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Capitolo 9 - Dimore vuote e testi filosofici

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Erano passate ben tre settimane, e, in quelle, si era confermata la monotonia di una casa che Veronica aveva cominciato a sentire finalmente sua: Francesco aveva preso l'abitudine di svegliare sempre prima Leonardo, che, puntualmente, faceva cadere qualche santo e qualche dio quando passava davanti alla stanza di Veronica e vedeva il modo dolce che il fratello aveva di svegliare la ragazza, modo che era all'estremo opposto di come svegliava lui.
Facevano poi colazione tutti insieme; anche se la maggior parte delle volte era sempre Angela a cominciare le conversazioni, tuttavia poi spariva in ospedale, in affanno per il possibile posto di primario, e il silenzio cominciava a regnare nuovamente sopra la tavola, a quel punto, lei e Francesco cominciavano a parlare. Leonardo spariva in camera sua senza aver detto una parola, e in un tempo che sembrava non essere reale, lei e Francesco ritrovavano in autobus, seduti sui posti da quattro, Veronica e Giada che condividevano le cuffiette con la musica al massimo e Cecilia, dallo sguardo sempre più tagliente, davanti a loro, seduta affianco a Francesco, che, invano, cercava di far contenere le battute sprezzanti che quella ragazza era solita donarle di prima mattina. Veronica non ci faceva più tanto caso, quella scenetta insulsa era portata avanti da un mese, e per quanto fosse fastidioso lo sguardo di Cecilia addosso e la sua voce stridula che pronunciava frasi senza senso, quelli erano momenti che considerava troppo immaturi perché avessero importanza durante la giornata, quindi lasciva correre, ignorando qualsiasi pretesto di sfida e si concentrava su Giada, che appariva provata per quella situazione, e la rassicurava, confermando il fatto che fosse tutto a posto e che non si doveva preoccupare perché quello che diceva Cecilia scivolava sulle sue spalle come la pioggia su un impermeabile.

Veronica aveva imprato una cosa in quelle tre settimane: a meno che non fosse costretto, Leonardo andava a scuola con i suoi amici. Tra il quartetto che componeva il gruppo di amici, Andrea e Damiano avevano già la patente, quindi spesso facevano macchina comune, passavano per le case recuperando gli altri due amici, e andavano a scuola insieme. Veronica aveva scoperto da Leonardo, una volta che glielo aveva chiesto, che lui la teoria l'aveva già fatta a inizio estate ma che voleva aspettare di finire la moto per fare la prova pratica, le aveva lancioto un occhiataccia tale che Veronica avrebbe potuto disintegrarsi sul posto e il caso della sua scomparsa rimanere issisolto per mancanza di prove, mentre Alessandro era troppo concentrato sullo sport per mettersi a studiare anche per la macchina. Ci avrebbe pensato più avanti, di certo non gli correva dietro nessuno. Francesco invece aveva la patente, ma in casa avevano una sola macchina e quindi le volte in cui poteva usarla erano così rare che gli conveniva aspettare di comprarne una.
Quando andava con i suoi amici a scuola Leonardo appariva soddisfatto e con un umore quanto meno stabile, riusciva anche a fare battute che divertivano qualcuno e non solo lui, tuttavia quell'illusione sembrava sparire man mano che le ore scolastiche passavano, fino a quanto, all'ultima, il suo umore tornava quello della mattina: schivo, tacito e cupo. Se doveva prendere l'autobus per qualche motivo, quella poteva tranquillamente essere categorizzata come giornata no. In realtà, al massimo andava a scuola in bici. Veronica in autobus lo aveva visto il primo giorno di scuola e solo un altro sabato, o forse era venerdì, in cui nè Andrea nè Alessandro c'erano e, come cilieggina, pioveva.

A pranzo mangiavano spesso divisi, la maggior parte delle volte Leonardo andava in camera sua e ne usciva solo per prendersi ancora cibo o per riportare il piatto, di conseguenza Veronica pranzava in camera, spesso in compagnia della gatta mentre Francesco aveva orari diversi dai loro, frequentando un corso diverso, quindi, quando tornava a casa, sapeva già che la sua parte era conservata nel forno e che avrebbe mangiato da solo; i momenti dopo il pranzo passavano veloci, almeno fino a quando Francesco e Veronica non decidevano di fare gli <<amiconi>>, come diceva sempre Leonardo, e allora lui si allontanava (quando era nelle loro vicinanze), voglioso di un silenzio che sembrava impossibile da trovare.
Poi già dalle tre, se non prima, Veronica si ritrovava Leonardo in camera, una sedia in più e doppi libri sulla scrivania, tutte le intenzioni di velocizzare il processo di studio. Una faceva i compiti di una materia e l'altro di un'altra, se li spiegavano a vicenda e poi li ricopiavano, passavano minuti a ripetersi le definizioni di fisica o quelle di matematica, o ancora peggio quelle di filosofia, si aiutavano con le traduzioni di inglese, ripassavano italiano o storia, e cercavano, una più disperatamente dell'altro, di fare ordine negli appunti disordinati e presi alla rinfusa di scienze.
Leonardo era fin troppo tranquillo per quanto riguardava quella materia e la professoressa che la spiegava.
Giada le aveva riferito il perché: era uno dei pochi che fin dalla prima si erano dimostrati attenti e concentrati, sicuri e motivati nonostante il carattere della donna, portati per la materia, tanto che erano stati presi sotto l'ala della professoressa, che li portava e li mostrava sul proprio palmo della mano, come se fossero creature mitologiche e mai viste. Con Veronica si era mostrata paziente, interessata, tollerante, ma rigida, voleva sentire quello che la ragazza aveva intenzione di dire, ma non le sembrava mai andar bene nessuna delle parole che pronunciava. Le rimbeccava, con sempre più frequenza, quanto il giudizio più che ottimo di un collega sconosciuto, e qui faceva riferimento al suo ex professore, potesse essere errato. Quella era forse, tra molte, la cosa che le dava più fastidio, poteva interromperla, poteva sminuirla, poteva urlarle contro e tutto le sarebbe scivolato sulle spalle come niente, ma giudicare un insegnante che non conosceva, che per Veronica era stato fondamentale per riuscire a superare i divari che c'erano tra lei e la materia, e reputare errato un giudizio costato due anni di sudore e studio le faceva ribollire così tanto il sangue nelle vene che spesso credeva di poter cominciare a sputare vapore. Si conteneva, tuttavia, conscia che dire qualcosa le avrebbe fatto perdere soltanto punti, e, allo stesso tempo, si chiedeva come poter accontentare una professoressa come lei, una che mostrava il suo lato peggiore urlando come un'arpia di Virgilio contro una ragazza che di male, ad occhi estranei, non aveva fatto nulla, ma che per la professoressa aveva infranto una delle regole più importanti di quel regime dittatoriale che aveva impartito durante le sue ore. Anna era una loro compagna di classe e per quanto maldestra, perché lo era molto, risultava in ogni caso simpatica, gentile e con sempre la parole giuste da pronunciare, ma spesso aveva la tendenza a dimenticarsi le cose più stupide, come di approssimare un numero nella prima verifica, e da lì, da quel numero non approssimato, era scattata la ramanzina di mezz'ora, che poi si era spostata su tutt'altri argomenti, e per chiarire, a Giada erano anche venuti gli occhi lucidi, si era sentita tanto impotente che aveva afferrato una mano di Veronica, bisognosa di supporto morale, perché anche se aveva quella professoressa da praticamente tre anni ancora non riusciva a sopportare quei modi burberi e fuori controllo che aveva.
Leonardo aveva rassicurato più volte Veronica durante i pomeriggi di studio, dicendole che non era così difficile accontentare la professoressa come molti facevano pensare, bastava essere tranquilli, commettere meno errori possibili, cercare di parlare poco e annuire molto, in più si doveva essere bravi, e prima dimostravi di esserlo prima la professoressa ti accettava. Spesso i pensieri di Veronica sviavano sulla voglia di mettersi in mostra e di far vedere quanto fosse brava, perché sapeva di poterlo dimostrare e di poter dare di più.

