Capitolo 14
Dalla sera cui aveva messo piede nell'edificio dell'URC, Jeremy aveva cercato di ridurre i contatti con Daniel allo stretto indispensabile. E non per via delle minacce del Comandante Jackson, no, ma per propri pensieri – troppo confusi, troppo agitati, troppo ingarbugliati. Non faceva che rimuginare sulle sensazioni provate nel seminterrato di Sergej, sul sapore della Vodka che aveva tracannato più per orgoglio che per piacere personale, sull'oscillare dell'universo, sulla propria testa infilata nella tazza del cesso. E il risultato era sempre lo stesso: l'imbarazzo, l'inadeguatezza, la voglia di fare qualcosa che fosse in grado di distrarlo. Per questo non era raro trovarlo là, nel piano più alto della struttura, ad allenare la muscolatura superiore del proprio corpo con i pesi che aveva a disposizione in palestra.
Lo sapevano tutti, e nessuno aveva niente da ridire al riguardo.
Di tanto in tato, a turnazione, Moore e Garner lo seguivano per accertarsi che non facesse cazzate, che non si sforzasse, che non mandasse a puttane il secondo intervento dei chirurghi del Dipartimento Medico dell'SRF. Ma la verità era che solo Daniel riusciva a scorgere il suo vero cruccio, la sua vera ossessione. E di certo non aveva voglia di rivelarla a qualcuno!
Sergej era stato chiaro: avvicinare Jeremy Hunt non era né consigliato né necessario. E lui avrebbe dovuto dimenticare tutto, tornare nei ranghi, cancellare le proprie azioni, fingere che quell'ordine non fosse mai stato impartito. Tuttavia era difficile riuscirci, lo era almeno quanto accantonare lo sguardo di Sergej e il suo sussurro nell'orecchio.
Più ci pensava e più s'imbestialiva: si sentiva preso in giro, usato, nauseato. E trascorreva al Poligono gran parte della giornata, gran parte del tempo che avrebbe dovuto dedicare al proprio riposo. Per questo, dopo appena una settimana di sfiancante routine, non si stupì di vedere Sergej fuori dall'edificio dell'URC.
«Devo parlarti» disse questi, semplicemente, facendo un cenno per essere raggiunto in auto – una bellissima Bentley del '63.
Daniel deglutì, poi serrò la mandibola e provò l'impulso di mandarlo al diavolo. Ricordava poco e niente della sera trascorsa a casa sua, del seminterrato, di Jeremy e del proprio incubo. Ma il suo respiro sul collo, lo schiaffo, le minacce ruggite piano tra un succhiotto e l'altro, erano state marchiate a fuoco nella coscienza. Perciò non rispose, mosse qualche passo lungo il marciapiede e venne seguito dalla Bentley di Sergej. «Ho capito» sbottò all'improvviso. Con un cipiglio adirato, dopo aver svoltato nella sua direzione, salì a bordo dell'auto e sbuffò. «Cosa deve ordinarmi questa volta, Comandante?»
«Di non ignorarmi» sussurrò questi.
«Non la sto ignorando, mi sto preparando per il prossimo assalto.»
«Al Poligono?» Concluse Sergej, non mancando di mostrare una punta d'irritazione.
«Al Poligono» confermò. Lo sguardo fisso sul tergicristallo, sulla pioggerellina fina che aveva appena iniziato a cadere.
«Sei già molto bravo con le armi da fuoco, dovresti rinforzare la muscolatura» lo contraddisse.
«Ma non sono una pedina del corpo a corpo, sono il Capitano dell'Unità di Reclutamento sul Campo. Devo saper sparare in condizioni critiche...» iniziò a dire, venendo subito interrotto dalla stretta di Sergej sul proprio ginocchio. Allora si ammutolì.
«C'è qualcosa che ti turba, per caso?» Domandò mellifluo.
«Qualcosa sarebbe riduttivo» lo rimbeccò.
«Sei ancora arrabbiato con me?» E la presa sul suo ginocchio si fece più forte, più opprimente.
