Wasumi Kamishiro
#1
Mai più, mai più, mai più.
Erano le uniche parole che riusciva a immaginare.
Erano nate insieme a un ricordo che mai si sarebbe cancellato dalla sua mente, un ricordo così orribilmente ripugnante che le era rimasto impresso nel cervello, insieme a quelle due parole: mai più.
Una voce aveva chiamato il suo nome, ma la principessa dai lunghi capelli viola non si mosse, non aprì gli occhi, non tremò nemmeno più.
Non aveva più la forza di tremare, solo di ripetere quelle due parole.
Mai più
Mai più avrebbe ascoltato la voce di suo fratello parlare dal grande balcone del palazzo
Mai più
Mai più avrebbe acconciato i capelli blu della sorella in mille treccioline setose
Mai più
Mai più sarebbe stata accanto al trono su cui Nash ascoltava chi aveva bisogno del suo consiglio
Mai più
Mai più avrebbe cavalcato nelle praterie circondata dalle guardie, sì, ma con sua sorella accanto, mai più avrebbe udito la sua risata cristallina, mai più avrebbe osservato i gesti bruschi di suo fratello, mai più avrebbe abbracciato Merag, mai più, mai più, mai più, mai più, mai più.
Era stata una miserabile, stupida, inutile cretina. Non era riuscita a raggiungere Merag in sella alla sua giumenta prima che si sacrificasse, non era riuscita ad impedire che suo fratello partisse per guidare l'esercito verso una sconfitta certa e per questo, giorni prima, aveva dovuto viaggiare per giorni che parevano secoli nei quali l'attesa, le illusioni, il dolore l'avevano soffocata fino a toglierle il respiro e il sorriso. E per cosa poi? Per trovare il cadavere del regnante, di Nash, del suo adorato fratello gemello, steso nella polvere e nel fango, unica prova della guerra sanguinosa che era avvenuta. Eppure avrebbe detto ch'era solo dormiente se abbracciandolo non avesse sentito quanto freddo fosse, se non avesse visto come il suo corpo non reagiva alle sue lacrime, alle sue urla disperate.
La voce si fece sentire ancora da fuori la sua stanza. Ancora, non si mosse, non diede permesso alla sua serva d'entrare. Alzarsi era un dolore, parlare, pensare a qualcosa di sensato da dire, una tortura. Ogni giorno chiedeva al Fato cosa avesse compiuto di così terribile per meritarsi l'eterna solitudine a cui era stata condannata. Ogni sera, prima di addormentarsi, desiderava solo avere qualcuno accanto che le dicesse "Non preoccuparti, hai fatto tutto ciò che potevi, tutto ciò che ti riusciva, d'ora in poi ci penso io, vedrai che andrà tutto bene".
Ma non c'era nessuno: lei era la regina e doveva farcela da sola.
Non era vero, non era la regina né mai lo sarebbe stata. Non aveva un briciolo dell'astuzia e dell'esperienza di suo fratello, né la determinazione o l'infinita pazienza della sorellina. Tutto ciò che le rimaneva erano tanti studi di diplomazia e un'infinita stanchezza da anziana nel corpo di una giovane donna; il che non era abbastanza per guidare un regno, ma solo per sorreggerlo e sopportarlo fino alla fine delle sue forze.
Nessuno la considerava una sovrana, molti avevano compassione per lei, altri asserivano che avrebbe dovuto essere più felice di essere ancora nel mondo dei vivi, quando tutti i suoi familiari non le erano sopravvissuti. Non sapevano quanto era forte il suo desiderio che fosse accaduto l'esatto contrario.
Ma era lei a indossare la corona, lei a impugnare lo scettro, e come ogni mattina non aveva il diritto di lamentarsi.
Come ogni mattina fece entrare la giovane serva pregando che qualcosa, qualsiasi cosa, smuovesse quell'irremovibile masso che sostava sul suo petto, sui polmoni, sul suo cuore.
Se solo avesse saputo che quella mattina tutte le responsabilità che la soffocavano le sarebbero state strappate via, forse la principessa avrebbe sorriso.
#2
Il compito di una madre era quello di insegnare ai loro figli che non erano figli qualunque. La regina lo capì in quel momento, mentre stringeva tra le braccia i suoi due pargoli appena nati, rifiutandosi di porgerli alla servitrice.
Se come ruolo regale era solo un ornamento, come madre sarebbe servita a qualcosa. Avrebbe dato ai suoi figli tutto l'amore del mondo. Gli avrebbe sempre ricordato che loro erano suoi, che erano stati uniti nel suo ventre, in attesa di nascere, che erano diversi dai neonati che urlavano per le vie della città non solo perché erano i principini, ma perché lei era la loro mamma.
Mamma.
Mamma.
M-a-m-m-a.
Era un suono dolce, come il miele, un suono che solo un bambino avrebbe potuto inventare. Mamma, il suono più semplice del mondo, che conteneva tutto l'amore del mondo.
Mamma.
Quando il principe era stato in età da moglie, aveva avuto tre scelte, dato che tre erano i regni confinanti con cui allearsi e che venire a patti col mare era un'impresa da eroi. Poteva ottenere una delle due figlie del deserto, oppure una delle sette dee delle terre prospere, come venivano chiamate le figlie dell'imperatore delle terre del sud. Invece aveva scelto lei, la principessa alta, quella coi capelli e la pelle chiara, che non aveva altro da offrire se non montagne piene di ferro e l'infinita lealtà di un pugno di uomini. Aveva sposato lei quando avrebbe potuto ottenere donne più ricche, dalla pelle olivastra e i capelli neri come l'olio che fioriva dalle dune, che avrebbero arricchito le casse del regno e avrebbero resistito meglio al caldo cocente delle sue terre e ai forti raggi del sole. Se il padre del principe lo avesse saputo glielo avrebbe vietato, ma fortunatamente non era sopravvissuto fino a quel punto e i due giovani si erano potuti sposare.
