Mosse un passo a destra per riacquistare equilibrio, ma il suo piede incontrò il vuoto oltre la banchina e lui precipitò sulle rotaie.
Non persi tempo: gettato il borsone in spalla, sfrecciai come un fulmine fino alle scale. Macinai i gradini a due a due, ignorando i ruggiti disumani che rimbombavano nel tunnel, e quando intravidi i tornelli credetti di essere salva: da lì, se correvo abbastanza veloce, potevo arrivare in palestra in meno di due minuti.
Ma non feci in tempo a concludere quel pensiero che una mano mi afferrò per il cappuccio della felpa, spintonandomi a terra. Battei la fronte sul pavimento umido e, per una manciata di interminabili secondi, vidi nero.
«Brutta puttanella» ringhiò la voce dell'essere a pochi centimetri dal mio orecchio. Il suo respiro era gelido. «Credevi di fregarmi?»
Il peso improvviso che piombò sulla mia schiena mi strappò un rantolo, insieme alla poca aria rimasta nei polmoni. «N-no» ansimai, sollevando a fatica le palpebre. «Per favore, non...»
«Volevo andarci piano, uccellino, ma tu non dovevi fare la stronza. Non dovevi proprio.»
Lo sentii armeggiare con il cappuccio della felpa, e il pensiero di ciò che sarebbe successo di lì a poco mi costrinse a riattivare le sinapsi. Dovevo trovare il modo di attaccarlo, di rallentarlo abbastanza da lasciarmi scappare, ma non sapevo che inventarmi. Avrei avuto bisogno di un'arma, e io non ne...
Oh, ma certo! Il coltello di nonno Luigi!
Spalancai gli occhi di colpo. Il borsone era scivolato a diversi passi da me, troppi perché potessi raggiungerlo con quel peso a schiacciarmi la schiena. Tesi il braccio fino a sentire qualche ossicino scricchiolare, le dita che annaspavano a pochi centimetri dalla cinghia consunta della borsa e la frangia zuppa che mi andava negli occhi.
«Il sangue illibato è quello che preferisco» ruggì la voce cupa dell'essere, mentre la zip della felpa cedeva sotto i suoi strattoni. «Prosciugarti sarà un vero piacere, uccellino.»
Dibattei le gambe e agitai i fianchi, nel disperato tentativo di raggiungere la borsa prima che quello mi trasformasse nella sua cena. Non erano trascorsi nemmeno tre mesi dal mio ultimo incontro ravvicinato con una creatura leggendaria: com'era possibile che stesse accadendo di nuovo? Ero piuttosto certa che, se fossero esistite delle statistiche inerenti ai contatti tra umani e Leggende, io avrei sballato tutti i conteggi.
All'ennesimo colpo di reni, riuscii a strisciare in avanti abbastanza da raggiungere la cinghia della borsa. Quasi strappai la cerniera per aprirla, ma quando iniziai a frugare tra body, astucci e bende arrotolate, un dolore lancinante mi perforò la spalla sinistra. Bruciava, bruciava come l'inferno: cacciai un urlo che mi raschiò la gola e presi a divincolarmi ancora più forte. Sentii le zanne ritrarsi e scivolare fuori dalla mia carne, giusto per riaffondare ancora più giù un momento dopo.
Sarei morta? Sarei diventata un... un vampiro? Non ne avevo idea: sapevo solo che avrei fatto di tutto per placare quelle fitte lancinanti alla spalla. Così, annebbiata dal dolore e da uno strano senso di stordimento che si faceva largo nel mio corpo, tornai a rovistare nel caos della mia borsa. Nonostante i movimenti lenti e impacciati mi facessero sentire come se fossi sott'acqua, impiegai poco a trovare la scatoletta; ne cavai l'arma con le dita intorpidite e, chiamando a raccolta le ultime forze che mi restavano in corpo, ripresi a dimenarmi come un pesce fuor d'acqua: scalciai a vuoto e dibattei le anche finché l'essere non si staccò dalla spalla con un cupo gorgoglio.
«Vuoi stare ferma, maledizione?»
Non attesi altro: mi rigirai sulla schiena come un sacco e, il coltello sempre ben impugnato per il manico, sferrai un calcio a pié pari nello stomaco dell'essere. Di danni ne fece ben pochi – ero pur sempre una sedicenne di quaranta chili che aveva appena versato una discreta quantità di sangue – ma il colpo lo prese alla sprovvista e mi diede il tempo di indietreggiare. Le scarpe slittarono sulla pozza cremisi che si espandeva sul pavimento ma, un po' barcollante, riuscii comunque a rimettermi in piedi.
