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Appollaiata come una civetta depressa sulla sedia girevole, osservavo in religioso silenzio il risultato della mia pigrizia: i compiti delle vacanze, ammonticchiati disordinatamente in un angolo della scrivania, giacevano intatti dall'otto giugno precedente. Tre mesi e qualche giorno, a conti fatti. Intendiamoci, non era certo stata colpa mia: dopo aver giocato a fare l'eroina e rischiato seriamente di lasciarci le penne, mi era servito un breve periodo di riposo per riprendermi. Persino mamma era stata d'accordo: al mio rientro da San Benedetto del Tronto - tre settimane di torture medievali per il ritiro estivo affrontate subito dopo il soggiorno a Roccascura - mi aveva concesso una settimana, lasso di tempo più che sufficiente a riprendersi da un lutto come il mio. Be', almeno secondo lei. Poco ne sapeva che la causa di quel lutto ero proprio io, e che quindi di tempo me ne serviva un po' di più. Non avevo contestato, comunque: da brava sedicenne matura - e terrorizzata dalle conseguenze - quale ero, avevo dato manforte al volere materno, fingendomi solidale con le sue decisioni. E lo giuro, lo giuro, le intenzioni le avevo tutte! Magari con un paio di settimane di ritardo, forse al limite limitissimo tre, ma i compiti li avrei iniziati! Giurin giurello, l'avrei fatto davvero. Poi però i giorni si erano allungati senza che io me ne accorgessi, dilatandosi in settimane e, assurdo, trasformandosi in mesi. Il tempo di un battito di ciglia e puff!, l'estate era giunta al termine senza che me ne rendessi conto. E, soprattutto, senza che avessi nemmeno iniziato a svolgere i miei compiti.
«Stupida Tara, stupida Tara, stupida Tara» borbottavo tra me e me come un mantra, guardando male la traballante pila di libri e schede che l'indomani avrei dovuto portare a scuola. «Stupida Tara, stupida Tara, stupida Tara!»
«Per una volta sono d'accordo con te!» rise Giacomo dall'altra parte del muro, sovrastando appena il frastuono del suo ennesimo disco metal. «Posso unirmi al tuo assolo disperato, se ti va!»
Io mi allungai sulla scrivania, montandoci con le ginocchia, e battei il pugno sulla parete. «Smettila, che tanto stai messo peggio di me!»
«Guarda che io i compiti non ce li avevo, genio!»
Oh, giusto. Giacomo avrebbe iniziato le superiori, quell'anno. Stupido fortunello.
Tornai ad appollaiarmi sulla sedia con uno sbuffo, logorandomi le sinapsi alla ricerca di un modo per svolgere tre mesi di compiti in un pomeriggio.
O in una serata, suggerì una voce malefica, quando lo sguardo mi cadde sull'orologio a cucù appeso accanto alla porta. In un modo o nell'altro si erano fatte le otto, e io ero esattamente al punto di partenza.
Tamara Delia Colombo, sei una vera disgrazia.
«Tara, mi dai una mano ad apparecchiare?» cinguettò mia madre dalla cucina, gettandomi ancor più nello sconforto. «In fretta, che le fettine sono quasi pronte!»
«Arrivo!» risposi, imitando il suo trillo di pura allegria. Il fatto era che mamma non sapeva nulla del mio ozio prolungato e, anzi, era convintissima che avessi finito i compiti con largo anticipo. Non potevo certo darle una batosta del genere, no?
Arraffai il frutto della mia negligenza dalla scrivania e, senza pensarci nemmeno per un secondo, nascosi tutto nello zaino. Avrei pensato a una soluzione più tardi, col favore della notte e della casa addormentata.
Il profumo delle fettine panate che friggevano nel tegame mi diede il benvenuto non appena misi piede in cucina, e il mio stomaco, felice, diede la propria approvazione. Non mangiavamo nulla da quasi un'ora, del resto.
«Hmmm, senti che profumo» commentai, affacciandomi oltre la spalla di mamma per dare una sbirciata alle fettine. «Approvo!»