Non aveva ben capito perché egli avesse compiuto una scelta così controproducente, era solo ben certa che ella avrebbe fatto lo stesso.
Ora che l'aveva anche fornito di due eredi in forze, non avrebbe nemmeno potuto ripudiarla; una consolazione tale che gli sforzi del parto si erano dissolti in quella certezza. Era incantata e osservava i due bambini piagnucolanti che stringeva al petto: il primo era un maschietto in forze, con gli occhi blu della madre incastonati nel volto simmetrico e composto del padre. La bambina, progenie inaspettata che si era affacciata alla vita qualche minuto più tardi, possedeva invece un brillante paio di occhi verdi che si erano tramandati dalla sua nonna materna; almeno, da quello che veniva detto, dato che la non a non era sopravvissuta abbastanza perché la figlia potesse ricordarne gli occhi.
Il padre dei due eredi afferrò delicatamente il maschio, sollevandolo con tutti i veli e coperte che lo ricoprivano quasi dalla testa ai piedi. Irritato da quell'improvviso cambiamento di portatore il piccolo ricominciò a piangere disperato, reclamando le candide braccia della madre; il sovrano non si fece intimidire, anzi, lo strinse con ulteriore dolcezza e calore «Nash» sussurrò con voce chiara, intatta, indenne alla commozione della nascita del futuro re. La Regina capì che era il nome del fanciullo e nella sua testa un mormorio fastidioso le ricordò che Nash significava "L'ultima stella al di sopra delle montagne", nella lingua dei loro avi.
Per tradizione, erano le madri a scegliere il nome delle figlie. Capì che era venuto il momento. Strinse il fagottino che teneva appoggiato al petto, per la prima volta fu consapevole della fragilità della vita, sua e di tutti gli altri.
Respirò: era viva, come la sua bambina.
«Cassidea.»
Cassidea: il nome del fiume che avanza nella roccia senza mai fermarsi, fino ad arrivare al mare. Se il nome di sul figlio era un nome che rispecchiava la gloria, quello di sua figlia sarebbe stato uno pieno di determinazione.
«Sono dei bei nomi, Nash e Cassidea» sussurrò commentando la serva fidata della regina, cui era nata una bambina solo due mesi prima. L'avevano chiamata Karen, che non aveva un significato, ma ricordava il suono che fanno le foglie degli ulivi quando nascono.
#3
Corse, corse corse con le lacrime agli occhi, l'adrenalina che sfrecciava pazzamente nelle vene, la salsedine che s'infiltrava nella bocca e nelle narici sue e del suo destriero. Spronò la sua giumenta come mai più avrebbe fatto, desiderando follemente di essere più veloce del vento stesso, di saper volare.
Corse, ma i suoi sforzi furono vani.
Vani, inutili, idioti, maldestri, lenti, sciocchi, disperati, futili. Vani.
Non sarebbe bastato buttarsi in avanti per raggiungere sua sorella. Si era già gettata nel turbinio d'onde che troneggiava sotto di loro; Cassidea cadde, senza forze. Voleva piangere, voleva vomitare. Urlare, spaccare tutti i vasi, le finestre, lacerare le coperte, voleva abbracciare sua sorella ancora una volta, voleva chiederle scusa anche se non sapeva bene per che cosa.
Voleva gettarsi. Voleva seguire sua sorella, nelle ombre infinite dell'oceano.
Era sull'orlo del ponte distrutto: una spinta, un minuscolo sforzo da parte delle braccia e sarebbe scivolata giù dolcemente, le onde (che già si stavano calmando dopo il sacrificio di sua sorella) l'avrebbero accolta, l'avrebbero cullata mentre il respiro le veniva mozzato. Sapeva che mai la sua disperazione sarebbe stata abbastanza atroce da permetterle di compiere quel gesto.
Qualcuno urlò il suo nome.
Cassidea non fu nemmeno sicura che quell'urlo fosse vero. Per un folle istante la speranza che Merag fosse risalita dalle profondità di quel mare scuro l'attanagliò, si issò sulle braccia, spalancò gli occhi: nulla. Un abissale, atroce, granitico niente si stagliava di fronte a lei. «Mi dispiace, mi dispiace tanto...» sussurrò tra le lacrime, con voce spezzata. Le dispiaceva di non aver udito le ultime parole di sua sorella, che si era rivolta a Nash. Le dispiaceva che Vector e tutta la sua armata avesse avuto la stramaledetta fortuna di non incontrare una tempesta temibile come quella mentre navigavano per venire ad attaccarli. Le dispiaceva di non aver visto un'ultima volta sua madre e suo padre: alle figlie non era concesso entrare nelle tombe reali, se non da cadavere.
Le dispiaceva non avere il corpo di Merag da riporre nelle segrete.
Le dispiaceva di essere stata troppo lenta, perché se fosse stata più rapida il dilemma del corpo di sua sorella non si sarebbe posto.
Le dispiaceva di aver lasciato fare alla sua sorellina il grande sacrificio, quando sarebbe toccato a lei, che ben poco poteva offrire al suo regno e comunque molto meno di Merag. Le dispiaceva per la vecchiaia di Merag che mai sarebbe sovraggiunta.
