Capitolo 43
Dopo l'incontro nella Sala Comune, Daniel scortò Ezekiel nel proprio appartamento per accertarsi che eliminasse tutte le cimici e che non facesse scherzi, che non ficcasse il naso a destra o a sinistra senza il suo consenso. Ma era anche curioso, sì, perché voleva capire dove avesse sbagliato nelle sue precedenti ricognizioni. Così, dopo averlo visto entrare in bagno, si fermò sulla soglia: una spalla posata sul montante e lo sguardo fisso, attento.
«Potrei deconcentrarmi» mormorò Ezekiel, facendogli arricciare il naso. Ma non lo guardò, no, e continuò il suo daffare con i polpastrelli che sfioravano e tastavano appena le rientranze del mobile.
«Vedi di non farlo» lo ammonì spicciolo.
«Non è colpa mia» si lamentò allora, tirando via un paio di piccoli marchingegni. «Sei tu che continui a guardarmi, Daniel Begum...» Affinò la voce, la rese più maliziosa, lasciva, quasi subdola. E solo allora gli rivolse un'occhiata.
«Credevo che mi trovassi repellente almeno quanto io trovo repellente te» schioccò acido, inclinando appena la testa. Continuò a squadrarlo dalla testa ai piedi, a fulminarlo, a studiarne le mosse. Allora gli vide tirar fuori l'ennesima cimice da dietro il mobile e sospirò.
«Non sono immune alle attenzioni di un bel ragazzo» commentò piano.
«Mi risulta difficile crederlo.» Non disse altro, non subito almeno. Poi, quando Ezekiel si fermò per osservarlo, aggiunse: «Non puoi avere reazioni fisiche, sei solo un mezzo uomo, un eunuco... Come pensi che possa drizzarsi se nemmeno ce l'hai?»
«Non provocarmi» sibilò questi. «Potrei smettere di aiutarvi da un momento all'altro, e in quel caso sarebbe soltanto colpa tua. Allora sì che farete tutti la fine del topo.» Gettò le cimici in terra, poi le calpestò una a una, con rabbia, e non mancò di puntare gli occhi su quelli di Daniel.
«Non dire cazzate» fece. «Non lo faresti mai, Jenkins. Desideri così tanto essere sbattuto da quella merda di Jackson, desideri che guardi te e te soltanto... E sai bene che non sarà mai così se continuerà a ricoprire il suo ruolo di Comandante.»
Ezekiel non rispose, si limitò a far stridere il tacco degli stivali contro i microchip delle cimici. E indurì i muscoli del viso, restrinse lo sguardo, digrignò i denti. Avrebbe voluto mandare al diavolo tutto, sì, ma a fermarlo era proprio ciò che aveva detto Daniel – nonché l'implicazione del Dottor Howard cui provava non solo un grande rispetto, ma un'infinita riconoscenza.
«Hai finito?» Chiese, riscuotendolo. «O c'è altro?»
«Ho finito» scandì. E prima ancora di rendersene conto, prima ancora di poter superare Daniel per uscire dal bagno, si sentì colpire allo stomaco da un pugno ben assestato. Deglutì a fatica, boccheggiò, sgranò perfino gli occhi. «Che cazzo... Sei impazzito?» Sbottò.
«Questo è niente in confronto a ciò che meriteresti per quello che mi hai fatto passare, bastardo.» Il ringhio di Daniel riecheggiò contro le piastrelle del bagno e nelle orecchie di Ezekiel. «Mi hai spiato, hai fatto rapporto sulla mia vita privata, mi hai tolto sia il libero arbitrio che quella misera privacy concessa nel cesso...»
«Ho fatto ciò che dovevo fare» obbiettò.
«Non me ne frega un cazzo» continuò Daniel, troppo arrabbiato per mettere la parola fine al discorso. Così si mosse verso di lui, lo afferrò per il bavero della giacca e lo costrinse occhi negli occhi. «Avresti potuto scegliere di tenere la bocca chiusa, avresti potuto mentire come stai facendo adesso...» Schioccò la lingua con astio, trattenendosi dal dargli una testata. «E se non ti faccio fuori, se non mi vendico davvero, se non ti pesto a sangue, è solo perché ci servi.»