Le prime due ore di quel quindici ottobre, un sabato qualsiasi, erano passate tranquille, certo, l'orario scolastico non l'aveva di certo graziata come aveva fatto invece per altri giorni, tuttavia, due ore di storia dell'arte non erano il sogno di nessuno. Rimpiangeva il fatto che disegno tecnico fosse finito in quarta, era una delle cose che le piaceva di più del indirizzo che aveva scelto.
Spesso si era sentita chiedere per quale ragione le piacesse tanto il disegno tecnico, ma lei non era mai riuscita a dare una risposta che non fosse qualche balbettio sconnesso, un sorriso cordiale e un assolutamente inutile "non ne ho idea", ma la verità era che la tranquillizzava. Il disegno prevedeva perfezione: un tratto lineare e definito, segni di costruzione leggeri e segni di finitura evidenti, nessuna sbavatura, nessun errore; tutto quello, con aggiunta la musica classica, faceva si che Veronica entrasse in una dimensione tutta sua, dove niente esisteva se non il foglio, i portamine, le squadre, la gomma e lei; mentre disegnava non c'era emozione che superasse lo stato di tranquillità in cui entrava, niente era più importante del disegno stesso e niente la rendeva più felice di vedere il disegno svolto. Per quel motivo quelle prime due ore, se non si contava la prima mezz'ora di storia dell'arte, erano state le ore migliori di tutta la giornata e, con tutte le probabilità, sarebbe andata avanti a definirle in quella maniera fino a quando non avrebbe fatto buio e i suoi occhi non si sarebbe chiusi per la stanchezza immane che l'avrebbe pervasa dopo una giornata tanto stancate come sarebbe stata quella.

Veronica si era stiracchiata sulla sedia alla fine di quelle due ore ed aveva messo il libro nella cartella, poi, al sentire il suo nome da Giada, aveva frugato nelle tasche interne del giubbetto di jeans ed aveva preso delle monete per le macchinette, si era alzata ed aveva raggiunto la sua amica. Era stato facile legare con lei, straordinariamente veloce e particolarmente indolore, era stata simpatica anche a Lucrezia, che aveva voluto conoscerla in una video-chiamata (circa due settimane prima), poi, pregata da una e anche dall'altra, aveva fatto un gruppo con tutte e tre, che si era dimostrato anche più attivo di quello della classe, il che era tutto dire, perché come minimo venivano mandati mille messaggi al giorno.

La ragazza aveva osservato combattuta la macchinetta di fronte a lei, indecisa

«Tu che prendi?» si era girata verso Giada che, come lei, fissava il cibo confezionato dietro al vetro

«Credo solo qualcosa da bere, un tè penso.»

«Ti va se prendo le patatine e facciamo a metà?»

«Ah beh, a me va benissimo.» Giada aveva ridacchiato, contagiando anche lei, poi aveva messo dentro i soldi ed aveva pigiato i tasti per la sua bibita, stesso aveva fatto Veronica per le patatine e poi insieme si era dirette di nuovo verso la loro aula.

«Spero che la verifica di matematica della settimana prossima non sia molto difficile.» 

Veronica aveva mugugnato alla frase mentre apriva il sacchettino «Di solito come sono?» 

Giada le aveva sorriso, aveva preso due tre patatine e si era appoggiata alla cattedra dietro di lei.

«Come dire, non si ha nemmeno il tempo di respirare, ci sono così tanti esercizi che se non ti metti subito a farli e perdi troppo tempo va a finire che va male. -Aveva fatto una pausa per bere del tè e Veronica ne aveva approfittato per visualizzare mentalmente di quale morte sarebbe morta durante la verifica- Poi beh, non so come sarà quest'anno ma non penso che le modalità diaboliche cambieranno -Si era fermata ancora, sorridendo al niente- anzi, probabilmente ora metterà ancora più esercizi giustificandosi dicendo che dobbiamo prepararci per l'esame, da te come era?» Veronica aveva sorriso, riportando alla mente i ricordi delle fotocopie colme di esercizi e la tanto odiata tabella dei punti che spesso aveva odiato

«Avevamo abbastanza esercizi anche noi, ma si riusciva a respirare, almeno un po' -Aveva cercato di scherzare, ma dentro di sé ricordava perfettamente il terrore che l'agognava ogni volta che guardava in sequenza prima l'ora e poi gli esercizi che ancora non era riuscita a fare- erano comunque terrificanti: spesso c'erano esercizi per i quali non ci aveva mai preparato o cose che non facevamo da così tanto che credevo di essermele dimenticate del tutto ad un certo punto.»

«Però avevi una media ottima no?»

«Sì, perché mi salvavo sempre con la logica, andando a tentativi il più delle volte, credo che se mia madre incontrasse la professoressa ci sarebbe una sottospecie di guerra fredda.» 

Il tono che aveva usato era stato tanto ironico che Giada aveva riso, rischiando anche di soffocare per via delle patatine che stava ancora masticando.

«Oddio, che avete da schiamazzare come oche?» 