«Non ti avvicinare.» Brandii il coltello davanti a me, la mano che tremava visibilmente e le membra sempre più deboli. Parte di me era consapevole del sangue che continuava a uscire a fiotti dalla spalla sinistra, inzuppando il cotone leggero della felpa, ma non gli diedi troppo peso: me ne sarei preoccupata una volta al sicuro. «Sta' lontano da me!»
L'essere mi fu addosso tanto in fretta che non lo vidi nemmeno arrivare: sentii perfettamente le zanne farsi strada nella mia carne, però, e il dolore fu tale da strapparmi un altro grido.
No, no, no.
Sentivo le ginocchia cedere, il cuore rallentare a ogni secondo trascorso, la vista annebbiarsi come se fossi stata sul punto di cadere in un sonno profondo. Stavo perdendo il contatto con la realtà.
Per non andare del tutto alla deriva mi aggrappai al dolore: le pungolate di fuoco che mi laceravano la spalla, allargandosi come un'onda d'urto lungo tutto il braccio, erano l'unica cosa che mi teneva con i piedi per terra.
Ancora per poco, riuscii a pensare, stringendo il manico del coltello tra le dita intorpidite. Deglutii a vuoto e, sollevato il pugnale con uno sforzo sovrumano, lo conficcai di netto nella schiena dell'essere.
Quello estirpò i canini dalla mia carne per lanciare un ruggito che si riverberò in ogni direzione. Strappai via il coltello prima che si allontanasse, indietreggiando di un passo, e glielo puntai contro.
«Stammi lontano» lo minacciai, la voce ormai ridotta a un basso mormorio. «Stammi... Stammi...»
Ma quello sembrava aver perso ogni interesse nei confronti della sottoscritta: aveva portato una mano sul petto, teneva lo sguardo basso e oscillava sulle gambe improvvisamente instabili.
E poi, sotto il mio sguardo incredulo, la sua pelle iniziò a sgretolarsi: si crepò sulle mani, sul collo, sulle guance... e come un vaso di ceramica lasciato cadere dallo scaffale più alto di una libreria, andò in frantumi. Nel giro di qualche secondo, di quell'essere non restò che un mucchio di stoffa e cenere.
Un momento, cosa?
Battei le palpebre, ma la scena non cambiò: l'essere era scomparso. Abbassai lo sguardo sul coltello, ancora stretto nella mia mano sudaticcia, poi lo spostai nuovamente sul pavimento. Andato, come se non fosse mai esistito. Letteralmente polverizzato.
Lo sferragliare lontano di una metro mi fece sussultare. Qualunque cosa fosse successa dovevo andarmene da lì, e dovevo farlo alla svelta. Raccattai le mie cose da terra e, ignorando la sensazione di stordimento che andava risucchiando quel poco di lucidità che mi restava, barcollai fino alle scale mobili.
Che cosa era appena successo? Mi ero immaginata ogni cosa, forse? Lo sguardo mi scivolò sulla spalla sinistra; la felpa intrisa di sangue copriva la ferita, ma non ci voleva un genio a capire che non mi ero immaginata un bel niente. E quel dolore pulsante era decisamente reale.
Scesi traballando dalla scala mobile e mi infilai per un pelo nel convoglio in partenza, scivolando su uno dei tanti posti liberi.
Il tragitto fino a casa fu confuso, ovattato, come frutto di un sogno: continuavo a stringere convulsamente la spalla sinistra, le mani ormai imbrattate di sangue e il cervello del tutto scollegato. Cos'era successo davvero? Quello... era un vampiro? E io sarei diventata come lui?
