Rialzarsi...
Se volete, leggete ascoltando la canzone che ho messo qui sopra.
Riccardo
Sono sdraiato sul letto, mani dietro la testa e lo sguardo puntato verso la finestra lasciata aperta. È notte, una notte d'estate, una di quelle umide che il caldo te lo appiccica addosso.
Non si muove nulla, non le foglie, non il vento. È tutto immobile, fermo, proprio come me.
Sono passati mesi ormai da quella notte di novembre in cui, senza volerlo realmente, ho commesso uno degli errori più grandi della mia vita.
Ho investito una persona, ma non una qualsiasi, la fidanzata del mio migliore amico, di quello che considero mio fratello.
Alexandria è stata in coma tre settimane e ho inflitto a lei, a Matteo ed alla sua famiglia, una sofferenza che non meritavano, una sofferenza che doveva essere solo mia e di nessun'altro.
Sono sempre stato io a non essere in pace con me stesso e con il mondo e ho fatto pagare questo mio terremoto interiore a chi mi stava intorno. Matteo, Alexandria, Arianna. Ho ferito le uniche persone che non lo meritavano, le uniche che tenevano a me, che hanno sempre visto del buono in me.
Io lo so che tutto quello che è successo dopo non me lo sono meritato, perché nonostante tutto, queste persone non mi hanno abbandonato, anzi mi hanno dato la possibilità che non speravo e non vedevo per me.
Non c'è stato nessun processo, nessun giudice, nessun verdetto, solo perdono e speranza per una vita ancora da vivere.
Ma da quella notte o forse da molto prima la mia vita si è fermata.
Vorrei andare avanti e ci sto provando. Mi alzo tutti i giorni, mangio, provo a studiare e da un paio di mesi vado tre volte la settimana a dare una mano in una casa famiglia dove va sempre Arianna. È stata lei un giorno a trascinarmi lì, voleva che uscissi, prendessi aria, che cercassi di riprendere a vivere un po'. Io non volevo andarci, non perché sono uno stronzo ricco a cui non importa nulla della sofferenza altrui, ma perché io non posso aiutare nessuno, non ho sostegno da dare. Non posso guardare ragazzi e bambini più piccoli e dirgli che andrà tutto bene, che magari saranno adottati e che sarà bellissimo, quando non lo penso.
Per me famiglia è vuoto e forse loro starebbero meglio lì che con una famiglia come la mia.
Ma Arianna è riuscita a portarmi lì lo stesso, è convinta mi possa fare bene, che mi possa far sentire utile. Crede che aiutare possa in qualche modo attenuare il senso di colpa che sento, spera che io non mi spenga del tutto. Lo vedo come mi guarda da un po' di tempo a questa parte, ha paura per me, paura che possa fare qualche stupidaggine e mi sta sempre dietro, viene anche la notte a controllarmi, quando pensa io dorma e non la senta, per assicurarsi che io sia ancora qui, vivo e vegeto.
E allora ho deciso che questa cosa per lei potevo farla, anche se sono spento dentro, io glielo devo, per tutto quello che ha fatto e fa per me da 18 anni a questa parte.
Portiamo vestiti, spesa e a me fanno fare piccoli lavoretti tipo ripitturare alcune stanze, aggiustare motorini, montare scrivanie, tutto pur di tenermi impegnato e non lasciarmi pensare. L'unica cosa che non posso fare è guidare, mi hanno ritirato la patente, il minimo dopo ciò che avevo fatto e almeno così non potrò fare del male a nessuno.
Guardo fuori in questa notte, osservo le stelle nel tentativo di cercare la mia, quella in grado di mostrarmi la strada, quella in grado di dirmi chi sono, di farmi compagnia in questa notte dove la solitudine è l'unica protagonista.
Guardo fuori ma non la vedo la mia stella, non la trovo e forse non sarò in grado di trovarla mai.
Sento dei passi avvicinarsi alla porta, sarà Arianna che è venuta a vedere se dormo, chiudo gli occhi per farle credere che sia così. Voglio che pensi che almeno un po' vada meglio, che la notte io riesca a dormire e ad uscire dai miei tormenti. Voglio che pensi io riesca a sognare come quando ero un bambino, come quando mi cantava la sua canzone preferita per farmi addormentare e siccome le ninne nanne non le sono mai piaciute, era "Ho imparato a sognare" la mia. E anche se ora io non ci riesco più a sognare, voglio farle credere che sia così, per dare un po' di tregua a lei che sta soffrendo con me ogni giorno da mesi.
La porta di camera mia si apre, ma i passi sono pesanti, barcollanti, fanno troppo rumore. Sono i passi di chi a fatica si regge in piedi, sono i passi che purtroppo di notte ho imparato a riconoscere. Sono i passi della donna che mi ha messo al mondo, ma che da sempre non è stata in grado di essere l'unica cosa di cui avevo bisogno, mia madre.
Cerca di avvicinarsi al mio letto, ma lo sento che non ci riesce, sbatte contro la scrivania che si trova sulla sinistra rispetto alla porta e poi la sento cadere per terra. E come tante notti in questi anni apro gli occhi e lei è lì, seduta a terra scomposta accanto al letto. Mi alzo e la raggiungo, lei alza la testa e mi guarda con gli occhi lucidi.
