Noi donne siamo le fate madrine di noi stesse
Quindi tutte le persone là fuori mi giudicavano una perdente?
O forse che i miei traguardi professionali fossero la diretta conseguenza dell’essere una perdente(leggi: zitella)?
Che mi fossi sbattuta per studiare, lavorare e ritagliarmi una fetta di successo solo perché avevo il presentimento che non avrei trovato un cane disposto a prendersi cura di me?
Fermi tutti, procediamo con calma.
Allora, riassumendo, la mia unica cugina di primo grado, cresciute insieme eccetera eccetera, mi aveva appena umiliata e mandata affanculo davanti alle sue amiche dandomi della zitella e della vantona.
(Quest’ultimo particolare tengo a puntualizzare che non è vero perché dalla sua prima bocciatura ebbi il tatto e la prudenza di non chiederle mai quali fossero i suoi progetti per il futuro né di accennare a come mi andavano le cose sul lavoro in sua presenza.)
Le persone che invece conoscevo da qualche ora, le sue future parenti per intenderci, mi consideravano poco meno che adorabile e avevano inquadrato alla perfezione quella stronzetta.
Ti aspetti una mazzata e arriva una carezza. Aspetti la carezza e arriva un diretto sui denti.
Potevo aspettarmi una certa malignità da donne anziane, con mentalità arcaiche per cui una donna nubile è una donna che ha fallito nello scopo della vita. I loro commenti mi scivolavano addosso. Ma non me li aspettavo da una ragazza sui vent’anni.
Invece era stato così. Inaspettato, e perciò devastante. Ai suoi occhi io, merce rimasta sullo scaffale, dovevo arrabattarmi per condurre una vita dignitosa, e lei, giovane e furbo virgulto, era in procinto di vivere una vita da favola senza aver mai mosso un dito.
Zitella. Fino a pochi minuti prima di averlo sentito, non me ne ero fatta un vero problema. Si, da cinque mesi avevo trent’anni, ed erano arrivati senza che nessun problema psichico si presentasse all’orizzonte. Non era stato come scontrarsi con un muro, non c’era stato un ticchettare sordo proveniente dalle ovaie a scatenarmi allarmi interiori.
Nessun accenno di panico. Forse perchè non molto tempo prima avevo avuto una rottura devastante con un uomo che avevo creduto d’amare finchè non aveva infilato la porta sbattendomela in faccia. E più che il suo abbandono, erano state le sue parole a ferirmi.
Forse gli strascichi di quella giornata avevano bloccato il senso di angoscia che le single provano quando non si profila una nuova storia d’amore all’orizzonte. I trenta erano arrivati e passati, l’annuncio che la mia giovane cugina si sposava mi aveva rallegrata invece di gettarmi in un abisso di disperazione.
Io sono una di quelle donne che amano un uomo, non l’idea dell’amore. In assenza di un oggetto d’amore tendo perfino a dimenticarmi di volere l’amore.
Aggiungiamoci che ho un lavoro frenetico e coinvolgente, amicizie stimolanti e molteplici interessi. La mia vita era già piena e per questo avvertivo ben poco l’esigenza di apportarle dei cambiamenti sostanziali.
Non che fossi refrattaria all’idea di una relazione, ma non mi strappavo i capelli per la sua assenza.
E soprattutto, credevo che fossero solo ed esclusivamente affari miei.
Grazie a quella origliata, invece, iniziai a sospettare che gli altri giudicassero la mia situazione affari loro, almeno come succoso argomento di pettegolezzo. Ed esprimevano giudizi privi della minima benevolenza.
Zitella. Quella parola mi colpiva più di tutte le altre. Accantonai la nascente pietà verso il futuro sposo di Lisa, che dopotutto se l’era scelta di sua spontanea volontà, e a quanto avevo appena appreso, per inseguire lei aveva mollato una compagna della sua età molto dolce e meritevole. Mi concentrai su quello che era stato detto di me.
Zitella invecchiata.
Non solo le vecchie troglodite, ma anche le giovani ritenevano che la mia data di scadenza era ormai passata e Lisa invece non aveva fatto in tempo a uscire dalla fabbrica per essere agguantata e portata a casa!
Stavo entrando in loop. Continuavo a ripetermi. Ero preda di un turbinio di sentimenti confusi!
Alla faccia di tutta la propaganda femminista dell’ultimo secolo.
Studia, ti dicono i tuoi, diventa qualcuno perché il mondo non ti arriva su un piatto d’argento.
Così scendi a patti con i tuoi istinti e ti impegni, fai le scelte giuste, rimandi quello che vuoi fare e quando finalmente hai una certa stabilità economica, una posizione sicura che ti consente di non dover chiedere nulla a nessuno, ti guardi attorno e vedi che invece di applaudirti per il risultato ottenuto la gente è ancora insoddisfatta. E quel settore, chiede, perché in quello c’è il vuoto? Tutte le altre se ne sono occupate!
Evviva le altre, vorresti gridare, ma farvi i fatti vostri mai?
In qualche modo, riuscii a defilarmi. Nessuno, neppure mia madre tentò di trattenermi. Bastava guardarmi in faccia per capire che ero in preda alla nausea. Il bacio sulla guancia che diedi a Lisa doveva avere lo stesso sapore di quello di Giuda.