Daniel restrinse lo sguardo, inspirò a fondo, si concentrò sul picchiettare leggero della pioggia contro il vetro della Bentley di Sergej. E ignorò la sua domanda, preferì restare in silenzio – un silenzio molto più eloquente di una sfuriata. Al che gli sentì dire:
«Non dovresti, Daniel.»
«No?» Soffiò incolore, distante, mentre le dita di Sergej scivolavano sul suo interno coscia e lo facevano rabbrividire di fastidio.
«Volevo solo fondere le vostre paure, non usarti o metterti in secondo piano...»
E questa volta fu Daniel a interromperlo. Gli afferrò la mano come fosse scottato, gliela scostò bruscamente e lo fulminò negli occhi. Scandì: «Il mio inferno è solo mio. Nessuno ha il diritto di entrarci, nemmeno con il suo permesso, Comandante.»
«Mi odi?»
Con le labbra socchiuse, Daniel si trovò a soppesare la propria risposta. Ma non ne diede nessuna, no: aprì lo sportello, scese dall'auto, infilò le mani in tasca e, a testa china, si diresse verso il Poligono.
«Temo di sì» soffiò Sergej tra sé e sé. Lo guardò attraverso lo specchietto retrovisore, ma non inserì la retromarcia e non lo seguì. Preferì lasciarlo stare, fargli sbollire la rabbia. Sapeva – oh, ne era certo! – che sarebbe tornato da lui.
Sentendo sfrecciare la Bentley dalla parte opposta, Daniel provò quasi un moto di sollievo. Eppure fu la stessa fitta al centro del petto a fargli serrare i denti, a farlo deglutire a vuoto. Avrebbe voluto tornare indietro, gridare in faccia a Sergej quanto fosse stato stupido e sconsiderato, quanto non si fosse minimamente preoccupato di lui o del suo stato d'animo. Ciononostante non lo fece. Rimase immobile sotto la pioggia scrosciante e solo dopo alcuni istanti riprese l'avanzata verso il Poligono.
Una volta lì, senza neppure cambiarsi, indossò il giubbotto antiproiettile e calzò bene Uzi e Kalashnikov per dirigersi a passo svelto alla postazione ventitré. E sparò subito, con rabbia, senza indossare le cuffie di protezione. Lo sguardo fisso sulla sagoma cartonata, sui fori che l'avevano trinciata a metà, e il respiro corto. Dopo aver dato un pugno al pulsante nero e aver atteso che il cartonato fosse sostituito, però, si sentì toccare una spalla. E sussultò, si voltò con gli occhi sgranati. Senza abbassare l'AK-47.
«Ehi, piano...» Jeremy batté le palpebre, sollevò le mani in segno di resa e deglutì a vuoto. «Non vorrai mica uccidermi, vero?»
«Potrei farlo» scandì, sussurrò. Erano parole sibilate con astio, parole provenienti da un mondo distante, irraggiungibile.
«Verresti sospeso» gli ricordò piano. «E tu non vuoi essere sospeso, no?» Gli vide abbassare il Kalashnikov, così tirò un sospiro di sollievo.
«Cosa diavolo ci fai qui?»
«Potrei farti la stessa domanda, ma sarebbe inutile» disse. E fece spallucce, distolse lo sguardo a fatica. «Siamo al Poligono, dopotutto.»
«Già, siamo al Poligono.»
A detta di Jeremy, sembrava che Daniel non fosse propriamente presente. E probabilmente non lo era stato per un'intera settimana, perché ogni qualvolta gli capitava a tiro aveva un'aria diversa, irritata a modo suo. Mai, però, si sarebbe immaginato di scoprirlo addirittura sconsolato. Perciò faticò a trovare le parole, a dire: «Sei bagnato fradicio.»
«Non m'importa» fece questi, lapidario. Tornò a dargli le spalle solo per non guardarlo in faccia, per non doversi sforzare di ricordare. «Non me ne frega un cazzo, Hunt. E neppure a te dovrebbe» sputò astioso. «Sei qui per sparare, no? Allora spara.»