Qualcuno sarebbe presto venuto a recuperarla, idea che la principessa detestava con tutto il suo cuore. Desiderava, bramava rimanere lì, paralizzata dalla paura com'era, perché se suo fratello in quel momento era in balia dell'ira e della sete di vendetta, e Cassidea ne era certa, lei sarebbe stra strangolata dal cupo timore di rimanere da sola. Brividi gelati percorrevano la sua schiena al pensiero che suo fratello sarebbe partito per combattere; la sua mente s'immobilizzava all'ipotesi che non sarebbe più tornato.
Aveva perduto i suoi genitori. Aveva abbandonato la sua sorellina. Non voleva vedersi scivolare tra le dita la vita dell'ultima persona che amava, come la sabbia delle spiagge, come l'acqua dei ruscelli.
Qualcuno la prese per le spalle strattonandola e lei riconobbe Karen, la sua ancella. La nausea aumentò, mentre quella le spiegava che dovevano andarsene, che suo fratello l'aspettava, che chiedeva il suo consiglio su quando partire diretti verso i territori di Vector, per colpirli di sorpresa.
#4
Continua a a vivere.
Era stata una delle ultime raccomandazioni che sua madre le aveva dato.
«Continua a vivere. Porti il nome della forza impetuosa del fiume, indossa la sua fierezza come un velo anche quando ti sentirai dispersa nell'oblio. Cassidea, continua a vivere nel mio ricordo, per il mio ricordo e per quello di tuo padre. Ricordati che vi vorremmo bene per sempre».
Poi il suo cuore si era fermato.
Solo dopo aveva capito il senso di quella raccomandazione. "Continua a vivere" non si limitava ad augurarle una longeva basica sopravvivenza, era una preghiera affinché sua figlia non perdesse mai la speranza, la voglia di vivere, il sorriso. Una richiesta disperata perché, anche nei giorni bui, si ricordasse che c'era qualcosa per cui vivere: i ricordi.
La principessa, al solito, se ne era accorta troppo tardi.
Adesso che "viveva" su Barian però non era capace di dimenticarsene, anzi, si ripeteva quella frase ogni giorno almeno un paio di volte, colpita ad ogni parola dal rimorso, per essere sicura di ricordarla dalla prima all'ultima sillaba.
Aveva vissuto nel rimpianto. Chissà perché aveva pensato che la morte, quel rimpianto, glielo avrebbe consolato.
Ora era sola, si sentiva sola, persa in quel mondo in cui non aveva bisogno di dormire, mangiare, bere, muoversi. Un'apatia che simulava la morte; da quello che le avevano spiegato si poteva definitivamente decedere da Barian. Come, non lo sapeva e anche se l'avesse saputo non avrebbe avuto il coraggio di dare ai suoi fratelli il dolore di vederla morire ancora.
Era così sola: una solitudine autoimposta, certo, sapeva che le bastava alzarsi e raggiungere il villaggio per trovare altre persone. Ma come sopportare la compagnia di menti fantasma? Come tollerare l'idea della mancanza della vita, come accettare il fatto che questa tolleranza venisse non solo contestata, ma abbracciata come una benedizione?
Possibile che nessuno comprendesse?
Cassidea continuò a osservare la Terra. Era molto più grande di quello che avrebbe mai potuto immaginare e oltretutto era di forma sferica, non perfettamente piatta come Cassidea aveva sempre ipotizzato.
Lì, l'uomo progrediva.
Lei osservava.
Capiva perché si sentiva sola: i suoi fratelli non sentivano la stessa dirompente agonia, lo stesso acuto desiderio di tornare a vivere. Entrambi si erano abituati a questa imitazione della vita: come non avrebbero potuto? Erano imperatori: era un loro dovere.
Cassidea non era un'imperatrice.
Era stata violentemente esclusa dalla compagnia dei due fratelli che tanto agognava.
Per questo desiderava tornare sulla Terra. Per questo si sentiva sola. Per questo ambiva la morte.
Nell'attesa, osservava la vita.
Gli anni su Barian passavano molto più velocemente che sulla terra, per motivi superflui secondo l'ex principessa. Aveva trovato un angolo con una curiosa peculiarità: c'era una specie di buco, che impediva la vista dello spazio infinito, certo, ma era ottimo se si voleva osservare un minuscolo spicchio di Terra. Infatti essa girando lentamente (altra cosa sorprendente, era il pianeta a girare intorno al Dio Sole e non viceversa) le offriva fette di esistenza quotidiana degli uomini ancora vivi, in diversi punti del globo. Le piaceva annegare il suo rimpianto per una vita non vissuta nell'osservazione di vite ancora in corso.
Era immersa nella sua silente osservazione dell'umanità quando Vector chiamò il suo nome. L'idea che Vector fosse un imperatore insieme ai suoi fratelli era la sola cosa che la scuotesse dalla sua condizione di statica tristezza; certo, la conseguenza era un'ira insulsa e travolgente, ma era sempre un cambiamento.
Nemmeno il secondo interessato era invaso dalla gioia nel rivederla, ma aveva bisogno di lei.
La avvertì che i suoi fratelli chiedevano di lei a palazzo, o meglio, nell'enorme diamante rosso che costituiva la reggia degli imperatori. Cassidea si chiese, come al solito troppo tardi, durante il tragitto, come mai questa volta l'avessero richiamata a palazzo e non fossero venuti a trovarla come al solito.
Vector l'aveva già agguantata per il collo, spingendola ai limiti del baratro scuro che portava all'oblio.
La morte
Quella vera
Cassidea la stava aspettando da...
In termini umani, quattromilasei anni.
#5
«... no» esclamò improvvisamente Wasumi Kamishiro sbattendo il piede sinistro, cinto da un sandalo di cuoio, sul terreno polveroso che costituiva Barian.