Aveva visto Giada alzare gli occhi al cielo e cambiare espressione facciale in un attimo, per quanto riguardava lei, si era semplicemente girata verso un Leonardo con le braccia incrociate e le occhiaie, anche se queste non facevano nient'altro se non far risaltare i suoi occhi. La genetica gli aveva dato le caratteristiche del principe azzurro, con gli occhi del colore del ghiaccio e i capelli come grano, ma il carattere era quello del cattivo della storia. La sera prima, dopo essere uscito il pomeriggio, era rientrato tardi, ma lei non sapeva nulla di più se non l'orario inappropriato (parole di Angela) in cui aveva deciso di tornare.

«Che c'è? La ragazza di turno non te l'ha mostrata e ora hai le palle tanto girate da tentare di farci venire il ciclo prima?»

Veronica aveva sgranato gli occhi, lanciando uno sguardo alla propria amica, per metà incredula e per metà orgogliosa. Giada era il tipo di ragazza che si mostrava dolce e gentile, con chi non tentava di rovinarle il buon umore giornalmente, ma che, all'occorrenza, sapeva anche mostrare una parte più grezza, e di solito sapeva sempre come equilibrare quei due lati, quando fermarsi prima e quando lasciarsi andare. Veronica aveva pensato che avesse deciso di lasciar correre quella volta, ma, evidentemente, si era sbagliata. Gli occhi di Leonardo si erano assotigliati, l'astio palpabile come un energia.

«Non mi preoccupo, lei non so -Veronica aveva ricambiato lo sguardo che il ragazzo le aveva dedicato, almeno per pochi secondi, prima di tornare a guardare in modo gelido la ragazza di fianco a lei- Ma di te so per certo che ti va all'incontrario, trenta giorni di puro rosso e al massimo due o uno di pausa eh? Ecco spiegato perché sei così insopport-» 

Una mano gli aveva coperto la bocca, anche se non era di certo stata quella di Giada pronta a colpirlo con un pugno. Gli occhi di Leonardo si erano subito girati verso un paio di verdi, gli stessi che Veronica aveva incrociato quasi un mese prima, li aveva riconosciuti perché avevano un taglio quasi felino. Quello doveva essere Andrea, l'unico dei quattro non presente nella loro classe, quello da cui spesso Leonardo spariva.

«Che ne dici di smetterla? Cominci a non essere per nulla simpatico»

«Mmhh» Veronica aveva sentito Leonardo mugugnare indispettito, mentre Andrea continuava a tenergli la bocca serrata con la mano

«Perdonalo Giada, lo sai come è, lascialo perdere e basta»

La sua amica aveva annuito, poi aveva lanciato un altra sguardo piano di odio a Leonardo e si era dileguata con la scusa di andare a buttare la bottiglietta di tè; Veronica l'aveva seguita con la sguardo fino a quando non era stata di nuovo catturata dalla nuova voce nell'aula.

Leonardo nel frattempo si era svincolato da lui malamente. Doveva avergli morso la mano.

«Ma che cazzo ti è preso?» La voce del suo coinquilino era diventata roca. Era infastidito, si sentiva e si vedeva, ma sembrava anche provato.

«Ma che è preso a te -le parole le erano sfuggite di bocca, ma in ogni caso non se ne era pentita- Capisco che il tuo istinto di fare lo stronzo sia più forte di quello di trattenerti, ma diventi veramente insostenibile dopo un po', fattelo dire, in più, devi smetterla di prendertela con Giada»

«Ecco, non sono solo io a dirlo» lei aveva sorriso al ragazzo, tuttavia questo era stato completamente ignorato da Leonardo, che si era limitato a guardare lei e a inclinare le testa di lato

«Se non sapete sostenere una cazzo di conversazione non è colpa mia» Leonardo aveva incrociato le braccia in segno e lei gli si era posta frontalmente, imitandolo, avvicinandosi quel tanto che bastava per farsi sentire solo da lui

«Smettila, quella non era una conversazione, quello era un prendersela con qualcuno, guarda che non faccio più io fisica e comincio a cucinare pasta al pomodoro tutti i giorni» 

Il ragazzo aveva esitato, contrariato dalla possibilità di cominciare a cucinare lui, poi aveva alzato entrambe le mani, dichiarando resa.

«Ma fai quel cazzo che ti pare» 

Veronica era stata tentata comunque di mandarlo a quel paese. Il ragazzo dagli occhi verdi l'aveva guardata ancora, inclinando leggermente la testa, lo sguardo curioso.

«Sei Veronica, vero? -era rimasta un attimo sorpresa, almeno in un primo momento, poi si era lasciata andare ad un sorriso ed aveva annuito, il ragazzo le aveva messo un braccio intorno alle spalle, quello l'aveva lasciata stordita, sorridendo a sua volta, sornione- Sei venuta al pranzo al sushi il primo giorno di scuola? Ah ecco. Mi sembrava di aver già sentito la tua voce ma non ricordavo, poi ho collegato, io sono Andrea, il migliore amico di questo maleducato»

«Sei quello che lo rende normale fino all'ora di punta? In quel caso credo di doverti costruire una statua.»

«Ma tu così mi lusinghi.» 

Avevano riso e parlato per un paio di minuti, discutendo su quanto Leonardo fosse ingestibile. Almeno fino a quando questo non si era parato davanti a loro con le braccia incrociate ed aveva fissato Andrea per brevi secondi.

«Hai proprio tempo da perdere, eh?»

«Ma io ho un ora buca»

«Se vuoi fare una lezione di ginnastica penso che il professore sarebbe felice di vederti» 