«Non provarci, signorina.» Mamma tentò di colpirmi con la paletta di legno che aveva in mano, ma io ero già sgusciata dall'altra parte del tavolo. La usò comunque per minacciarmi, agitandola nella mia direzione come una spada affilata. «Ti ho visto con quei Ferrero Rocher, oggi pomeriggio.»
Ops. Eppure credevo di essere stata discreta come un ninja.
«Era solo uno spuntino!» mi giustificai, spalancando il portello della lavastoviglie e accovacciandomi al suo cospetto. Mi impilai quattro piatti piani sul ginocchio sinistro, lo sguardo fisso sulla schiena di mia madre e le sopracciglia inarcate. «E poi che vuoi fare, lasciarmi a digiuno?»
Lei, ancora in piedi davanti ai fornelli, ruotò la testa per rivolgermi un sorriso diabolico. «Petto di tacchino e insalatona mista. Non hai scampo, signorina.»
Ecco, appunto. Mi raddrizzai con un mezzo sbuffo e raggiunsi il tavolo, sistemando i piatti ai soliti quattro posti; buttai una manciata di tovaglioli al centro, accompagnata dalle ultime forchette scovate nel cassetto, poi aggiunsi quattro bicchieri spaiati e osservai soddisfatta la mia opera. «Voila! Vado a vedermi Paperissima, eh?»
«Hai scordato il pane, l'acqua e i coltelli!» mi gridò dietro mamma, un secondo prima che abbandonassi la cucina per lidi più tranquilli. «Fai sempre le cose a metà, ma è possibile?»
Impalata come un carciofo sulla soglia, decisi di giocarmela e le rivolsi una linguaccia. «Li mette Giacomo. Giagiu, c'è da finire di apparecchiare!» aggiunsi a voce più alta, prima di svignarmela in salotto.
Il rapporto con mia madre era molto migliorato, negli ultimi mesi, ma Caterina Rinaldi restava una donna che andava assunta a piccole dosi. Parole di papà, non mie.
Sprofondai sul divano con un sospiro soddisfatto, affaticata da quel giorno di ozio assoluto, e con un colpo di telecomando accesi la TV. Dopo una veloce sessione di zapping capii che non c'era nulla di interessante da vedere, così, lasciato il TG 5 come sottofondo, presi il cellulare dalla tasca dei pantaloncini e mi lanciai in un'analisi approfondita dei miei social. Trascorsi una buona manciata di minuti a mettere like e commentare alcuni degli edit postati dalle ragazze che mi seguivano, poi risposi a una quindicina di direct con cuori a profusione. Non mi spiegavo il motivo, ma dalla mia partecipazione ai campionati europei le persone avevano iniziato a seguirmi con una certa assiduità. O meglio, più di una certa assiduità: solo su Instagram avevo quasi trecentomila followers, una cifra folle di cui non riuscivo proprio a capacitarmi. Non stavo simpatica a tutti, comunque: quando andavo a scorrere i commenti sotto le foto che postavo, cercando di mettere 'mi piace' e rispondere a quanti più possibile, incappavo anche in messaggi come 'nana da giardino', 'si piega come un tubo di gomma, che schifo' e simili. Non era piacevole, ma non mi dava neanche troppa pena.
Uscii da Instagram e approdai su WhatsApp. Risposi velocemente al messaggio di Giulia per confermarle l'orario del nostro incontro in piazza, l'indomani mattina, poi uscii e scorsi le chat fino a imbattermi in quella di Vittoria. Il giorno della partenza non avevo perso tempo: appena montata in macchina, destinazione Roma, le avevo scritto un messaggio al numero segnato sul foglietto. Nel giro di qualche ora la spunta solitaria alla base del messaggio era raddoppiata, per poi tingersi di blu, ma di una risposta della mia amica nemmeno l'ombra.
Aprii la chat per l'ennesima volta nel corso dell'ultimo mese e, mordicchiandomi l'unghia del pollice, scorsi quelle poche righe che ormai sapevo a memoria.