Suo fratello si era appena alzato, la guardava; così Rio.
Un dolore lancinante le squarciò il petto.
Continuò a parlare:
«Non ho intenzione di abbandonare tutto, di dare le spalle a tutti i miei amici, di... di... buttare al vento la vita che mi sono ricostruita sulla Terra!» continuò il suo discorso fissando negli occhi il suo gemello. Avrebbe voluto rigurgitargli addosso tutto il disprezzo che provava per la sua scelta di schierarsi volontariamente da parte dei Bariani e, allo stesso tempo, si sentiva un verme infido, perché vergognarsi dei propri fratelli è un dolore che prosciuga la dignità «Solo perché una volta ero... facevo parte di questo mondo insomma... non li aiuterò a distruggerne un altro» tentò di spiegarsi, le sue parole sembravano colpire i suoi fratelli come veleno; impallidirono, tacendo. Continuò a osservare gli occhi blu di suo fratello. Profondi, scuri, meravigliosi; decisi, impassibili, freddi.
Non gli importava nemmeno più che lei fosse presente o no.
Se Shark aveva scoperto un passato di dolore atroce, lei aveva assaporato una desolazione lieve e costante che non era mai guarita. Shark aveva trovato la felicità a Barian: lei no. Era probabilmente l'unica dei tre fratelli ad essersi accorta che tutti loro erano cambiati durante la loro seconda vita sul pianeta umano: se aveva imparato qualcosa rivivendo i suoi stessi ricordi era che il passato è passato e bisogna sfruttare ogni singolo frammento di vita. Era dominata da una rabbia cieca ma controllata, ferma quanto se non più del fratello nelle sue intenzioni: ora doveva sbrigarsi, dopo ci sarebbe stato tempo per disperarsi.
Volse le spalle ai due neoimperatori sbaragliando la folla che si trovava davanti a lei «Non lasciatela fuggire!» l'ordine secco di Vector, l'unico a conoscere l'esistenza del baratro che poteva essere utilizzato come passaggio. Più Wasumi si rendeva conto dell'esistenza di quell'essere spregevole, più avrebbe voluto accorciar la durata della sua vita di una svariata quantità di secoli.
«CASSIDEA!»
La ragazza non fu nemmeno sicura che quell'urlo fosse vero. Per un folle istante la speranza che Rio fosse risalita dalle spire atroci di quella scelta folle l'attanagliò.
Non si girò a controllare:
Il suo nome non era Cassidea. Non più.
Riuscì a raggiungere l'Abisso prima degli uomini che la stavano inseguendo, ancora indecisi su come relazionarsi alla loro ex sovrana fuggitiva.
Per una volta ce l'avrebbe fatta da sola.
Sarebbe tornata sulla Terra, avrebbe dato l'allarme. Si sarebbe fatto qualcosa. Cosa esattamente era ancora da decidere.
Se non lei, chi?
E se non ora, quando?
Con un gesto fulmineo si lasciò cadere nell'oblio: il nome di Cassidea risuonò di nuovo come un fragore.
Per una volta ce l'avrebbe fatta da sola.
Il suo nome non era Cassidea.
#6
Terra
Materia
Un corpo con cui accorgersene
Tossire
Ricominciare a respirare
Il cervello ritorna al suo normale stato
I ricordi
Il dolore, insopportabile
La nausea, la voglia di piangere
Wasumi Kamishiro si issò in piedi prima di tutti gli altri
In quel momento doveva sbrigarsi, dopo avrebbe avuto tutto il tempo per dare sfogo alle sue ansie.
Passarono diversi minuti, che alla ragazza parvero pochi secondi, di muta contemplazione della massa umana che le stava davanti. Quando si rese conto che avrebbe dovuto aiutare tutte quelle persone, portare una spiegazione alla catastrofe mondiale che era appena avvenuta, sempre che fosse avvenuta... improvvisamente si sentì pesare sulle spalle quattromilaventi anni di stanchezza. Si sentiva svuotata eppure non voleva riposarsi, voleva lavorare, faticare, distrarsi, spremersi lentamente finché non sarebbe caduta a pezzi.
Una ragazza dai capelli verdi le si avvicinò, poggiandole la mano sulla spalla «Kam...» «Dobbiamo aiutare tutti quanti Kotori. Siamo gli unici che sappiano cosa sia successo. Gli altri come stanno?» la interruppe prima che potesse dire qualsiasi altra cosa, voltandosi per guardarla negli occhi. Doveva essere credibile.
Kotori ignorò la domanda «I tuoi fratelli...»
Possibile che tutti volessero spingerla alle lacrime?
Che volessero dimostrare che aveva un disperato bisogno d'aiuto? Che aveva bisogno di protezione, perché non era abbastanza? Forse era vero, ma non avrebbe dato loro questa soddisfazione «Sì, mi sono accorta anche io che mancano. Ti dispiacerebbe rispettare me e le mie decisioni e non nominarli mai più?» domandò sarcastica con tono violento, sporgendosi verso la sua interlocutrice «Grazie» concluse il discorso voltandole di nuovo le spalle e dirigendosi verso la massa di persone che lentamente si stavano svegliando dal loro torpore.
Altri minuti di solitudine e autocontemplazione, mentre aiutava tutti i feriti, che erano molti, e tentava di elaborare una spiegazione plausibile da dare al mondo intero. Non che fosse probabile venissero a chiedere qualcosa a lei, ma era probabile che i tre fratelli Arclight avrebbero dovuto dare delle giustificazioni per il teletrasporto interdensionale che avevano nascosto su al Polo Nord. Ma era ancora lì? Chi conosceva cos'era la realtà e cosa non lo era? Per quel che sapeva tutti i suoi ricordi potevano essere falsi e allo stesso tempo non esserlo.