"Riccardo...scu...scusa" anche le parole le escono tremanti.
"Non...vol...volev...volevo svegliarti" dice a fatica.
"Tranquilla, non dormivo" le rispondo cercando di alzarla.
"No, no...non...non...va bene. Ti...ti...volev...volevo...sal...salutare" balbetta confusa.
"L'hai fatto, ora andiamo a letto che ne hai bisogno" l'afferro dalla vita con il braccio destro e mi metto il suo braccio sinistro intorno al collo per tentare di camminare e provare a raggiungere camera sua.
Riusciamo a fare solo pochi passi perché mia madre si piega su se stessa
"Non...non...mi...mi...sento..be...bene.."
riesce a dire prima di vomitare sul pavimento della mia stanza.
Come al solito e come sempre si libera di alcol e pillole che ha ingurgitato in chissà quale bar. E come sempre io sono qui accanto a lei a tentare di tenerle i lunghi capelli neri e a vederla distruggersi.
"Mi...mi...disp... dispiace....per...per... questo" tenta di dire a fatica. E quando anche l'ultimo conato di vomito finisce, inizia a piangere.
Mi guarda con i suoi occhi, verdi come i miei, pieni di lacrime.
"Son...son...sono...un...un...dis...
disastro" non posso dirle che non ha ragione, ma tanto disastro o non disastro, anche se lo dice e ne è consapevole, non smetterà mai di fare così. Sono anni ormai, sono abituato ai suoi "mi dispiace" "migliorerò" ed ogni volta non è mai l'ultima.
"Forza, andiamo, non puoi dormire con questo vestito che puzza di vomito"
L' afferro di nuovo per la vita e cerchiamo di raggiungere la sua stanza, ma nonostante sia distante solo pochi passi, ci mettiamo 10 minuti buoni a raggiungerla. Mia madre non riesce a muovere un piede senza inciampare, per fortuna che con il tempo sono diventato alto più di lei ed il calcio mi ha aiutato con i muscoli, altrimenti saremmo andati per terra come tante volte è successo quando ero più piccolo. All'epoca per raggiungere la sua camera i minuti erano molti di più tra cadute e tentativi di rialzarsi.
Cerco di far sedere mia madre sul letto e lei ci cade sopra quasi a peso morto. Vado velocemente in bagno e prendo una bacinella, che teniamo sempre qui per momenti come questo, la riempio con dell'acqua del lavandino in ceramica scelto da mio nonno, che vorrei prendere a calci solo per questo e torno subito di là.
Mia madre è lì, seduta con le mani nei capelli e piange, piange che quasi mi fa venire voglia di urlarle di smetterla, di dirle che è inutile, lei è fatta così e non cambierà mai ed io ormai ci sono abituato, è tutta la vita che la vedo così, non spero più che per una volta, solo per una volta, sia lei a prendersi cura di me e non il contrario.
"Avanti mamma, smettila di piangere e aiutami a cambiarti" mi avvicino e le allontano le mani dai capelli, lei mi lascia fare. Le avvicino la bacinella, le lego i capelli ed inizio a sciacquarle il viso, prendo l'asciugamano e piano tento di asciugarlo. Le tolgo le scarpe mentre lei mi osserva fare tutto e non dice una parola, ci sono solo quelle maledette lacrime che non riescono a smettere di caderle dagli occhi.
"Forza alzati!" Le ordino quasi e cerco di aiutarla a farlo. Una volta in piedi mi sbrigo ad abbassarle la zip del vestito nero e a toglierlo, lo lascio per terra e le prendo la sua camicia da notte. Non ho nemmeno il tempo di chiudere il cassetto del comò, che si trova proprio di fronte al grande letto a due piazze, che sento mia madre cadere per terra. La raggiungo subito e tra i singhiozzi tenta di parlarmi: "Scus...scusami....N..non..ce...l...la...fa... faccio"
"Abbiamo quasi finito, devo solo metterti la camicia da notte"
Mia madre mi guarda ancora e alza le braccia. Le infilo la camicia da notte come posso, poi la sollevo da terra e finalmente riesco a stenderla sul letto. Non la copro, tanto non serve, fa troppo caldo.
Mi allontano da lei per andarmene, ma lei mi prende il polso con la mano.
"Scusa" sussurra "Ti...ti...prego....non...non odiarmi" e piange ancora, piange perché sa che tutto questo io lo odio e lei mi costringe a farlo ogni volta. Piange perché sa che dovrebbe smettere ma non ne ha la forza. Piange perché sa che io ho bisogno di mia madre ma lei non è in grado di esserlo.
Odio vederla piangere, odio che sia stata così debole, odio che io non le sia bastato per non farsi tutto questo e per non farlo a me.
Ora mentre mi guarda vorrei dirglielo che non deve pregarmi, che non deve dispiacersi, perché anche se fa più male a me che a lei io la odio questa donna stesa qui davanti a me, lei non è mia madre, ma vorrei tanto lo fosse. Ma non posso dire niente, forse la finirei di distruggere più di quanto non lo sia già e poi a che servirebbe? Lei è così ed io mi sono rassegnato tempo fa a questa versione rotta di lei.
