Capitolo 5 - Sguardi che parlano
Ember aveva gettato un'occhiata a Nolan, le braccia incrociate mentre annunciava con tono deciso che lui avrebbe dovuto accompagnarci a casa degli Evans, lasciando intendere che fosse già tutto pianificato.
Nolan, però, sollevò un sopracciglio, quasi divertito, e rispose svogliato, «Non ho alcuna voglia di andare da Ian oggi. Sai che mi tratterebbe lì per ore, e voglio questa giornata tutta per me.»
Le sue parole mi lasciarono interdetta. La mia confusione aumentò quando continuò dicendo che sarei stata io a guidare la sua macchina, mentre Ember avrebbe ripreso la sua al ritorno.
«Aspetta un attimo,» chiese, cercando di raccapezzarsi, «la tua macchina? Quella che non dai mai a nessuno?» Ember rimase per un attimo a bocca aperta, lo sguardo incredulo fisso su suo fratello.
Nolan alzò le spalle con nonchalance, come se non fosse una gran cosa. «Sì, certo. Perché no?»
Ember lo guardò come se non riuscisse a credere alle sue orecchie. Era evidente che per lei quella decisione era assurda, quasi un sacrilegio. Eppure, la sicurezza di Nolan non lasciava spazio a dubbi.
Salii sulla Mustang e Ember si sedette accanto a me. Infilai la chiave nell'accensione e il pensiero di maneggiare qualcosa che lui amava così tanto mi fece avvertire un misto di eccitazione e responsabilità.
Girata la chiave, il rombo del motore riempì l'abitacolo. Sentii l'adrenalina crescere mentre stringevo il volante con entrambe le mani, il cuoio sotto le dita era liscio e consumato, testimone delle molte ore che Nolan aveva passato al volante.
«C'è un negozio di giocattoli qui vicino? Vorrei prendere qualcosa per Edward, giusto per rompere il ghiaccio.»
Ember annuì. «Sì, c'è un posto a pochi isolati da qui. Ti dico io dove girare.»
Premetti delicatamente l'acceleratore e la macchina rispose con una spinta decisa, quasi avesse avvertito la mia incertezza e volesse rassicurarmi. Ogni curva, ogni cambiata, era un piacere per i sensi. La macchina scivolava sulla strada con una grazia sorprendente, il motore che borbottava sotto di noi come un predatore soddisfatto.
Appena varcata la soglia del Cheeky Monkey Toys, mi sentii sopraffatta da un'esplosione di colori e suoni. Corsie piene di giochi si estendevano in ogni direzione, con scaffali ricolmi di peluche, costruzioni, puzzle, e mille altre cose che non riuscivo nemmeno a identificare. Il suono di risatine di bambini e il tintinnio di giocattoli elettronici riempivano l'aria, rendendo l'ambiente al tempo stesso caotico e affascinante.
Non sapevo da dove cominciare. Mi girai verso Ember, sperando che potesse darmi qualche indicazione. «Sai cosa piace a Edward? Ha dei giochi preferiti?»
Lei scosse la testa, un po' a disagio. «Non passo molto tempo con lui, di solito è seguito dalla babysitter. Non lo conosco poi così bene, mi dispiace» mi rispose, anche lei guardando in tutte le direzioni.
Decisi di cominciare a gironzolare tra le corsie, cercando di trovare qualcosa che potesse piacergli, ma ogni passo sembrava solo aumentare la mia indecisione. Osservavo giochi educativi, automobili telecomandate, peluche giganti, eppure nessuno di essi sembrava giusto.
Mi fermai davanti a una sezione dedicata ai dinosauri. C'erano figure di ogni dimensione, dai piccoli modellini in plastica fino a giganteschi giocattoli animatronici. Uno in particolare catturò la mia attenzione: un dinosauro parlante che si muoveva e ruggiva con sorprendente realismo.
Lo presi tra le mani, notando i dettagli curati e l'aspetto quasi amichevole, nonostante fosse un predatore preistorico. Forse, pensai, un dinosauro poteva essere un buon inizio. Un compagno di gioco che potesse attrarre l'attenzione di un bambino curioso come immaginavo Edward.
Lo portai con me alla cassa, cercando di reprimere la leggera ansia che sentivo crescere.
Ember aprì la porta con una disinvoltura, come se fosse a casa sua. Appena dentro, un bambino con capelli scuri e spettinati balzò su dal divano, fissandomi con grandi occhi marroni pieni di diffidenza. Il suo volto, pur giovane, portava un'espressione di timore che mi fece capire subito quanto fosse spaesato. Doveva essere Edward. Come mi aveva raccontato Tessa, aveva circa sette anni e l'età corrispondeva perfettamente alla sua statura.