Ci fu un momento in cui le due ragazze si trovarono di nuovo vicine, mentre facevano il possibile per tranquillizzare tutti. Kotori si era girata, era rimasta immobile, aveva ripetuto «Kami, i tuoi fratelli!» con quella voce acuta e femminile che Wasumi in quel momento avrebbe ben volentieri fatto tacere per sempre.
Alzò di nuovo la testa, accennando l'inizio di una frase «Ti avevo chiesto di non...»
La voce le mancò sul momento.
Le era bastato girarsi di qualche grado per notare due figure che prima mancavano: la prima tossiva a terra, la seconda si era appena alzata a fatica sulle ginocchia. Entrambi sembravano deboli e affranti.
Wasumi avanzò attraverso la fiumana di persone che la separava dai due ragazzi dai capelli blu e viola.
In quel preciso momento avrebbe voluto urlare. Era forse una sfida? Chiunque gliel'avesse lanciata era di certo una persona infantile.
Avrebbe voluto afferrare un arma e abbattere entrambi. Almeno non si sarebbe posto il problema di odiarli da vivi.
Era a pochi passi da loro ormai; Shark aveva aiutato Rio a tirarsi su, erano entrambi in piedi, impolverati, stanchi, ma in piedi. Nessun altro, oltre a lei e Kotori, sembrava averli notati.
Wasumi avanzò di un altro passo.
I due la videro
Silenzio
Assordante
Chiuse gli occhi, per impedire ai capogiri di farla vacillare
Un altro passo
Riaprì gli occhi: Shark e Rio erano lì.
Non erano un sogno.
Se avesse allungato la mano li avrebbe sfiorati.
Non voleva.
«Voi...» si fermò improvvisamente, la sua voce tremolante non trovava insulti abbastanza giganteschi per esprimere la ciclopica dabbenaggine che avevano dimostrato.
«Io vi... vorrei...» avrebbe voluto che i due parlassero, si difendessero, scusassero, qualsiasi cosa. Invece rimanevano silenti; in mezzo al rumore assordante della folla che si ricomponeva, Wasumi riusciva solo a sentire i loro respiri.
Rio singhiozzò; tentò di nasconderlo, strinse gli occhi, scosse la testa, il suo sforzo per non cominciare a piangere fu evidente ma inutile: già limpide lacrime solcavano il suo viso pallido.
Aveva fatto piangere sua sorella. Lei, che più tra tutti avrebbe dovuto proteggerla, stava trattando la sua sorellina come una bestia anomala e selvatica da addomesticare con i metodi più brutali e malvagi.
Sporse le braccia e le cinse le spalle, cominciando anche lei a singhiozzare. Un pianto lieve, malinconico, ma felice. Chiunque l'avesse sfidata aveva vinto: non era riuscita a detestare i suoi fratelli fino in fondo.
Stava accarezzando i capelli azzurri di Rio quando sentì le braccia di Shark circondarle entrambe in un unico, grande abbraccio.
Wasumi percepì un brivido caldo lungo la spina dorsale.
Nessuno, tra la folla, si stava curando di loro.
#7
Era la prima volta che Rio la batteva.
Non perché fosse un'inetta, anzi, aveva una tecnica invidiabile nei duelli, anche se ovviamente Shark avrebbe potuto batterle insieme ad occhi chiusi e senza Gazer. Ora che ci pensava però lei e Rio non avevano mai duellato davvero l'una contro l'altra, ma solo in coppia, equivalendosi in tattica e talento. Che questa volta l'avesse battuta per i suoi nuovo poteri?
Ma chi voleva prendere in giro. Rio l'aveva battuta per la sua bravura e le sue capacità, che avesse uno dei Numeri Originari non aveva importanza, se non avesse saputo come utilizzarlo.
Lì, stesa sul tetto di un edificio prossimo al crollo, impotente e terrorizzata, Kamishiro cominciò a piangere. Non che fosse una novità: a pensarci bene non sapeva fare altro che piangere, aveva fatto quello per tutta le sue vite d'altronde. Aveva pianto per la prematura morte dei fratelli, per il coma di Rio, per tutti i guai in cui si era cacciato Shark e per quando era tornato all'ospedale, aveva pianto, quando si era resa conto di cosa avevano fatto i suoi fratelli, mentre correva verso la sua moto per raggiungere il porto di Heartland...
Evidentemente non sapeva fare altro.
Ora era stanca. Stanca di lottare, di dare il suo contributo, stanca di tentare di far riprendere il senno a chiunque. Se davvero piangere era l'unica cosa di cui era capace, avrebbe fatto quello.
Lentamente cominciò a percepire una sensazione particolare alle gambe, erano estremamente più leggere, aveva l'impressione di trovarsi su un aereo pronto a partire, quando si ha la percezione di starsi sollevando. Con orrore si accorse che il suo corpo si stava dissolvendo, mutando in minuscole particelle di energia pronta a raccogliersi nel nucleo di Barian per alimentare la macchina che avrebbe distrutto il mondo Astrale.
Aprì gli occhi: anche Brok, accanto a lei, stava velocemente evaporando.
Kamishiro provò a issarsi sui gomiti, dato che la maggior parte delle sue gambe si era già volatilizzata. Così facendo rivolse uno sguardo implorante alla sorella.
Merag sostenne lo sguardo senza far trapelare nessuna espressione.
Improvvisamente la mora cadde, anche le sue mani erano scomparse.