Ciao, Vittoria. Ti sto guardando... quel top a pois ti sta d'incanto. Firmato, il tuo stalker.
Scherzo, scherzooo! Sono solo Tara, anche se mi sa che a questo punto preferivi lo stalker... e niente, volevo solo dirti che questo è il mio numero. Oh, salutami tuo fratello, degno maschio alfa! Ti voglio bene, Tara 😊
Avevo sbagliato qualcosa? Si era offesa? Be', dubitavo l'avrei mai scoperto. Dopo quel messaggio non mi ero azzardata a scrivergliene un altro, né tantomeno mi era venuto in mente di chiamarla, perché nel mio immaginario Vittoria mi odiava e con lei anche Guglielmo. Dovevo aver fatto qualcosa di terribile per attirarmi in questo modo le loro ire, ma, per quanto ci pensassi, non riuscivo a venirne a capo.
«È pronto a tavola!»
Richiusi la chat con un sospiro e, infilato il telefono nella tasca posteriore dei calzoncini, mi trascinai fino in cucina.
«Che brutta faccia!» rise mio fratello, già comodamente spaparanzato al proprio posto. «Che c'è, un cagnaccio cattivo ti ha mangiato i compiti?»
Assicurandomi che mamma fosse ancora voltata verso il frigo, mi passai l'indice sulla gola e fulminai Giacomo con l'espressione più truce del mio repertorio. «Taci» sillabai, guadagnandomi solo una risatina da parte sua. Anche il rapporto con mio fratello era nettamente migliorato, negli ultimi mesi, ma lui trovava comunque il modo di darmi sui nervi: prima erano gli insulti, ora le frecciatine simil-amichevoli. Malefica pustola che non era altro.
«In effetti hai l'aria un po' spenta» concordò mamma, richiudendo il frigo con un colpo d'anca e approdando a tavola con ketchup e maionese. Sistemò le bottigliette al centro del tavolo, poi si accomodò sulla propria sedia e diede un'occhiata all'orologio da polso. «Qui papà non arriva più... intanto cominciamo, va', che altrimenti si fredda tutto.»
Neanche finì di parlare che Giacomo si fiondò sul proprio piatto, ingozzandosi come un barbone che non vede cibo da mesi. Da parte mia, mi limitai a rimestare l'insalata con aria assente, infilzando qualche pomodorino senza particolare entusiasmo.
«Tara, sul serio, che ti prende?» insistette mamma, armeggiando con forchetta e coltello. «È da un po' che ti vedo abbastanza giù. È tutto okay?»
«Sarà l'inizio della scuola che mi ha buttato così giù» improvvisai, prima di infilarmi in bocca un generoso boccone d'insalata. La mia non era proprio una bugia, in fin dei conti: tornare a scuola non era esattamente motivo d'entusiasmo, nonostante facessi l'orario ridotto e l'agonismo mi consentisse di saltare un bel po' di lezioni. «E magari ho anche un po' d'ansia per i mondiali» buttai lì, sperando che mamma ci cascasse. La ginnastica, del resto, era il suo tallone d'Achille: a volte sembrava quasi che la vera appassionata fosse lei, che nella sua carriera da ginnasta non era mai riuscita ad andare oltre la serie B.
«Tu, spaventata per una gara?» rise, prima di infilarsi in bocca un grosso pezzo di fettina. «Ma per favore, Tara. Gareggi da quando avevi quattro anni e non ti ho vista in preda all'ansia nemmeno prima delle olimpiadi giovanili!»
Porca miseria, aveva ragione. Ma perché dovevo essere così strana? Perché non potevo essere ansiosa come lei o le mie compagne di squadra? Non fraintendetemi, riuscire a mantenere il sangue freddo in gara era una vera botta di fortuna: probabilmente era in gran parte grazie a questo se avevo collezionato così tanti successi.
«Le persone cambiano, mamma» tentai, lo sguardo basso sul petto di tacchino che stavo martoriando col coltello. «E poi lo dici sempre anche tu, un po' d'ansia sarebbe l'ideale per-»
«Ora smettila. Qual è il vero motivo?»