«Opportunista» ghignò.
«Forse» disse.
«L'importante è saperlo.» Ezekiel fece spallucce, si mostrò quasi noncurante. Poi, d'improvviso, tornò a respirare decentemente. Libero dalla presa di Daniel, ridacchiò per il suo temperamento infuocato e per l'espressione contratta che gli si era dipinta in faccia. «L'importante è che tu ne sia cosciente.»
«Azzardati ancora a ronzarmi attorno, a ficcare il naso nella mia vita, e ti distruggo» sibilò, sorvolando sulle sue provocazioni.
«Ma ti ho liberato dalle cimici» fece piano. «Merito una ricompensa...»
«La vita non ti è sufficiente?» Sollevò un sopracciglio con fare contrito, incrociando le braccia al petto. «Pretendi altro, forse?»
«Potrei accontentarmi» soffiò. «Ma devi assicurarmi che le Squadre d'Assalto non vengano rimpiazzate.»
«E come pensi che io possa assicurarti una cosa simile?»
«Con la buona riuscita del piano che avete organizzato, è ovvio.»
«Cosa ti preoccupa, Jenkins?» Chiese. E per la prima volta, forse per pura vendetta, Daniel sorrise malignamente all'indirizzo dell'interpellato. «C'è forse qualcuno che non vuoi vedere tra le fila dei potenziali assassini della Terza Armata?»
«No» mentì. Ma rispose in fretta, troppo in fretta per sembrare onesto agli occhi di Daniel.
E questi non si lasciò sfuggire quella sfumatura, anzi. «Ah, sì?» Scosse la testa, fece spallucce e decise di far cadere il discorso con un: «Prima o poi scoprirò cosa stai nascondendo, Jenkins. Anche tu sei umano, dopotutto...»
«Buona fortuna» ironizzò. Lo vide spostarsi, dargli il via libera. Poi si sentì chiamare e si fermò in corridoio.
«Jenkins.»
«Mh?» Gli lanciò un'occhiata interrogativa, sollevando entrambe le sopracciglia.
«Il sistema di sorveglianza interno...» mormorò Daniel.
«Cosa?» Incalzò. Voleva sentirgli pronunciare il resto della frase, voleva averlo in pugno.
«Abbiamo bisogno di mobilità» disse. «Fai in modo di manometterlo al più presto.»
Il modo in cui Daniel aveva tamponato la richiesta non poté far altro che indurre Ezekiel a mordicchiarsi l'interno delle guance. Non era un favore, perlomeno non in apparenza, e ciò significava solo una cosa: colui che aveva di fronte non era affatto come Jeremy, era molto furbo. «Certo» assentì. «Mi sembra più che ovvio.»
«Molto bene.» Uscì dal bagno a sua volta, poi chiuse la porta e, dopo aver indirizzato Ezekiel verso quella d'uscita, attese in silenzio.
«Chi farà la soffiata?» Domandò sull'uscio. «Avete già qualche volontario? Oppure avete intenzione di pagare qualche civile affinché inizi a tempestare di telefonate la Sede Centrale dell'SRF come facesti tu all'epoca?»
Daniel deglutì, non mancando d'indurire lo sguardo. «Sappiamo come farci sentire.»
«Voglio i dettagli» ripeté. «La mia collaborazione ha un prezzo.»
«Non li conosco neppure io» ammise. «Ma puoi parlare con il diretto interessato, se vuoi. A occuparsi di contattare chi di dovere sarà il Dottor Howard, tuttavia non so se lo farà di persona o se chiederà a terzi di fare pressione sulla Sede Centrale dell'SRF.»
Ezekiel cambiò improvvisamente registro e disse solo: «Aspetterò.» Lo vide annuire, poi aprire la porta, e fece un passo verso l'esterno per sentirgli ripetere:
«Il sistema di sorveglianza interno, Jenkins... Ricorda.»