A quel punto il panico prese il comando della sua mente, cominciò a farneticare, pensieri frenetici e irrazionali le attraversavano la mente: pregava che IV stesse ancora combattendo contro Nash, che lo stesse battendo, aveva infinito bisogno di sapere che la sua morte non sarebbe servita ad alimentare quel sistema che lei tanto detestava. Anche l'odio l'aveva pervasa, odio per ognuno di loro, per Dumon, Girag, Arito, Misael, Vector, Merag e Nash. Li odiava tutti, avrebbe ben volentieri aiutato chiunque avesse avuto bisogno di nasconderne i cadaveri. Che importa se erano i suoi fratelli? La volevano uccidere, la stavano uccidendo, e non avevano mostrato nessun rimpianto nel farlo.
Tutti i suoi pensieri, la sua paura, il suo carattere, il suo sorriso e la sua individualità vennero inesorabilmente risucchiati nel nucleo. Wasumi Kamishiro non esisteva, non era esistita, era stata cancellata dall'umanità e dalla storia.
A quel pensiero Merag si asciugò gli occhi umidi, si girò: la città era sopraffatta da migliaia di particelle che si libravano verso il nucleo di Barian.
La Terra era prossima alla distruzione.
#8
Quella regina era una vera regnante.
Karen per la prima volta poteva osservarne una che non fosse la sua padrona; era colta, sapeva addirittura leggere e scrivere, sapeva parlare e conosceva l'educazione.
E soprattutto, sapeva cos'era la politica.
Come la sua regina, dominava da sola un vasto impero, posizionato a est rispetto ai loro confini. Era sola, poiché i loro dei (Karen storceva il naso ogni volta che sentiva pronunciare un nome blasfemo in tono così devoto) consideravano le donne reganti eguali agli uomini per bravura ed intelletto. Questa donna indubbiamente raggiungeva le aspettative.
Il suo nome era Zahamra; era di una bellezza cocente, più ostentata e sensuale di quella candida della sua regina. Gli splendenti capelli -che sembravano quasi rosa sotto la luce del sole- le ricadevano sulle spalle e sulla schiena, Karen osservò un altra volta con orrore e disappunto, senza che un copricapo le cingesse la testa, simbolo indispensabile di nobiltà e indicatore del proprio rango sociale. Eppure la loro lingua, l'abbigliamento, perfino la fisionomia delle giovani donne -poté osservare l'ancella mentre accendeva le erbe d'incenso posizionate tra le due regine- non era così dissimile. Solo lo sguardo delle due era totalmente diverso: la regina Cassidea era diffidente e decisa, Zahamra invece trasmetteva solo infinita calma e pazienza. Come se stesse aspettando qualcosa.
Le due stavano ancora discutendo, benché avessero cominciato quasi due ore prima. L'insolenza di Zahamra -che si manifestava con molti gentili dinieghi alle proposte della sua interlocutrice- stavano facendo perdere la testa sia alla serva che alla sua padrona, sebbene nessuna delle due lo facesse notare in alcun modo «Cosa desiderate in cambio della vostra alleanza? Vi offrirò ciò che mi sarà possibile. L'impero del Faraone si sta ricongiungendo e se non ci sbrighiamo a fermarlo ai nostri confini potrebbero fare breccia fino al vostro territorio. Non potete vedere il pericolo della situazione? Quante vite si mettono a rischio?»
La voce della sovrana dubitò per qualche attimo mentre pronunciava quest'ultima frase. Karen capiva perché fosse così difficile discutere per lei: la morte dei suoi die fratelli in seguito a un attacco dell'ex Faraone, anche se avvenuta ormai un anno prima, non si era ancora rimarginata e dover spiegare l'ovvio a una persona che si rifiutava di vedere doveva essere uno strazio nelle sue condizioni.
«Mi spiace, ma non posso accettare la vostra offerta» rispose Zahamra scuotendo i suoi lisci capelli rossi, sembrava felice di essere arrivata al punto dopo aver tergiversato così a lungo «Non credo che ci sarà bisogno di nessun attacco. È vero, alcune vostre città sono state abbattute, ma lo avranno fatto per necessità di riprendersi. Non posso mettere a rischio la vita di tutti i miei soldati. Chissà, forse tra poco questi assalti si concluderanno» spiegò la regina con tono soave.
Cassidea, demoralizzata e insieme furiosa, fece un gesto brusco in direzione di Karen per intimarle di portare le coppe d'acqua da bere prima che il pranzo cominciasse; il sole era alto nel cielo già da un po'.
All'ancella dispiaceva vedere la sua padrona così frustrata: avevano passato l'infanzia insieme, seguita da un'adolescenza in cui la differenza sociale cominciava a farsi riconoscere, ma la complicità rimaneva intatta. Anche da adulte le due erano rimaste grandi amiche, ma dalla morte di Nash e Marin Cassidea aveva perso qualsiasi volontà. Era silenziosa, spesso assente, nei rari momenti di solitudine che si concedeva e per la maggior parte del tempo impiegava tutte le poche energie che le rimanevano nell'amministrazione del regno.
Distratta da questi pensieri Karen nemmeno si accorse che Zahamra aveva preso la coppa che le stava più distante.
Le due regnanti alzarono i contenitori e presero un sorso dell'acqua cristallina contenuta nelle coppe.
Cassidea, in quel momento, spalancò gli occhi.
La scodella le cadde dalle mani, cominciò a tossire freneticamente, con violenza e disperazione. Karen corse verso di lei, la sorresse, le tolse i capelli viola dalla fronte che comiciava a sudare copiosamente, chiamò il suo nome più e più volte. Cassidea continuava a dimenarsi, mentre le guardie correvano alla ricerca di aiuto e Zahamra rimaneva immobile di fronte a loro.