Mi avvicinai lentamente, cercando di apparire amichevole. Gli sorrisi e allungai una mano per salutarlo. «Ciao, io sono Rosalie.»
Lui rimase fermo, come una piccola statua, senza proferire parola. Ember, senza dire nulla, era già uscita per controllare lo stato della sua macchina, lasciandomi sola con questo bambino che non sembrava volersi muovere dalla sua posizione.
«Dove sono i tuoi genitori?» chiesi in tono dolce, cercando di farlo sentire a suo agio.
Edward non rispose, ma indicò con un dito verso la finestra. Mi avvicinai, spostando leggermente la tenda e schiacciai il naso contro il vetro. Vidi un ragazzo alto, con i capelli scuri, che indossava una tuta da meccanico. Parlava a Ember con un'aria rilassata. Era incredibilmente attraente, il che mi lasciò perplessa.
«Quello è tuo padre?» chiesi, cercando di nascondere il mio stupore all'idea che qualcuno così giovane potesse avere un figlio. E non mi riferivo di certo a Edward, ma come poteva essere il genitore di Ian?
Edward scosse la testa, e in quel momento tutto mi fu chiaro. «Quello è tuo fratello, vero?» Fu allora che vidi un piccolo accenno di sorriso sul suo viso.
Mi abbassai alla sua altezza. «Posso prendere la tua mano?» chiesi con dolcezza.
Lui annuì e mi strinse le dita, con una fiducia che non mi aspettavo. «Ho qualcosa per te,» dissi, estraendo il dinosauro parlante che avevo scelto per lui. Il suo viso si illuminò immediatamente, e con un'esplosione di entusiasmo mi trascinò per i corridoi della casa,
Mi sentivo a disagio camminare così dentro una casa di persone che non conoscevo. Avevo paura che i signori Evans potessero sbucare da un momento all'altro da qualche camera e vedermi gironzolare come se niente fosse in casa loro. Quando aprii la porta davanti alla quale mi aveva portato, capii che quella era camera sua.
C'era uno scaffale pieno di dinosauri, tutti ordinatamente disposti e un'altra mensola dove aveva gli stessi animali della collezioni che avevo appena comprato io e quello non c'era. Saltellai con lui leggermente per fargli capire la mia felicità che non avesse quel gioco.
Mi indicò lo scaffale, dove avrei dovuto posizionare il nuovo dinosauro con cura, come fosse un oggetto prezioso.
«Non vuoi provarlo?» domandai curiosa di vedere la sua reazione.
Edward scosse la testa, con un'espressione serena ma riservata. Mi sembrò strano che un bambino non avesse l'istinto di aprire un gioco, ma di appoggiarlo immacolato su una mensola. Decisi però di non insistere, avremmo avuto tempo.
«Qual è il tuo nome?» tentai di nuovo, con un sorriso incoraggiante.
«Edward,» rispose finalmente. La sua voce mi fece sentire un filo di speranza, come se avessi superato una barriera importante.
Proprio mentre pronunciava quelle parole, Ian entrò nella stanza. Mi girai di scatto imbarazzata perché mi trovavo lì.
«Scusa,» mormorai, «non so come ho fatto a ritrovarmi qui.»
Lui sorrise. «Beh, se la cava bene se ti ha già convinta a entrare in camera sua» disse con un tono scherzoso. La squallida battuta, tuttavia, sembrò solo imbarazzare Edward, che scappò via dalla stanza, lasciandomi con un senso di colpa per aver rovinato quel fragile momento di connessione.
Ian, notando la mia preoccupazione, cercò di rassicurarmi. «Non preoccuparti, Edward è molto timido, ma se ti ha già detto il suo nome, sei a buon punto.»
Quando allungò la mano per presentarsi, mi sforzai di sorridere e accettai il suo gesto. «La casa è grande, e siamo solo noi due, perciò puoi vedere tutte le stanze, se vuoi.»
Mi voltai verso Ian, cercando di capire se ci fosse altro che non mi stava dicendo. «I tuoi genitori sono in vacanza?» chiesi, sperando di dare un tono leggero alla domanda.
Il suo viso cambiò leggermente, una piccola ombra passò sui suoi occhi. «Sono a Los Angeles,» rispose in modo evasivo.
«Quando torneranno?» continuai, sentendo il bisogno di riempire il silenzio.
Ian scrollò le spalle, come se non avesse una risposta precisa. «Non lo so,» mormorò.