«Sì, sì» sospirò, cantilenò, quasi sbuffò. Poi udì il tonfo secco della porta chiusa alle proprie spalle e storse appena le labbra. Si diresse a passo spedito verso l'ascensore e raggiunse la hall in men che non si dica. Infine, dopo essersi dato una veloce occhiata attorno, si fermò dinanzi al bancone per sorridere alle guardie con fare mefistofelico. «Buonasera.»
Nessuno dei due rispose, anzi. Ma annuirono in silenzio e osservarono le dita di Ezekiel che, sul bancone, lasciavano intravedere una bustina di plastica trasparente. Allorché uno di questi allargò le palpebre e si sentì colpire contro lo stivale dal compagno.
«Sogni o contanti?» Chiese piano Ezekiel, non mancando di umettarsi le labbra. Conosceva bene quei due e sapeva come corromperli – lo aveva già fatto, dopotutto, e più di una volta. Ma non li aveva mai sentiti parlare, non li aveva mai visti rispondere a una sua provocazione. «Ho bisogno di accedere al retro» fece, sporgendosi in avanti e mostrando meglio la bustina. «Sono ordini, capite? Ordini superiori...» Si sentì sfilare la cocaina dalle mani e sorrise. Poi fece il giro del bancone e seguì uno dei due nella porta alle loro spalle.
«Cosa devi fare?»
«Manomettere la sorveglianza» borbottò laconico. «Ovviamente si tratta di una manovra che richiede l'assoluto riserbo...»
«Immagino.»
Ezekiel ghignò nella penombra, illuminato appena dalla luce giallina che pendeva dal soffitto. Era la prima volta che parlava con una guardia della hall dell'edificio dell'URC ed era anche la prima che chiedeva aiuto in modo tanto esplicito: «Mi servono delle vecchie registrazioni da riproporre con date future.»
«Sono sugli scaffali in fondo.»
«Posso incaricarti di manomettere il sistema di sorveglianza e ordinare le cassette?» Azzardò, vedendolo subito annuire. «Perfetto.» Si avvicinò ai monitor accesi, osservando come la guardia ne spegneva uno a uno attraverso una sequenza di levette rosse e argentate. «È un piacere fare affari con voi...» mormorò poi, dandogli le spalle per uscire dalla porta. Guardò l'altra guardia, sorrise e gli fece un cenno con il capo. Infine si ritirò verso l'ascensore e raggiunse il quinto piano con un'innaturale tranquillità. Tuttavia dovette frenare l'avanzata verso la porta di Jeremy, perché quest'ultimo era in piedi, fisso come una statua nel centro dell'androne.
«Cosa diamine ci fai qui?» Chiese.
«Sono venuto a trovarti, Jeremy Hunt.» Ezekiel fece spallucce e si mostrò totalmente estraneo all'aggressività del suo interlocutore.
«Perché?»
«Oh, andiamo...» Quasi sbottò a ridere. Ma si trattenne e disse: «Sai bene perché sono venuto qui.»
«No, non lo so.» Non smise di guardarlo male, né sciolse le braccia. Continuò a fissarlo, a scrutarlo, a minacciarlo silenziosamente con l'aria di una bestia incattivita.
Dal canto suo, però, Ezekiel non fece altro che sorridere con spavalderia. Cogliere le provocazioni di Jeremy e provocarlo a sua volta lo elettrizzava. «Allora sei poco attento» disse. «O poco furbo, a te la scelta.»
«Perché invece non mi dici cosa cazzo vuoi e la chiudiamo qui?» Sbottò. «Ne ho già piene le palle dei tuoi giochetti, dei tuoi giri di parole...»
«Fammi entrare» soffiò mellifluo. «Sai bene che non faccio niente per niente.»
Jeremy digrignò i denti, poi scosse la testa. «Col cazzo.»
«Fammi entrare, Jeremy Hunt» ripeté.
«Perché mai dovrei farlo?» Sollevò un sopracciglio e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. Sbuffò, poi si grattò la nuca e fulminò Ezekiel con lo sguardo. «Non devi eseguire gli ordini del Comandante Jackson – non più, non adesso – e io non ho alcuna intenzione di fare qualcosa d'imbarazzante per il puro gusto di soddisfare il tuo ego erotomane.»