Quelle domande mi accompagnarono per tutta la durata del tragitto, prima sulla metro, poi su un 998 completamente deserto e infine lungo il breve tratto a piedi che separava la fermata dell'autobus da casa mia. Solo una volta richiusa la porta alle mie spalle, zuppa per il diluvio, infreddolita e dolorante, sembrai sbloccarmi: un fiume di lacrime e singhiozzi mi travolse in pieno, costringendomi a scivolare sul pavimento come una marionetta senza fili. Rimasi accovacciata lì per un tempo indefinito, al buio e in una pozza d'acqua e sangue, i singhiozzi a sconquassarmi come potenti scosse elettriche. Dovevo andare in ospedale, forse? Mi servivano dei punti? Scoprii la spalla con le mani tremanti e il mio stomaco si strinse in una morsa: non avevo mai visto tanto sangue tutto insieme. Facendo leva sul braccio buono mi rialzai sulle gambe, incedendo poi a passo incerto nella semioscurità dell'appartamento; arrivata in bagno tentai di accendere la luce, ma i faretti rimasero spenti: doveva essere saltata la corrente. Visto il temporale che continuava a infuriare all'esterno, non me ne stupivo nemmeno.
«Okay, Tara» bisbigliai tra me e me, artigliando il bordo del lavandino con le mani. «Va tutto bene. Va tutto benissimo. Sei stata aggredita, cosa più che prevedibile dato che eri da sola in metro, come se non bastasse di sera.» Annuii come a dare manforte alle mie stesse parole, scrutando l'accenno del mio riflesso illuminato dalla luce fioca che penetrava dalla finestra. «Ti ha morso e con ogni probabilità tu l'hai ucciso, ma questo... questo...»
La frase venne divorata da una nuova valanga di singhiozzi, al che capii che tentare di tranquillizzarmi non sarebbe servito a nulla: quello che era successo non era normale e io non sapevo proprio come spiegarmelo. Perché io? Perché, dopo tutto quello che avevo dovuto subire durante l'estate? Non bastavano gli occhi di Edoardo a popolare i miei incubi?
Tra un singhiozzo e l'altro riuscii a sfilarmi la felpa, che finì sotto l'acqua corrente del bidet, poi tornai a osservare il mio riflesso nello specchio; ora che gli occhi iniziavano ad abituarsi all'oscurità riuscivo a scorgermi senza problemi: occhi gonfi e pieni di lacrime, fronte scorticata appena sopra il sopracciglio destro, sangue ovunque. Sfilata la bretella sinistra della canottiera, mi feci coraggio e tamponai la pelle con un mucchio di carta igienica bagnata. Il bruciore fu immediato, ma continuai a pulire la ferita finché il grosso del sangue non fu sparito, così da poter valutare l'entità del danno. Due forellini paralleli bucavano la spalla sinistra, a distanza di quattro o cinque centimetri l'uno dall'altro; aloni violacei iniziavano a sbocciare attorno alle ferite, che nel frattempo continuavano a spillare sangue in goccioline sottili. Ci pressai sopra altra carta igienica, mentre con la mano libera mi sbottonavo i jeans fradici. Tremavo così violentemente che ci vollero quattro tentativi per completare l'impresa: stavo morendo di freddo e iniziavo a rendermene conto solo in quel momento.
Gli improvvisi colpi alla porta d'ingresso mi strapparono un singulto soffocato. Un'esplosione di pensieri incontrollabili iniziò a vorticarmi nella testa: i miei erano già tornati? Che gli avrei raccontato? E se non fossero stati loro? E se fosse stato...
«Tara? Tara! Diamine... Che qualcuno mi apra, per la miseria!»
La voce era spezzata dal pianto e distorta dalla distanza, eppure non avevo il minimo dubbio: la persona che si stava sgolando sul mio pianerottolo, rischiando di scardinare la porta per i colpi inferti, era Vittoria Castoldi. Ne ero assolutamente certa.
Spazio Yumi:
Ok, ok, ammetto di essere in ritardo colossale. Non pensavo di metterci così tanto a finire questo capitolo, ma la mia vita ultimamente è davvero frenetica e non ho avuto un secondo da dedicare alla scrittura D: Prometto, croce sul cuore potessi morire, che il prossimo aggiornamento arriverà davvero in tempi record. Giurin giurello, se così non fosse vi autorizzo a presentarvi sotto casa mia con torce e forconi.
Vi voglio tanto bene e vi ringrazio per tutto il vostro supporto, siete impareggiabili!
P.s. Vi ricordo che il primo volume di Cacciatori di Leggende è disponibile per l'acquisto su Amazon, sia in eBook che in cartaceo!
P.p.s. So che tutti vi aspettavate la comparsa di Guglielmo, ma fidatevi di me, ci vorrà poco per ritrovarcelo in mezzo alle scatole ;)
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