Andrea aveva assunto un espressione schifata, non apprezzava affatto il loro professore di ginnastica, ma poi il ragazzo aveva riso, si era allontano da Veronica ed era andato da Giada, che stava parlando con Anna, per salutarla, in seguito, se ne era andato lasciando un saluto ad altre persone alla classe e poi era scomparso oltre la porta, lasciando Veronica e Leonardo ad osservare una Giada rossa di imbarazzo.
Veronica aveva preferito non fare domande quando era tornata al proprio posto, ma dallo sguardo che le aveva lanciato la ragazza aveva già cominciato a capire qualcosa in più. In quelle tre settimane era cambiato molto dell'orario scolastico, che almeno era diventato definitivo. Infatti, durante il sabto si era aggiunta un ora di religione tra quelle di storia dell'arte e motorio, in più l'insegnate di motoria era stato definito, finalmente. Pareva ci fosse stato un disguido sullo stato di salute del professore, visto che si era infortunato durante l'estate, quindi la scuola aveva cercato subito di sostituirlo, o almeno così gliela aveva raccontata lui.
L'ora di religione era passata veloce, poi si erano diretti verso la palestra della scuola. Una cosa che aveva lasciato veronica perplessa era che la palestra si trovava letteralmente sotto terra, infatti le finestre erano posizionate molto in alto. La scuola infatti, oltre il piano terra, aveva due piani inferiori. Nel primo si trovavano le aule dismesse e gli spogliatoi, nel secondo, l'ultimo, la palestra. Infatti loro avevano sceso la prima rampa di scale per arrivare agli spogliatoi e, una volta cambiate, le scendevano un altra per arrivare ad una delle due entrate delle palestra. Veronica infatti aveva notato che i ragazzi entravano dall'altra entrata, motivo per cui non aveva visto il loro spogliatoio, il che significava che era dall'altra parte della scuola. Per lei quell'edificio era un gran casino, non ci capiva nullla. Veronica aveva scoperto che oltre alle aule dismesse del piano sotteraneo, c'era anche il quarto piano che non veniva usato quasi mai.
Il professore era arrivato con una quindicina di minuti di ritardo, cosa che era già accaduta in precedenza e che la sua compagna di banco le aveva detto essere normale, ma che aveva fatto sì che le due ore successive fossero più intense e veloci. Avevano fatto una decina di minuti di corsa, dove avevano potuto tenere il cellulare per ascoltare la musica, anche se, quando aveva sentito il telefono vibrare attraverso la tasca dei pantaloni di tuta, Veronica non aveva potuto fare a meno di guardarlo, cercando di rispondere ai messaggi di Lu il più in fretta possibile. Era da un po' di giorni che non riuscivano a sentirsi spesso, se non si contavano le poche volte in cui erano riuscite a parlarsi, anche la tipica intensità dei messaggi sul gruppo era svanita circa una settimana prima, quando la sua migliore amica aveva ricominciato gli allenamenti di pallavolo, che, se fosse stata a Bergamo, avrebbe fatto anche Veronica.

Era stata proprio Lu a farle scoprire lo sport, a farla emozionare e a rendere interessante quella palla gialla e blu. Si commuoveva se pensava a tutte le partite a cui avevano giocato insieme, quelle in cui avevano vinto, anche quelle dove avevano perso, erano tutti ricordi che riecheggiavano prima nel suo cuore che nella sua mente. Le mancava l'odore della palestra, le urla dell'allenatrice, il suono della gomma che si scontrava con il pavimento in parquet dopo una schiacciata, le mancava la sensazione di onnipotenza quando si faceva punto, quando il contapunti arrivava a venticinque, la sensazione della terra che le mancava da sotto i piedi quando riuscivano a vincere tre a zero, le mancava il peso allo stomaco del set-point, le mancava il nodo alla gola di quando era in battuta e voleva fare un ace perché servivano a loro punti; a tutti quei ricordi, inconsciamente, aveva stretto nella mano destra il telefono, tanto che, quando aveva rilassato la presa, ripresa la propria coscienza, si era sentita quasi in colpa per quanto aveva stretto, lo aveva rimesso a posto quando Giada le aveva dato una gomitata leggera. Finita la prima ora avevano avuto una decina di minuti di pausa, in cui il professore aveva deciso di parlare sia a lei sia ad una sua compagna di classe insieme ad una persona che non aveva mai visto. Era una donna abbastanza giovane, un poco in carne, il viso paffuto e l'espressione cordiale, ma assumeva una postura tale da essere tanto intimidatoria quanto bella.

«Ragazze, lei è Alessandra Zanin, un'allenatrice, la domanda che stiamo per farvi è un po' affrettata, avrei dovuto chiedervelo settimana scorsa, ma come sapete sono stato male -Veronica aveva annuito, mentre Alessia, la sua compagna, aveva mormorato qualche "sì"- Quest'anno, oltre che per il basket, c'è un campionato scolastico anche per la squadra di pallavolo, servono un minimo di diciotto membri, ma sfortunatamente siamo arrivati a diciassette- aveva visto Alessandra annuire -La prima volta che ci siamo visti in classe mi avete detto di aver smesso di giocare da poco, quindi mi chiedevo, ci chiedevamo, se potesse interessarvi»

«Quanti allenamenti sarebbero?» Veronica aveva spostato il peso da una gamba all'altra, valutando quanto potesse essere fattibile, l'allenatrice le aveva sorriso.

«Due o tre a settimana, generalmente sono di martedì e giovedì» la sua compagna di classe, Alessia, aveva dondolato un poco sulle gambe.

«A che ora?»

«Dalle sedici alle diciotto e mezza; servirà l'autorizzazione dei vostri genitori. L'orario è scomodo perché prima di noi ci sono anche i ragazzi della squadra di Basket, ma hanno accettato solo questi giorni per gli allenamenti» 

Veronica aveva annuito. 

Si chiedeva se ne valesse davvero la pena. La pallavolo era sempre stata una parte importante della sua vita, una costante che la faceva sentire a casa, ovunque fosse. Eppure, questa volta tutto sembrava diverso. La città in cui si trovava ora non le apparteneva ancora, con le sue strade sconosciute e il ritmo a cui non era abituata. Le persone che avrebbe incontrato erano estranee, compagne di squadra con cui non aveva mai condiviso né una battuta né un pallone. Era come ricominciare da zero, e la cosa la metteva a disagio.
Pensava a quanto sarebbe stato difficile allinearsi ai nuovi schemi di gioco, comprendere al volo le dinamiche di squadra, trovare il suo posto in un gruppo già formato. E poi, c'era l'anno della maturità che pesava sulla sua testa come la spada di Damocle. Sapeva che sarebbe stato un periodo intenso, c'era davvero spazio per altro? Forse avrebbe finito per trascurare lo sport, o peggio ancora, per rimanere indietro con lo studio. E se non fosse riuscita a gestire tutto? Sentiva addosso il peso delle aspettative, sue e degli altri.

«Per quando dobbiamo decidere?»

«Entro questo pomeriggio, so che è tanto chiedervelo con così poco preavviso, oggi è l'ultimo giorno, poi lunedì dovremmo mandare una mail con tutti i dati, tra cui il numero di giocatori, agli organizzatori del torneo» Veronica aveva annuito e poi si era allontanata insieme ad Alessia, i dieci minuti si erano conclusi, la lezione aveva ripreso ed era andata avanti fino alle tredici.