«Non ci siamo mai capiti abbastanza» mormorò Ezekiel, sospirando subito dopo. «E di questo passo non ci capiremo mai...»
«Non ho intenzione di capirti» lo liquidò, sentendosi poi spingere all'indietro. E retrocesse, non fece pressione verso l'ascensore per scostarselo di dosso. Chissà perché lo lasciò fare – forse per curiosità, forse perché troppo sovrappensiero.
«Io vorrei che mi capissi, Jeremy Hunt» disse. «Almeno tu...»
Questi socchiuse le labbra e le richiuse poco dopo. Batté le palpebre, poi le spalle conto la porta chiusa del proprio appartamento. E annaspò, sì. Si chiese a cosa facesse riferimento, perché avesse scelto lui per essere compreso. E chissà perché si sentì mancare l'aria nei polmoni. Allora, soggiogato dallo sguardo di Ezekiel, si morse le labbra e aprì la porta. «Entra» fece. Il tono basso, un po' roco e ancora irritato.
«Grazie.»
Nel più totale silenzio, Jeremy accese la luce del corridoio e fece strada a Ezekiel fino al salone. Tuttavia, voltandosi, non lo vide. Così tornò indietro e lo trovò ancora fisso accanto all'ingresso. Corrugò le sopracciglia con fare confuso e chiese: «Volevi entrare, no? Cosa fai ancora lì?»
«Non lo so» ammise piano. Tentennò, poi mosse qualche passo nella sua direzione e si fermò ancora. Poco prima di raggiungere il salone, sospirò. Chinò la testa, osservò la punta delle proprie scarpe e, chiusi gli occhi, se le tolse.
«Ma sì, fai pure come se fossi a casa tua...» schioccò cinicamente, osservandolo. Poi strabuzzò gli occhi quando gli vide posare le mani sulla cintura e, inconsciamente, arrossì un po'. «Aspetta!» Sollevò la voce, si portò una mano al viso per massaggiarsi la sommità del naso tra indice e pollice. «Non ti ho fatto entrare per questo, Jenkins» aggiunse, sentendo tintinnare la cinghia e poi frusciare la stoffa. Allora sbuffò, lo fulminò di sguincio e disse: «Volevi che ti capissi, no?»
«Esatto, vorrei che mi capissi» mormorò. «Dopotutto hai capito anche Daniel Begum...»
Jeremy non poté fare a meno di corrugare le sopracciglia. Sentiva il mal di testa premere dietro la fronte, dietro agli occhi. E aveva la vista appannata, sì. «Allora perché cazzo ti stai spogliando?»
«Perché altrimenti non mi capiresti» rispose a mezza bocca, deglutendo a fatica. Sentiva un macigno in gola e sapeva che non sarebbe mai riuscito a inghiottirlo. Così, dopo aver parlato, si calò anche la biancheria. Abbandonò i vestiti in terra, mosse un passo nella direzione di Jeremy e, coperto a malapena dalla camicia, non riuscì a sollevare lo sguardo.
«Cazzate» balbettò paonazzo. «Vuoi solo scopare, ammettilo...» E la voce gli morì in gola nel momento stesso in cui Ezekiel si sbottonò la camicia per mostrare la sua vergogna più grande. Allorché deglutì, impallidì, si ammutolì.
«Riesci a capirmi?» Soffiò. «Perché è davvero difficile che qualcuno riesca a farlo.» Deglutì ancora, arrossendo nel più totale imbarazzo. «Io ho perso ciò che nessuno potrà ridarmi, ciò che tu e Daniel Begum avete ancora: la dignità di essere un uomo completo. E no, nessuna medicina potrà mai ridarmi indietro ciò che manca al mio corpo.»
Jeremy aveva gli occhi sgranati, fissi sulle profonde cicatrici che segnavano il pube di Ezekiel con cattiveria. In un attimo riuscì quasi a mettersi nei suoi panni. E rabbrividì, certo, perché la sola idea gli faceva accapponare la pelle. Ma la voce, quella stessa voce che avrebbe dovuto uscire per parlare, rassicurarlo e comprenderlo, gli era morta in gola.
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