Mi libero dalla presa debole della sua mano intorno al mio polso e mi volto per andare via, ma la sua voce spezzata mi raggiunge ancora: "Di...dim..dimmi...che...che...non...mi...mi...odi"
Mi giro di nuovo verso di lei e anche se entrambi sappiamo che non è vero glielo dico: "Non ti odio mamma"
E sul suono di questa confortante bugia chiude gli occhi e si lascia andare al sonno.
Esco dalla sua camera attento a non fare rumore e mi trovo davanti Arianna.
"Scusami Riccardo, sono rientrata adesso, se fossi stata qui ti avrei risparmiato questo" mi dice dispiaciuta.
"Ma tu non dovresti neanche essere qui, oggi era il tuo giorno libero e poi ormai sono abituato" le rispondo andando verso la mia stanza.
"Nessuno dovrebbe abituarsi a questo" mi segue ed entra con me in camera.
"Eppure è successo" guarda quello che resta del vomito di mia madre sul pavimento.
"Vado a prendere il necessario per pulire, tu mettiti pure a letto" ed esce di nuovo.
Mi siedo sul bordo del letto e osservo per terra.
Mi fa schifo tutto questo, mi fa schifo la mia famiglia, mi fa schifo questa casa e mi faccio schifo io per non essere mai stato in grado di lasciarla.
Mi porto le mani sul volto e vorrei picchiare qualcuno, spaccare tutto, piangere, non lo so nemmeno io, so solo che sono stanco, vorrei una pace che non ho mai avuto e forse mai meritato.
Arianna ritorna in camera, mi vede, poggia il necessario per pulire e mi raggiunge.
"Non dovresti mentire" mi dice sedendosi accanto a me.
"Cosa vuol dire?" Le chiedo sorpreso.
"Dovresti dire la verità a tua madre. Tu odi quello che fa a sé stessa e questo ti sta portando ad odiare lei. Dovresti dirglielo"
"E perché dovrei? A che servirebbe? Finirei per distruggerla del tutto"
"Riccardo tu lo sai che lei lo è già, ma forse sapere che questo le sta portando via sua figlio potrebbe portarla a trovare la forza di provare a smettere"
Non capisco quello che vuole Arianna da me, lei lo sa quanto odi tutto questo, lei sa che se avessi potuto io mia madre l'avrei aiutata, ma per lei non sono mai stato abbastanza.
"Ti sbagli e lo sai, io non posso aiutarla. Io non le basto, altrimenti avrebbe smesso, ci avrebbe provato. Io ci sono stato sempre per lei"
"Tu sei suo figlio Riccardo, sei tutto per lei, sa che ci sei, che anche così tu ci sei. Tu sei la sua certezza anche ora che si sta rovinando. Dovresti dirglielo invece che ti sta perdendo" Arianna lo sa benissimo che ora sta toccando l'intoccabile.
"Non dire cretinate! Lei lo sa benissimo! Lo sa che mento quando mi prega di dirle che non odio lei e tutto questo" mi alzo dal letto nervoso ed inizio a camminare avanti ed indietro.
"Ma sa che comunque sei qui. Qualunque cosa lei faccia sei qui"
"Arianna basta! Smettila! Non voglio parlare di questo!" Mi fermo davanti a lei e la fisso duro: "Perché mi fai questo anche tu? Perché mi vuoi fare sentire in colpa? Basta!" Ora grido e chissenefrega se mia madre si sveglia e mi sente.
"Proprio tu Arianna, che mi hai cresciuto, che sai, mi fai questo?"
Dio che debole che sono! Le lacrime vogliono uscire dai miei occhi ma non voglio, stringo gli occhi sperando se ne vadano via.
Arianna si alza, mi si avvicina e mi abbraccia.
"Io ti ho cresciuto, ti voglio bene, non voglio ferirti, voglio che tu possa avere la famiglia che meriti. Voglio che la smetti di pensare di non essere abbastanza. Tu sei tutto invece"
Mi appoggio a lei perché ne ho bisogno, perché sono stanco, mi affido a lei perché ha detto di volermi bene ed io mi ci aggrappo disperatamente al mio unico sostegno.
"Ora vieni, è tardi, cerca di riposare" faccio come mi dice perché non ho la forza di fare altro.
Mi sdraio sul letto e lei mi dà una bacio sulla fronte proprio come quando ero piccolo.
"Ricorda che ti voglio bene da sempre e questo non cambierà perché sempre è sempre"
Mentre si allontana da me le sento sussurrare le parole della canzone che ha sempre usato per farmi addormentare...
"Tra una botta che prendo
E una botta che dò
Tra un amico che perdo
E un amico che avrò
Che se cado una volta
Una volta cadrò
E da terra, da lì m'alzerò
C'è che ormai che ho imparato a sognare non smetterò"
Chiudo gli occhi e mi aggrappo alla speranza che anche io un giorno riuscirò ad alzarmi da terra e a ricominciare a sognare per non smettere più.
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