La ragazza aveva spostato il peso da un piede all'altro, nervosa, mentre lanciava un'occhiataccia al sorriso, falso, che Leonardo stava commissionando ad un gruppetto di cui lei aveva riconosciuto solo una ragazza, cioè quella a cui si era seduta affianco al pranzo di un mese prima. Quello era uno di quei giorni in cui Andrea non aveva potuto riportalo a casa, quindi lui, Alessandro e Damiano sarebbero dovuti tornare in autobus. Dire che l'umore di Leonardo era nero era fare un esufemismo.
Aveva alzato gli occhi al cielo quando il secondo autobus era passato ma lei non aveva potuto fermarlo perché <<aspettaci per prendere l'autobus, ci mettiamo un minuto>> e invece, come minimo, erano venti minuti che Veronica se ne stava in piedi dalla fermata dell'autobus, a perdere le corse per rimanere ad aspettare "quelli lì" come aveva scritto a Lucrezia pochi minuti prima. Stava attendendo una risposta, ma invece della vibrazione tipica del messaggio, il telefono aveva continuato a vibrare per più secondi del dovuto, e quando lo aveva preso dalla tasca dei pantaloni, si era ritrovata davanti il soprannome della sua migliore amica. Aveva risposto, tanto per non ritrovarsi vari insulti, che alla fine non erano insulti perché sia mai che Lucrezia Vanin, figlia di catechista, dicesse una parolaccia nella sua vita, a meno che quella parolaccia non fosse una parola inventata o 'palle', nella loro chat; aveva portato il telefono all'orecchio

"Ei"

"Ei, ha finito?" Veronica aveva lanciato un'occhiata a Leonardo

"No, sta ancora parlando, arriveremo a casa alle tre se continua così -Veronica aveva sospirato-Ora aspettiamo"

"Con calma"

"Perché ancora parla 'sto stronzo" Lucrezia aveva ridacchiato, ma poi era tornata seria.

"Mi dispiace non esserci sentite in questi giorni."

"È normale, almeno per adesso, dobbiamo solo cercare di aggiustare gli orari."

"Ma a me dispiace comunque, mi manchi, manchi a tutti."

"Anche voi, ma al momento è così."

"Mhmh."

"Cos'è, sei triste? -Veronica aveva ridacchiato, ironica, e Lucrezia aveva ribattuto con ironia bofonchiando come una bambina- Magari un sabato pomeriggio riesco a venire su."

"Sarebbe fantastico! Comunque, io e Federico ci siamo messi insieme" le sopracciglia di Veronica avevano fatto un guizzo verso l'alto.

"Ma non eri tu quella che una settimana fa diceva che era un cretino?"

"Si è rivelato diverso."

"Ogni volta che dici così va a finire male."

"Non possiamo essere ottimiste?"

"Tra tre mesi mi pregherai di venire da te per consolarti."

"Ma smettila."

"Nessuno dei tuoi fidanzati supera i due, tre mesi forse sono esagerati, hai ragione" Lu aveva sbuffato, e probabilmente si era seduta a gambe accavallate.

"Smettila!"

"Sì dai, mica è colpa tua se li trovi tutti coglioni" aveva palesemente sentito il sibilo di un 'come sei volgare' che l'aveva fatta sorridere.

"Tu hai novità?"

"Mi hanno chiesto di entrare nella squadra di pallavolo della scuola"

"Fantastico!"

"Tu dici?"

"Non sei felice?"

"Certo che lo sono -Veronica aveva sospirato, il cuore le era sembrato vibrare quando aveva pensato ad una qualsiasi possibile partita- e non so nemmeno cosa mi fermi da dire sì."

"Hai paura?"

"Non è quello- Non lo so, sembra strano no?"

"No! Buttati! È più di un mese che sei lì, ma ancora non è cambiato nulla, ora hai una possibilità per mettere del pepe dentro a questa insalata insapore!"

"Stai paragonando la mia vita qui ad un'insalata?" Veronica aveva riso di gusto e aveva sentito varie risate anche dall'altro capo del telefono.

"Oddio, non respiro" "Okok, riprendiamoci" "Non credo di farcela" Lu aveva continuato a ridere, e il suono delle sue risate, come il solito, aveva contagiato anche lei, quindi aveva ripreso a ridere, con una mano agli occhi perché le stavano venendo le lacrime.

"Parlando seriamente -aveva sentito la sua migliore amica prendere un sospiro ampio- dovresti accettare; entro quando devi decidere?"

"Questo pomeriggio."

"E quanto ti hanno avvisato di questa cosa?"

"Un'ora fa circa."

"Ma farlo prima no?"

"Scorsa settimana il prof non c'era."

"In ogni caso, accetta."

"Ma non ho nemmeno le cose, e il primo allenamento è martedì."

"Vieni a prenderle oggi o domani!"

"Devo studiare."

"Ma se studi sempre, ogni volta che ho un momento libero la situazione è: 'Veronica ti va di parlare?' 'Sto studiando' 'Veronica facciamo chiamata?' 'Sto studiando' 'Veronica, guarda, sono morta!' 'Sto studiando'; ogni sabato, ogni domenica, ogni giorno, basta!" la ragazza aveva sospirato.

"Vedo cosa mi dice Angela, ok?"

"Perfetto, ora ti lascio, che è pronto il pranzo, scolla quell'energumeno dai sanpietrini eh" e così si erano salutate.

Veronica si era girata ancora una volta nella direzione di Leonardo, ed aveva sorriso, esasperata, quando, finalmente, aveva visto i tre ragazzi avanzare verso di lei, non si erano scambiati molte parole ma avevano comunque dovuto aspettare altri cinque minuti per l'autobus. Quando erano saliti, tuttavia, non avevano trovato posti a sedere, così avevano dovuto piazzarsi nel mezzo, dalla vetrata più grande. Veronica si era dondolata sulle gambe, incerta, mentre con le mani si teneva al corrimano che aveva dietro alla schiena. Aveva preso un'altra volta il telefono, ed entrata nella mail di istituto, aveva deciso di ascoltare Lucrezia e accettare. 
La pallavolo le aveva sempre dato energia, l'aiutava a scaricare la tensione. Era il momento in cui si sentiva davvero sé stessa, libera di esprimersi senza pensieri. Magari, cambiare ambiente avrebbe potuto rivelarsi un'opportunità, non solo una difficoltà. Sapeva che le sue insicurezze erano normali, parte del processo di adattamento, ma non per questo doveva lasciarsi bloccare. C'era sempre un certo fascino in ciò che non conosceva ancora, e quel pizzico di ansia poteva essere il segnale che stava crescendo, che stava affrontando qualcosa di nuovo.
In fondo, che male poteva esserci nel provare? Anche se fosse andata male, sarebbe stato solo un passo in un percorso più ampio. Era consapevole che la sua paura di non essere accettata o di non riuscire a integrarsi era amplificata dalla sua tendenza a cercare sempre il controllo. Ma la verità era che la pallavolo, per lei, non era mai stata solo una questione di vittorie o sconfitte. Era il piacere del gioco, il brivido del punto decisivo, la sensazione della palla che rimbalza precisa sotto il palmo della mano. Sentiva che, nonostante i dubbi, l'unica cosa davvero sbagliata sarebbe stata rinunciare senza nemmeno provarci.
Aveva fatto un email veloce e sintetica in cui comunicava al professore la sua decisione e l'aveva inviata; due-tre mesi prima non si sarebbe presa tutte quelle remore prima di accettare, avrebbe subito colto l'occasione ed avrebbe detto di sì appena la domanda le sarebbe stata posta, senza pensarci troppo, senza approfondire il perché sentisse delle incertezze, ma c'era stato qualcosa in quello che era successo, o per meglio dire cominciato, da metà luglio, che le aveva posto un modo più rigoroso di pensare, e lei lo aveva recepito tanto da incanalare quel modo e renderlo proprio. L'autobus si era fermato di colpo e per poco non si era ritrovata catapultata dall'altra parte del mezzo, era stata maledettamente fortunata, perché la mano di Leonardo, con ottimi riflessi, le aveva circondato il polso quando il conducente aveva sterzato troppo in fretta, fermandola dall'imminente caduta sul pavimento e tirandola indietro. Alessandro e Damiano si erano voltati verso di loro.