Sembrava che Ian avesse prese il posto di suo fratello e che facesse molta fatica a trovare le parole.
Prima che potessi chiedere altro, Ember rientrò e ci trovò in quel silenzio sospeso. Si avvicinò, radiosa come sempre, e Ian ci invitò ad andare in cucina. L'atmosfera cambiò subito, riempita dal profumo del caffè che lui preparava con gesti automatici.
Ci sedemmo al tavolo, il legno caldo sotto le dita mentre guardavo Ian muoversi nella stanza ampia. «Ember,» iniziò, girando la testa verso di lei, «venite alla festa di Harper stasera. Nathan mi ha già detto che ci sarà.»
Un senso di preoccupazione mi attraversò. «E Edward? Con chi rimarrà?» sentii un peso crescere dentro di me all'idea di lasciarlo solo.
Ian si voltò verso di me, rassicurante. «Verrà la babysitter. È abituato a stare con lei, non preoccuparti.»
Sentii un'ondata di sollievo, ma anche un desiderio di proteggere quel bambino che avevo appena conosciuto. «Posso restare con lui,» mi offrii, quasi sperando che accettassero.
Ember scosse la testa decisa. «E perderti la festa di quella vipera? Non esiste.»
Non riuscivo a capire perché volessimo andare a una festa organizzata da qualcuno che Ember non sopportava, ma il pensiero fu presto interrotto da Ian, che continuava a guardarmi con un'espressione tranquilla. «Edward si troverà bene. La babysitter è qui spesso, e anche se non parlano molto, si capiscono.»
Mentre Ian si scusava e usciva in fretta per occuparsi di un cliente appena arrivato, rimasi sola con Ember. Edward, che fino a poco prima era stato accanto a noi, sembrava essersi dissolto nell'aria.
La casa, ormai avvolta in un silenzio denso, mi fece sentire l'urgenza di trovarlo. Incitai Ember a cercarlo con me, chiamandolo più volte finché non trovai una porta socchiusa. Aprendola, scoprii una stanza piccola ma accogliente, ordinata con cura. Il mio sguardo fu subito attratto da una chitarra posata su una scrivania, ricoperta di uno strato di polvere che tradiva il lungo abbandono.
Sullo stesso tavolo, un paio di fotografie catturarono la mia attenzione. In una, una giovane donna con lunghi capelli scuri sorrideva con calore. «È tua madre?» chiesi a Edward, cercando di mantenere un tono neutro. Lui si limitò ad alzare le spalle, un gesto che sembrava escludere qualsiasi desiderio di approfondire l'argomento.
In un'altra cornice, un uomo, altrettanto sorridente, era ritratto con un'aria di serenità. Avrei voluto chiedere di più, ma il silenzio di Edward mi convinse a non insistere. Le mie dita sfiorarono il vetro delle cornici, mentre il bambino mi osservava in silenzio, senza fare una mossa.
Ember arrivò poco dopo, e, rispettando la riservatezza di Edward, evitai di porre altre domande.
«Edward, vuoi guardare un po' di TV?» gli chiesi, cercando un modo per distrarlo.
Lui annuì, apparentemente contento della proposta, e si affrettò a prendere il telecomando, scegliendo Bambi come film da guardare. Quando gli chiesi se l'avesse già visto, rispose di nuovo con un semplice cenno, lasciandomi intendere che era un film che trovava confortante, qualcosa che conosceva bene.
Mentre Ember usciva per fare una telefonata a Nathan, rimasi sola con Edward sul divano. Pian piano, lo sentii rilassarsi, e prima che me ne rendessi conto, si era addormentato tra le mie braccia. Osservai il suo viso tranquillo, notando quanto si sentisse a suo agio nonostante la nostra conoscenza fosse così recente.
La porta si aprì e Ian entrò, parlando a gran voce. Gli feci cenno di fare silenzio e, con cura, spostai Edward, poggiando la sua testa su un cuscino per non svegliarlo.
Quando mi avvicinai a Ian, lui mi guardò con un sorriso leggero. «Non si fida facilmente delle persone, ma sembra che tu gli piaccia,» disse in tono morbido.
Ember mi fece cenno che era ora di andare. Ringraziai Ian per l'ospitalità mentre ci dirigevamo verso la porta. Prima di uscire, Ian mi lanciò un'occhiata complice, accompagnata da una battuta scherzosa: «Ci vediamo dopo, strizzacervelli.» Non potei fare a meno di sorridere al pensiero che le sue battute somigliassero così tanto a quelle di Nolan.
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