Osservai per un secondo in più quel viso che credevo di conoscere tanto bene.
Il sorriso mi apparve come un ghigno sardonico capace di farmi vacillare. Ogni cenno del capo che qualcuno mi rivolgeva, ogni sorriso, ogni sguardo, mi sembrava mascherare rivoli di commiserazione e voler dire Ciao, vecchia zitella. È dura da mandar giù, eh? Ma non temere, non morirai sola… ti permetteranno di far la baby sitter ai figli!
Lo sforzo titanico per non lasciar trapelare la sofferenza interiore mi vuotò di ogni energia mentre inventavo un malessere dovuto al pesce crudo mischiato al vino, prendevo la maledetta statuina personalizzata e abbandonavo la festa. Dio, che giornata! Pugnalata alla schiena da una persona che amavo!
Avessi potuto rinchiudermi subito in casa, sarei scoppiata in lacrime, ma dover guidare per un’ora si rivelò terapeutico.
Scacciò il groppo che mi serrava la gola costringendomi alla lucidità mentre la mia mentre riproduceva a ripetizione la chiacchierata di Lisa e compagne.
Fortunatamente non nutrii impulsi suicidi, perché per la tensione il mio piede non abbandonò mai l’accelleratore. Senza incontrare un solo poliziotto in vena di arresti per eccesso di velocità, in trentotto minuti ero a casa.
L’unico motivo di gioia quel giorno fu scansare la portinaia, acutissima nel rilevare difficoltà personali nei condomini quanto cieca nello scovare macchie da pulire sui pavimenti.
Il condominio dove vivo è abbastanza signorile. Posso permettermelo solo perché il proprietario ha scisso in due gli appartamenti dell’ultimo piano, creando una serie di trilocali destinati a ospitare studenti universitari e single privi di pretese. Il fatto che non c’è ascensore rende il tutto particolarmente a buon mercato.
Otto rampe di scale bastano per scoraggiare la maggior parte dei possibili inquilini e di solito le salgo invocando aiuto ai santi protettori delle gambe, ma quella volta le feci tutto d’un fiato e una volta in casa, chiusi fuori il mondo.
Via le scarpe, via la giacca, via i pantaloni. Con addosso solo la camicetta e la biancheria aprii il frigorifero e contemplai la via meno rapida per il suicidio: annegare le arterie nel colesterolo.
Un vantaggio non indifferente nel possedere una pasticceria è avere sempre giacenze di giornata da portarsi a casa.
Sul primo ripiano, una fila di cannoncini alla crema. Sul secondo, sottaceti vari e barattoli di cioccolata artigianale. Sul terzo, meringhe ripiene di panna e una pentola di minestrone. Diverse bibite gassate ipocaloriche.
Non sono zuccheromane. Erano dolci per le mie due migliori amiche, che dovevano passare in serata. Il modo più gradevole per terminare una domenica sera in tutta tranquillità.
“Non faremo tardi, giusto due chiacchiere e un paio di bicchieri.” avevo proposto prevedendo che dopo mia madre e le sue inevitabili critiche mi sarebbe servito un rinforzino morale.
“Qualunque cosa escluda mamme rampanti come compagne di stanza è la benvenuta.”
Daniela, da sempre convinta che la maternità fosse il momento in cui una donna ha diritto d’ingrassare e godersi il proprio bebè, ha scoperto che oggigiorno c’è una feroce competizione tra le donne che riescono a procreare.
La maggior parte è plurilaureata, ex-carrierista, torna alla taglia pre-gravidanza entro un mese dal parto, guida suv, ha l’ossessione dell’istruzione della prole, del cibo biologico, del riciclaggio e cerca continuamente di farti sentire di merda mostrandoti le tue deficenze come madre.
Parole sue.
Giulia invece è una spumeggiante single che lavora per antiquari di alto livello. Deve trovare mobili di valore da comprare a poco, così da restaurarli e rivenderli a prezzo decuplicato. Veste sempre e solo di nero. Non è una seguace di Coco Chanel, ma una cinica e astuta donna d’affari, che ha il nero come divisa da lavoro. Inizialmente bazzicava aste e mercatini di persone che svuotano cantine, come tutti, ma da anni ha una tecnica personale per scovare pezzi nuovi da vendere.
Lei va alle veglie funebri.
Avete capito bene. Consulta tutti gli avvisi mortuari e si presenta a rendere omaggio in casa del morto come se ne fosse stata una lontana conoscente (così i parenti non si insospettiscono quando non capiscono chi è) e caccia il naso ovunque per individuare il mobilio più promettente. Dopodichè attacca bottone con quello che sa essere l’erede e se lo lavora convincendolo a venderle il pezzo che “Vorrei tenere in casa per ricordo del caro estinto.”
Pare sia molto facile con i generi e le nuore. Di solito sono così allegri per la dipartita della suocera da riuscire a malapena a trattenere le risate mentre viene chiusa la bara e non vedono l’ora di liberarsi del ciarpame della vecchia.
In quel momento non mi passò nemmeno per l’anticamera del cervello che Daniela e Giulia dovevano essere già per strada. La mia solitudine aveva i minuti contati.
Cannoncini, decisi. E una birra. Presi il tutto e me ne andai in camera da letto per infilarmi nel Pigiama delle Brutte Giornate.
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