«Tutto bene?»

«Sìsì»

«Potresti evitare di cercare il suicidio? Morire in autobus non è una bella morte sai, soprattutto così.»  

Veronica aveva riso. Leonardo poi l'aveva lasciata andare subito, riportando una mano in tasca e l'altra sul corrimano, per tenersi.

Aveva imparato a conoscerlo, almeno un po'. Veronica sapeva perfettamente come Leonardo fuggisse alla vista di qualsiasi piccolo insetto (e la conseguenza era sempre che lei o Francesco dovevano prendere l'insetto e portarlo fuori), come nel suo caffè alla mattina ci fosse più zucchero che latte, aveva anche scoperto che era allergico al salame, e che per qualche dolorosa sfortuna era anche l'insaccato che gli piaceva di più, sapeva che preferiva l'ordine alfabetico a quello personale perché se fosse stato per lui l'avrebbe cambiata ogni quindici giorni la disposizioni di quella maledetta libreria e Leonardo sapeva che lei preferiva un film horror ad uno romantico, che quando era affamata apriva il frigo dieci volte anche senza mai prendere nulla, aveva anche scoperto come amasse, in un modo quasi disperato, qualsiasi film, libro o serie che parlasse di una scuola magica o di una accademia, e anche come, quando era triste, scaldasse il pane, tostandolo, e si facesse un panino con il tonno. Piccole abitudini che avevano imparato l'uno dell'altra, anche se litigavano spesso per i motivi più futili, come, per banale esempio, il modo disordinato in cui il ragazzo lasciava la cucina dopo esserci passato per prendersi da mangiare. Veronica aveva alzato gli occhi sul viso del ragazzo e quasi si era sentita la faccia prendere fuoco quando aveva incrociato lo sguardo di Leonardo, e si era appoggiato al vetro del finestrino; Veronica si era resa conto del divario che c'era tra le loro stature: Leonardo era alto, slanciato, superava quasi sicuramente il metro e ottantacinque, e per quanto Veronica fosse all'incirca metro e settanta o qualcosa in più, la differenza tra le loro altezze era almeno di quindici centimetri, e più vicini erano più chiaramente poteva percepire e vedere la differenza. Aveva spostato lo sguardo in avanti, verso la strada, e si era resa conto che erano arrivati, aveva premuto il pulsante per chiamare la fermata. Erano scesi poco dopo, salutando Alessandro e Damiano, ed avevano fatto la strada di casa quasi tutta in silenzio, anche perché Lucrezia e Giada avevano preso a scrivere sul gruppo, e l'avevano interpellata più volte di quante avrebbe voluto. Era stata costretta a risponder loro per frenarle. Appena arrivati a casa avevano trovato Akimi ad aspettarli fuori dalla porta, e Leonardo l'aveva presa in braccio, giocandoci un poco, ed aveva chiesto a lei di aprire la porta, ma era stata preceduta da Angela, che quel giorno fortunatamente era a casa, Veronica aveva guardato istintivamente l'orologio, ci avevano messo poco, relativamente, non contando i minuti che il ragazzo le aveva fatto perdere

«Ragazzi! -Angela si era spostata, lasciandoli entrare in casa- Come è andata oggi?»

«Bene»

«Cosa avete fatto?»

«Niente.» Leonardo aveva continuato a coccolare la gatta, incurante, e si era diretto verso camera sua, fino a sparire dopo le scale.

«Tutto bene cucciola?» Angela le si era avvicinata con fare materno

«Sisi, volevo parlarti.» Veronica si era tolta lo zaino dalle spalle, appoggiandolo sul pavimento, dopo aver messo le scarpe della scarpiera.

«È successo qualcosa? -Sua zia aveva lanciato uno sguardo alle scale- Avete litigato?» aveva negato con la testa.

«Nono, niente del genere, però mi hanno chiesto di entrare nella squadra di pallavolo della scuola, per il torneo primaverile»

«Che bello! Anche Leonardo l'anno scorso ha giocato, però era nella squadra di basket, dovrei chiedergli se quest'anno lo farà ancora» Veronica era rimasta un attimo sorpresa, ma si era ripresa subito.

«Si ecco, ho accettato -Angela le aveva sorriso, mentre entravano in cucina. Veronica l'aveva seguita mentre parlava- il problema è che tutte le mie cose sono ancora a casa mia, e visto che non ci sono più tornata ho pensato di andarle a prendere domani, invece di farti spendere soldi per qualcosa che, in pratica, ho già -Angela aveva annuito un paio di volte- In più, visto che non ci vediamo da molto, ho pensato di passare il pomeriggio con la mia migliore amica»

«Lucrezia, giusto?»

«Sì, esatto» Angela aveva annuito, poi era parsa preoccuparsi.

«Io tuttavia non posso accompagnarti perché sono di turno domani mattina...»

«Non è un problema, posso prendere il treno»

«Non volevo mandarti da sola però... -era sembrata pensarci un paio di secondi, poi l'aveva guardata- Ti fa dispiacere se Francesco o Leonardo vengono con te? Tornerai tardi se ti fermi il pomeriggio, non mi va di saperti in un treno di notte da sola, e non è che non mi fido di te, è che di questi tempi le persone fanno veramente schifo»

«Io... sì, va bene»

Veronica l'aveva abbracciata di slancio, Angela l'aveva abbracciata a sua volta ed erano rimaste così per un paio di secondi, poi Veronica si era diretta in camera sua per sistemare lo zaino. Si era cambiata, e poi era scesa di nuovo in cucina. Il sabato, come la domenica, era uno dei pochi giorni in cui riuscivano a pranzare tutti insieme alla stessa tavola.