In pochi secondi Cassidea cominciò a irrigidirsi, la sua gola si stava ingrossando e allo stesso tempo sembrava essere oppressa da qualcosa. La regina aveva afferrato il corpo della sua ancella, impotente.
Gettò indietro la testa, mosse appena le labbra per sussurrare il nome di quest'ultima mentre la guardava negli occhi.
Poi questi divennero vitrei.
Il suo respiro affannoso si era fermato.
Il corpo giaceva supino sul pavimento polveroso.
Karen pregava gli dei che tutto quello che stava succedendo fosse solo un brutto, bruttissimo sogno. Chiamò ancora la regina, sull'orlo delle lacrime.
«Imprigionate questa serva!» improvvisamente Zahamra scattò in piedi, non appena le guardie tornarono indietro accompagnate dallo sciamano di corte «È evidente che aveva intenzione di avvelenarmi, ma ha confuso le ciotole. Imprigionatela, ve lo ordino!»
Karen alzò sgomenta lo sguardo verso la ragazza dai capelli rosati.
Nei suoi occhi si intravedeva la soddisfazione: ciò che aspettava era arrivato.
Qualcuno le afferrò i polsi, la trascinarono via, mentre il cadavere di Cassidea ricadeva impotente accompagnato dal tintinnio dei suoi vari bracciali.
Anche nei suoi occhi vitrei, sotto la sorpresa, si celava la soddisfazione.
#9
I passi di Ryōga Kamishiro risuonavano nelle scale del palazzo, mentre il ragazzo saliva in camera sua. Sua sorella era seduta sul divano, dopo una serata passata insieme al gemello ad attraversare la città in moto senza una vera meta- solo per assaporare la sensazione della prima brezza primaverile che scorreva attraverso i suoi capelli sciolti. Durante tutta la giornata non aveva voluto nemmeno nominare la data di quel martedì: il quattordici di Marzo. Solo un mese prima aveva preso il coraggio di regalare al fratello un plettro; era una semplice placca di legno scuro che aveva trovato in un vecchio negozio di dischi, ma era certa che gli sarebbe piaciuto di più di qualsiasi scatola dei più pregiati cioccolatini.
Non si aspettava davvero che Shark le restituisse il regalo. Anzi, era abbastanza strano che lei stessa avesse preso l'iniziativa; a malapena si scambiavano regali a Natale e invece quell'anno era stata catturata dalla corrente di sentimentalismo che le ragazze della sua scuola avevano istigato fin dai primi giorni di Gennaio.
Mentre si domandava come mai Shark fosse scomparso senza nemmeno augurarle la buona notte, si passò la mano destra sul volto, in una strana folata di imbarazzo. Ovviamente solo Chocola era a conoscenza del regalo che ella aveva riservato al fratello; inizialmente era stata presa dall'entusiasmo della sua amica, che si felicitava per loro come Kamishiro si felicitava per qualsiasi interazione tra la nekomimi e Jim. Ma in quel momento, a pochi minuti dalla mezzanotte, la ragazza dai capelli bruni si sentiva solo incredibilmente imbecille. Si chiedeva come avesse potuto farsi catturare dal blando romanticismo che San Valentino rappresentava pentendosi del gesto che, agli occhi del fratello, doveva essere sembrato smielato e forse anche pietoso.
Questi pensieri vennero interrotti quando alcune note cominciarono a raggiungere le orecchie della ragazza. Erano pizzicate da una chitarra, e si stavano avvicinando a lei: provenivano dallo stesso corridoio in cui si era rifugiato pochi minuti prima il fratello.
Il suono venne presto accompagnato dalla voce del ragazzo, che pronunciava ogni parola di una irriconoscibile canzone con voce melliflua mentre si avvicinava camminando lentamente verso il divano dove stava la sorella, con la chitarra acustica appesa al collo.
La ragazza ruotò il busto, per capire cosa stava succedendo: Shark non la stava osservando, prestava solo attenzione alle corde della chitarra che vibravano in armonia, mentre cantava con lentezza «Shall I stay? Would it be a sin?»; in mano teneva il plettro scuro che aveva ricevuto in regalo.
Kamishiro gli sorrise, mentre quello sedeva sul bordo del divano per sorreggere lo strumento. Continuava a cantare senza alcuna interruzione, ma con una dolcezza nella voce di cui Kamishiro non lo credeva capace: anche per questo non riusciva a guardarlo negli occhi, a interrompere quel momento di intimità fra loro due disturbando la concentrazione che Shark dedicava alla canzone.
Rimase quindi ad ascoltare il resto della canzone, mentre la casa sembrava essere immersa in un silenzio spettrale che accentuava il suono della chitarra attraverso i corridoi bui del loro castello, facendolo espandere in tutta la residenza. Era un arrangiamento semplice, eppure, senza avere nessun tipo di accompagnamento o ritmo, suo fratello riusciva a risultare dolce e struggente come avrebbe potuto se avesse avuto un'intera orchestra al suo seguito.
«If I can't help...» concluse il ragazzo, suonando gli ultimi accordi della canzone «... falling in love with you».
Shark abbassò il braccio destro, lasciando che la chitarra pendesse debolmente dal manico che aveva al collo. Ancora i due non si erano guardati, forse per imbarazzo, forse perché temevano d'infrangere l'atmosfera creata come per magia dalle note di quella chitarra.