«Cosa ti è successo?» Quella domanda gli uscì di bocca ancora prima che potesse rendersene conto, perciò serrò le labbra e s'impose di non insistere. Tuttavia mancò alle proprie promesse, alle proprie intenzioni, e dopo aver visto Daniel sfoderare gli Uzi, soffiò un: «Ti ho visto scendere dall'auto del Comandante.»
Daniel restrinse lo sguardo, si concentrò sul cartonato, poi spalancò gli occhi e, a denti stretti, premette entrambi i grilletti. Una raffica di proiettili trinciò in due la sagoma in meno di tre secondi, facendo deglutire Jeremy. «E allora?»
«Sei venuto a piedi, non hai preso neppure un ombrello, hai iniziato a sparare come un ossesso...»
«Non sono cazzi tuoi, Hunt!» Alzò la voce, lanciandogli un'occhiata di sguincio e premendo ancora il pulsante nero. Non aveva voglia di controllare le sagome, solo di sfogarsi.
«Cosa ti ha detto?» Insistette.
«Ti ho detto di chiudere la bocca» sillabò. Poi si sentì infilare a forza le cuffie protettive e strabuzzò gli occhi. Abbassò gli Uzi, si voltò di tre quarti e fulminò Jeremy con astio.
«Non vuoi giocarti l'udito, vero?» E non riuscì a dire altro, mancò perfino di sorridere, perché Daniel infilò le armi nelle fondine dietro ai reni e si artigliò al suo giubbotto antiproiettile per strattonarselo vicino, a un palmo dal naso.
«Curioso, iperprotettivo, adorabilmente testa di cazzo» sibilò. «Sei venuto qui per chiedermi di succhiartelo di nuovo, Hunt?»
Jeremy non seppe proprio cosa dire, rimase a bocca aperta dinanzi a tanta rabbia repressa. E il tono di Daniel, benché fosse basso e coperto dagli spari altrui, parve pugnalarlo. «No» soffiò.
«Bene» disse questi, mostrando i denti in un ringhio irritato. «Perché non lo rifarei e non avrei voluto farlo neppure l'altra sera.» Poi prese una pausa, lo puntò dritto negli occhi e sillabò un: «Adesso levati dal cazzo.»
Si sentì strattonare lontano, batté perfino le palpebre. Con le labbra socchiuse e un grosso nodo in gola, non poté far altro che scuotere la testa. «Va bene» borbottò. Poi tornò indietro, chiese un paio di cuffie sostitutive al tipo grassoccio dell'armeria e le calzò subito. Raggiunta la postazione ventiquattro, imbracciò l'AK-47. E inspirò a fondo, si concentrò sulla postura giusta, osservò di sguincio quella di Daniel per emularla oltre il vetro antiproiettile che li divideva. Infine sparò, andò dritto al punto e non mancò il bersaglio neppure una volta.
Nessun elogio per la sua mira, nessun incoraggiamento per dare il massimo, solo il suono attutito e perpetuo degli spari.
Considerò l'ipotesi che, se solo Moore e Garner fossero stati presenti, avrebbe potuto gioire con loro dei propri miglioramenti. Tuttavia non riuscì a concentrarsi troppo sull'idea, tornò a osservare Daniel, la sua rabbia inespressa, il modo in cui serrava le labbra e premeva convulsamente il pulsate nero per alternare Uzi e Kalashnikov. Era evidentemente arrabbiato, così si trovò a dire a se stesso, ma proprio per questo motivo non si azzardò a interromperlo una seconda volta.
Eppure, non appena raggiunse gli spogliatoi, rimase in attesa del suo arrivo. Si fece una doccia veloce, si cambiò i vestiti, tornò a sedere sulle panche con lo sguardo perennemente rivolto alla porta di metallo. E quando lo vide, deglutì.
«Sei ancora qui?» Borbottò questi. «Pensavo che te ne fossi andato da un paio d'ore, Hunt...»
«Ti stavi aspettando» rispose tranquillamente.
«E perché?» Schioccò la lingua, lo fissò in viso senza mostrarsi minimamente incline al dialogo. «Hai finito di allenarti, non hai motivo di aspettarmi qui se non per cercare rogne.»