«Domani ho il turno in ospedale, quindi qualcuno di voi due dovrà accompagnare Veronica a Bergamo.»

Angela lo aveva detto così, senza nessun tipo di avvertimento, posando lo sguardo sui figli. La sua voce era ferma.

Francesco era stato il primo a parlare, scegliendo le parole con cautela. 

«Mamma, io ho una verifica lunedì. Devo studiare tutto il weekend, se no sono fregato.» Sembrava quasi sollevato di avere una scusa valida, ma sapeva che questo significava scaricare la responsabilità su suo fratello. Non l'avrebbe presa bene, lo sapevano tutti.

Leonardo aveva alzato appena un sopracciglio, quasi disinteressato, come se stesse pensando: «E quindi?». Quando, dopo un breve momento, aveva percepito che il rifiuto del fratello era categorico, aveva distolto lo sguardo dallo schermo del cellulare. I suoi occhi avevano attraversato la stanza, passando rapidamente da Angela a Veronica, cercando di capire il senso di quella discussione che sembrava lontana da ciò a cui stava pensando, come se non avesse sul serio seguito la conversazione. Il suo sguardo si era poi fermato su Francesco.

«Ah, certo. Studiare. Una scusa meno patetica non la trovi?» Un sorriso amaro aveva increspato le sue labbra, il sarcasmo che non cercava neanche di mascherare il fastidio. Francesco aveva sospirato, sapendo quanto fosse importante non rispondere. Leonardo era come una miccia accesa che stava cominciando a bruciare, se gli fosse stata data anche una piccola quantità di carburante avrebbe generato un esplosione micidiale per tutti loro.

Il ragazzo biondo aveva spostato lo sguardo su Veronica, come se lei fosse la fonte di ogni problema. Lei si era affrettata ad intervenire, si sentiva in colpa per la situazione che si era creata perché non voleva che andasse così.

«Non c'è bisogno zia, davvero. Posso andare da sola, prendo il treno e torno in giornata, non voglio disturbare nessuno.»

Leonardo si era voltato verso di lei con uno sguardo gelido. «Andare da sola? Certo, perché tu che cadi in autobus perché non ti tieni, cazzo, sei proprio il tipo che sa gestire tutto senza combianare qualche casino, vero? Figuriamoci. Ti basta sbagliare una cazzo coincidenza e ti trovi in mezzo al nulla a piangere. E chi credi che chiamarai? Noi, ovviamente. Come se fossimo dei cani pronti a scodinzonarti intorno» Il suo tono era velenoso, ogni parola affilata come una lama.

Angela aveva cercato di non lasciari prendere dal fastidio. In quelle condizioni era difficile non esasperare ogni cosa «Leonardo, non esagerare. Sto solo chiedendo di accompagnarla e passare il giorno a Bergamo. Non è una tragedia. Ci vogliono un paio d'ore di viaggio, e poi puoi comunque rilassarti lì.»

Ma Leonardo aveva scosso la testa la testa, visibilmente irritato. «Rilassarmi? Sì, certo. Perdere tutta la mia domenica dietro a questo? Avevo già detto che dovevo lavorare alla moto. Invece devo buttare via la giornata intera perché lei non è capace di fare nulla da sola.»

Francesco si era preso la testa fra le mani, passando le dita in messo ai capelli scuri «Leo, non è la fine del mondo. Puoi sempre sistemare la moto più tardi o lunedì dopo scuola.»

Ma Leonardo lo aveva ignorato, concentrato solo su Veronica. 

«Non è una tragedia, giusto... allora, perché ogni volta che chiedi aiuto, sembra che tutto il mondo debba fermarsi per te? Non sai fare nulla da sola, e quando finalmente qualcuno ti dice la verità, diventi tutta fragile e sconvolta.»

Veronica aveva sentito il viso andare a fuoco per l'umiliazione, ma era rimasta in silenzio, incapace di trovare una risposta. Le parole di Leonardo erano come colpi precisi, mirati a ferire dove sapeva che faceva più male.

Angela aveva guardato il figlio con disappunto, quando faceva così non lo riconosceva.

«Leonardo, sto chiedendo solo un po' di collaborazione. Non posso accompagnarla, e non voglio che vada da sola. Non è così assurdo che in famiglia ci si aiuti a vicenda.»

Ma lui ormai era fuori di sé. «La famiglia? Quando saremo stati, noi -aveva indicato loro quattro- una famiglia? Questa è qua da un mese ma è di famiglia? Non farmi ridere. È sempre la scusa per farmi mollare i miei piani. Tanto a chi importa se devo sacrificare io le mie cose? A nessuno, ovviamente. Mamma, tu hai sempre qualche scusa per non dire mai no a Veronica, solo perchè-.»

Angela lo aveva interrotto bruscamente, le sembrava un bambino «Leonardo, sei egoista e non è il momento di pensare solo a te stesso. Non è giusto che tu ti rifiuti di aiutare per un motivo così futile.»

Leonardo, infuriato, aveva alzato la voce. «Futile? Tu pensi che il mio tempo sia insignificante? Che io debba rinunciare ai miei piani perché tu vuoi che tutti si adattino ai suoi ritmi? Basta! Non me ne frega nulla della tua "giustizia". Ogni volta che chiedo qualcosa per me stesso, sembra che tutto il mondo debba girare intorno agli altri!»

Angela aveva risposto con una durezza che non le era abituale «Sei così preso da te stesso che non riesci a vedere al di là del tuo naso. È difficile fare un piccolo sacrificio per il bene di qualcuno?»

«Chissà perché però la vittima sacrificale sono sempre io, eh?»

Il litigio era diventato un vortice di accuse e risentimento, ogni parola una ferita aperta. Alla fine, esausto e con la rabbia che gli aveva paralizzato i pensieri, Leonardo aveva lanciato un ultimo sguardo disperato verso la madre. 

«Vuoi sul serio lasciare una ragazza tornare da sola di sera? Un viaggio di tre ore in cui rientrerebbe come minimo alle ventidue? Ti rendi conto che...»

«Basta, va bene! Ma sappi che non lo faccio per lei, lo faccio solo perché non ne posso più di questa situazione!»

Leonardo si era alzato bruscamente, la sedia era strisciata rumorosamente sul pavimento. Le motivazioni di sua madre erano più che logiche, e anche se era arrabbiato non poteva di certo dirle di no. Non quando la metteva sotto quel punto di vista. «Non ho comunque intenzione di continuare così, non sono una cazzo di babysitter»

Aveva lasciato un silenzio opprimente nella cucina. Angela, con il volto segnato dalla stanchezza, aveva guardato la sedia del figlio, il cuore pesante per il conflitto e la delusione. Veronica, sentendosi come se fosse stata investita da una tempesta, si era alzata in silenzio e si era ritirata nella sua stanza. La cucina era rimasta avvolta in un silenzio pesante, come se ogni parola e ogni sguardo avessero lasciato una ferita aperta e sanguinante. Più di quanto Veronica stessa si aspettava.