Kamishiro sfiorò la mano del fratello, ancora chiusa intorno al plettro, che era ricaduta insicura lungo il cuscino del divano. «Non ti eri dimenticato» si limitò ad osservare mentre inavvertitamente le sue sopracciglia si incurvavano in un'espressione di dolce e malinconica sorpresa. Carezzò ancora qualche secondo le dita contratte del ragazzo prima di alzare il volto, per osservarlo con uno sguardo che esprimeva una profonda gratitudine- anche se mascherata dalla sua abituale sbruffonaggine, che però non avrebbe ingannato il gemello; ne era certa.
Shark si limitò a scuotere la testa mormorando "mhm-mhm", mentre si chinava su di lei sfiorando le sue labbra con le proprie.
#10
《Buongiorno Ryōga》
Un raggio di luce si fece strada nella camera del ragazzino, rompendo l'oscurità in cui egli si era immerso. Eppure Ryōga non fece cenno di essere stato disturbato da questo improvviso cambiamento, o nemmeno di essersene accorto, e continuava a rimanere immobile sotto le coperte del suo antico letto.
Wasumi si accostó a lui, sedendosi sul bordo del materasso.
《Shark, dovresti davvero alzarti e tornare a scuola》 gli consigliò Wasumi nonostante nel suo tono di voce trasparisse un evidente dubbio. Non voleva di certo costringerlo, non aveva idea di cosa doveva sentire suo fratello osservando le persone che camminavano per strada, osservando loro, le sue sorelle, che eppure erano entrambe morte a causa sua.
《E poi Rio vuole che tu le dia un passaggio》 aggiunse accennando un timido sorriso. Sua sorella sembrava aver preso molto meglio il loro ritorno sulla Terra, ma sapeva bene che dissimulare il dolore era parte del suo carattere, e non si sarebbe esposta nelle sue debolezze nemmeno a loro. Non di meno, la determinazione dei suoi capricci poteva convincere il suo fratellone adorato a smuoversi
Solo allora, quasi improvvisamente, Shark fece capolino dalle lenzuola per mostrare il suo vero aspetto: pareva più scarno del solito a causa di un pallore che gli era caduto sul viso, accompagnato da due profonde occhiaie di un viola chiaro. Le sue labbra erano screpolate e la maglietta che indossava era tutta spiegazzata, come se fosse stata indossata durante un lungo sonno agitato.
《Okay Kami. Grazie di avermi svegliato》pronunció il gemello facendole sentire per la prima volta in un paio di giorni la sua voce, che le suonó sorprendentemente bassa e monocorde, inespressiva. Ciò la addoloró ancor di più del fatto che Shark, fuoriuscendo dal suo letto e dirigendosi verso il bagno, non le rivolse nemmeno lo sguardo e non le strinse la mano che ella aveva proteso lungo la coperta.
-
Il vento soffiava violento sulla cima della pista da atterraggio per elicotteri della loro scuola. Era una giornata fredda, benché il sole splendesse, e la brezza non aiutava il giovane a sentirsi a suo agio, con la sua camicia dai primi bottoni sempre sbottonati e la cravatta allentata e sgualcita. Sotto, la città si estendeva con le sue casette, le strade intrecciate miracolosamente fra di loro e i rumori che si disperdevano prima di poter arrivare alle orecchie dello studente. Nessuno si era preso la briga di salire su quella costruzione insieme a lui, considerato che l'accesso a quella parte dell'edificio era vietato agli studenti e che la pausa del pranzo, per tutti gli altri, era il momento per stare in compagnia dei propri amici.
Shark stava osservando il panorama sotto di sè con occhi inespressivi, fino a quando non sentì qualcuno prenderlgi saldamente la mano sinistra fra le sue
《S-shark?》 la voce esitante di sua sorella si spezzó nel pronunciare il suo nome, benché tentasse di mantenere un atteggiamento normale 《Che ci fai qua? Cioè, da solo?》 gli domandó rapida, quasi in modo che ogni parola sorpassasse quella precedente. Ryōga ruotò di poco la testa, per poter osservare la sua gemella in faccia: anche lei era da sola.
《Io...》 cominció a dire Shark, prima di venire nuovamente interrotto da Kamishiro, non senza sua sorpresa 《Senti!》 la voce della mora era inusualmente alta, così come i suoi modi più sbrigativi 《Potrà non piacerti farti vedere con me a scuola, ma non mangi un vero pasto da tanto, o almeno io non ti ho visto, quindi, insomma...》 Kamishiro cominciava a parlare inconvulsamente, continuando a tenere stretta la mano di suo fratello ma per la prima volta abbassando gli occhi alla ricerca delle parole da utilizzare.
《Mi accompagni a prendere qualcosa?》 concluse infine, ritornando a fissare suo fratello negli occhi con un sorriso timido e circospetto.
Shark sbatté un paio di volte le palpebre, indeciso su cosa avrebbe dovuto rispondere. Da una parte, Kamishiro sembrava tenerci molto a questo pranzo insieme. Dall'altra, avrebbe davvero voluto rimanere a perdersi nella distanza che divideva lui dal suolo.
Alla fine si decise, e scese dal cornicione.
Solo allora Kamishiro addolcí la stretta sulla sua mano, rilassó le spalle e stese le gambe che si erano accucciate tremanti per il timore. Eppure il gemello sentiva che c'era bisogno di dire qualcosa, qualsiasi cosa che potesse interrompere quel silenzio, simile a quello che si ritroverebbe dopo una grande catastrofe- oppure, al silenzio tombale di un cimitero.
《Comunque》 specificó quindi, stringendo a sua volta la mano di Kamishiro 《Non mi dà fastidio farmi vedere con te》.
Kamishiro sorrise sincera, e Ryōga si stupí nel trovare quel sorriso il più bello e rassicurante che avesse mai visto.
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