«Non posso parlarti nell'edificio dell'URC, mi sembra chiaro» disse questi, sorvolando sull'ostilità di Daniel. «Non posso neppure avvicinarmi...»
«Allora avevo ragione!» Esclamò crucciato. Mosse un paio di passi nella sua direzione e posizionò entrambe le mani sulle fondine degli Uzi. «Sei un pervertito del cazzo, Hunt» fece sprezzante. «E vuoi farti giustiziare al Poligono... Divertente!»
Jeremy vide le braccia di Daniel muoversi appena, ebbe come l'impressione che potesse essere attaccato da un momento all'altro e pertanto sgranò gli occhi. «No, affatto» chiarì a voce. Ma si alzò, lo afferrò per le spalle, sperò che non sfoderasse le armi per freddarlo sul posto. «Volevo solo scusarmi» soffiò.
«Come?» Daniel batté le palpebre, storse perfino il naso in quel sentore di pietà che gli aleggiava tutt'attorno. «Vuoi chiedermi scusa per quale motivo?»
«Per tutto» disse. «Non avrei dovuto accettare l'invito del Comandante, né la Vodka o tutto il resto...»
«Quindi ti faccio pena» sputò rabbioso. «Mi chiedi scusa solo perché sono stato costretto a umiliarmi, a condividere il mio passato con te che sei un nessuno!»
«Più o meno» biascicò. «Eccetto la parte che riguarda la pena.»
Daniel trattenne una risata amara, ma in compenso si scrollò di dosso la presa di Jeremy. «Te lo ricordi perfettamente, non è vero?» Chiese. E gli diede le spalle, sì, aprì perfino l'armadietto per disarmarsi. Posati gli Uzi e l'AK-47, si sentì rispondere con un flebile:
«Sì.»
«Ed eri cosciente» continuò laconico. «Eri presente, eri consapevole di quello che stava succedendo...»
«Non proprio, non del tutto» tentò di giustificarsi.
«Quindi ti è piaciuto davvero» grugnì. Lo sguardo fisso sul fondo del proprio armadietto e la voglia di afferrare la Colt per sparargli in fronte. Daniel inspirò profondamente, poi espirò – sembrò quasi sbuffare.
«Io...»
«Tu cosa?» Schioccò la lingua, si voltò per minacciarlo con lo sguardo e lo vide tentennare sul posto, forse indeciso se avvicinarsi o meno. «Detesto le persone come te, Hunt» chiarì subito. «Detesto i loro sguardi, i loro pensieri, la loro sola esistenza.»
«Ti sto così sul cazzo?»
«Non immagini quanto» fece.
«Cosa ti aveva chiesto il Comandante?» Domandò di soppiatto, vedendogli strabuzzare gli occhi. «Perché mi risulta difficile credere che ti abbia fatto tanto schifo...» E non riuscì ad aggiungere altro, perché si vide puntare contro la pistola di Daniel. Allora deglutì a vuoto, tremò, sentì un lungo brivido percorrergli la schiena e poi le braccia fino a immobilizzarlo.
«Io ti odio, Hunt» disse. Si mosse nella sua direzione, premette la canna della Colt sotto il suo collo e gli vide sollevare il mento. «Ti odio» ripeté piano, scandendo le parole con astio.
Il respiro accelerato, la paura negli occhi e la gola stranamente secca. Deglutì.
E questo bastò a far scattare una strana molla nel cervello di Daniel, bastò a farlo andare su di giri, a fargli perdere il controllo. «Perché non canti più, Orfeo?» Chiese in un soffio, facendogli sgranare gli occhi. Poi, senza aggiungere altro, nell'eco del proprio incubo, si avventò sulle sue labbra.
Le forzò, le baciò, le morse con rabbia. E continuò ad assaporarle, a profanarle, a farsi coinvolgere in un turbinio di emozioni che non avrebbe mai voluto provare per altri che Sergej. Ma non si diede la colpa, no, perché erano le dita di Jeremy quelle che si artigliavano alla sua schiena fino a tenerlo fermo, ancorato, fottendosene delle convenzioni sociali o delle parole che aveva appena pronunciato.
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