Mi costrinsi ad alzare lo sguardo verso di lei. Che pizza, ma non si poteva proprio nasconderle nulla? «Te l'ho detto, ma', è la scuola. Dicono che il terzo è l'anno più difficile.»
«Sì, per quelli che studiano davvero» ghignò Giacomo, guadagnandosi un'occhiataccia da parte mia. E anche un pezzo di pane, che atterrò con precisione chirurgica tra le ciocche unte della sua chioma. «Proprio civile da parte tua, Tara» bofonchiò, sfilandolo e lanciandolo sul pavimento.
Per tutta risposta, io gli lanciai un bacio volante. «Ho imparato dal migliore.»
Mangiammo in silenzio per un po', i tintinnii delle posate sui piatti di ceramica e il ronzio del frigo a farci compagnia, finché mamma non decise di girare un altro po' il coltello nella piaga.
«Senti... È per quel Guglielmo, vero?»
Io, che molto ingenuamente avevo scelto proprio quel momento per bere un sorso d'acqua, corsi il serio rischio di morire soffocata. «Cosa?» rantolai, tra un colpo di tosse e l'altro.
L'espressione di mia madre era una maschera indecifrabile: era arrabbiata? Preoccupata? Delusa? Sospettosa? Dubitavo l'avrei mai scoperto. «È per lui che sei così giù? E sua sorella, com'è che si chiamava... Vittoria?»
«Ma figuriamoci!» trillai, la voce tanto acuta che il lampadario appeso sopra le nostre teste parve vibrare. «Io, giù di corda per un ragazzo? Andiamo, mamma, ti ricordi con chi hai a che fare?» Forzai una risata fintissima, gettando la testa all'indietro e battendo ripetutamente col pugno sul tavolo. «Io triste per un ragazzo, pfff! Bella questa! Per quel cavernicolo maleducato, poi? Come no!» Scossi la testa, schiarendomi la gola per recuperare un po' del mio contegno perduto. «No, lui... non mi manca per niente. Vittoria un po' sì, ma... insomma, sembra che la cosa non sia reciproca, visto che è sparita nel nulla senza lasciare la minima traccia. Magari è stata rapita dagli alieni.»
Oddio, l'ipotesi non era nemmeno così remota, con quel che faceva. E se le fosse successo qualcosa? E se fosse stata sbranata da un lupo mannaro, o morsa da un vampiro, oppure posseduta da un demone? O ancora bruciata viva da un drago? Oh, per la miseria, le possibilità erano infinite. Ma come avevo fatto a non vagliare una tale eventualità?
Guglielmo ti avrebbe avvisata, stupida.
Sì, l'avrebbe fatto di sicuro. Il che lasciava posto a un'unica, terribile verità: i fratelli Castoldi mi odiavano a morte. Non c'era altra spiegazione per questo silenzio così prolungato.
L'espressione di mamma si addolcì appena, probabilmente sollevata dalle mie affermazioni su Guglielmo. «Vedrai che si farà sentire presto.»
«Già...» Rilasciai un sospiro amaro, tornando a guardare il petto di tacchino fatto a pezzi nel mio piatto. «Ne dubito seriamente, mamma.»
Questo ancora non potevo saperlo, ma mi sbagliavo. Mi sbagliavo di grosso.
Spazio Yumi
Sorpresa!!! Primo capitolo postato in super anticipo, perché oggi faccio tre anni su Wattpad e volevo festeggiare in qualche modo! Il capitolo è di bozza, ergo assolutamente non la versione definitiva, ma ci tenevo a farvi un regalino per tutto l'affetto che mi avete dimostrato negli ultimi giorni. Grazie, davvero, non me lo aspettavo <3 E nulla, gli aggiornamenti riprenderanno da settembre, ma intanto qui c'è un piccolo assaggio che spero vi sia piaciuto! Vi mando un abbraccio fortissimo, bacioni a tutti!
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