Leonardo non lo aveva detto per scherzare. Non le aveva più rivolto la parola, non si era nemmeno presentato il pomeriggio per studiare insieme, si era fatto semplicemente trovare pronto la mattina dopo quando glielo aveva detto, e non l'aveva più considerata. Anzi, aveva fatto di tutto per allontanarla. 

Leonardo e Veronica erano arrivati in stazione per le nove, con l'aria fredda del mattino e la luce pallida della stagione che illuminava il pavimento di marmo. Avevano comprato i biglietti alle casse automatiche, o per meglio dire, li aveva comprati Veronica, timbrandoli lei. Leonardo aveva mantenuto un passo deciso, lo sguardo fisso davanti a sé, mentre Veronica lo seguiva a una distanza di qualche passo, cercando di ignorare il senso di disagio che la pervadeva. Leonardo aveva lanciato un rapido sguardo all'orologio e si era diretto verso il binario, come se la sua missione fosse quella di far passare il tempo il più rapidamente possibile e soprattuto lontano da lei. Veronica lo aveva seguito silenziosamente, tenendo i biglietti timbrati stretti tra le dita.
Quando il treno era finalmente arrivato, i due avevano trovato i loro posti. Leonardo si era seduto due file più in là di Veronica, senza nemmeno voltarsi a guardarla. Con un gesto brusco, aveva estratto le cuffie dal taschino e le aveva infilate nelle orecchie, il suo sguardo, una volta che il treno era partito, si era impegnato a fissare il panorama che scivolava oltre il finestrino. Le immagini del mondo esterno sembravano assorbirlo completamente, come se il rumore del treno si mescolasse al suono della musica che aveva scelto.
Veronica aveva osservato il suo volto riflesso nel vetro, incapace di ignorare la distanza che aveva creato. Ogni volta che i suoi occhi si posavano su di lui, vedevano solo il profilo indifferente e distaccato di Leonardo. Le parole del giorno prima sembravano un'eco lontano nella sua mente, un colpo secco che aveva frantumato le sue speranze di costruire anche solo la base di un rapporto decente. Aveva provato a parlare, a rompere il ghiaccio, ma ogni tentativo sembrava perdersi nell'aria come un sussurro ignorato. Leonardo non aveva mosso un muscolo, come se fosse completamente assorbito dal mondo che scorreva fuori dal finestrino. Ogni volta che Veronica tentava di avvicinarsi, il suo corpo rigido e il volto impassibile sembravano creare un muro invisibile tra loro.
Con un messaggio veloce, Veronica aveva scritto a Lucrezia, limitandosi a dire che sua zia le aveva dato il permesso di andare a Bergamo e che era in viaggio. Non aveva aggiunto altro; non aveva sentito il bisogno di condividere le sue preoccupazioni sul viaggio o sul suo umore teso. Fortunatamente, Lucrezia aveva risposto con entusiasmo, riempiendo il telefono di notifiche che avevano le offerto un conforto temporaneo.
Le parole di Lucrezia si erano palesate nello schermo del telefono, attraverso le notifiche sulla schermata di blocco. "Possiamo organizzare qualcosa per oggi," le aveva suggerito Lucrezia, e Veronica aveva annuito mentalmente mentre leggeva i dettagli del piano che l'amica aveva proposto. Avevano deciso di incontrarsi verso l'una per un pranzo e passare il pomeriggio insieme, fino all'orario del treno di ritorno. Lucrezia aveva esaminato il programma con entusiasmo, considerando che il viaggio era già a metà e che, tra cambi e ritardi, sarebbero arrivati a Bergamo intorno alle dieci e mezza.
Lucrezia aveva avuto l'idea, che Veronica considerava pessima, di invitare Federico. L'intenzione era chiara: coinvolgere Leonardo in una situazione nuoca e distrarlo dal suo risentimento. Veronica sapeva che, nonostante le stesse divendo di no, Lucrezia avrebbe fatto di testa sua, pensando fosse l'opzione migliore.
Il pensiero di Leonardo che interagiva con Federico la turbava già, creandole un inesorabile ansia. "Non è il giorno giusto per nuove conoscenze," aveva tentato di spiegare a Lucrezia, ma ogni argomento sembrava infrangersi contro la testardaggine dell'amica. Il piano di Lucrezia era preoccupante. Veronica aveva il timore che la situazione potesse degenerare in un conflitto aperto come quello del giorno prima l'aveva assalita, rendendo ogni minuto del viaggio una corsa contro il tempo per evitare un'altra esplosione di rabbia da parte di Leonardo. Non voleva che il loro rapporto si incrinasse ancora di più.
Aveva lanciato uno sguardo nervoso a Leonardo, che continuava a fissare il panorama fuori dal finestrino con l'espressione impassibile, poi Veronica aveva cercato di concentrarsi sul telefono. La paura di un confronto diretto la faceva aggrottare la fronte mentre il treno continuava il suo percorso verso Bergamo, sperando di trovare un modo per parlare con Leonardo senza scatenare ulteriori tensioni.

Veronica aveva deciso che durante il viaggio avrebbe letto, scaricando sul Kindle il libro che aveva iniziato il pomeriggio prima. Aveva avuto bisogno di qualcosa per distrarsi, e non pensare a quello che le aveva detto il ragazzo.
Quando finalmente erano scesi, erano circa le undici. Leonardo si era diretto verso l'uscita della stazione con lo stesso distacco con cui aveva affrontato tutto il viaggio. Veronica lo aveva seguito, il cuore pesante, sentendo il peso della solitudine amplificato dalla sua indifferenza. L'idea di una conversazione sembrava un sogno irraggiungibile, sepolto sotto il manto spesso del disinteresse e dell'incomprensione.
Leonardo si era alzato per primo, aveva tolto le cuffiette e si era girato verso di lei con un'espressione impassibile. Con una mossa distratta, aveva alzato il cappuccio della felpa e infinto le mani nelle tasche, mantenendo lo sguardo fisso su di lei mentre camminava lungo il corridoio stretto e scendeva dal treno. Quando Veronica aveva cominciato a muoversi verso l'uscita della stazione, Leonardo l'aveva seguita a una distanza discreta, il volto solcato da un cipiglio confuso e distante.
Appena fuori, il freddo vento di Bergamo aveva sollevato i capelli di Veronica, facendoli danzare leggermente intorno al viso. Lei aveva cercato di tenerli fermi, ma il vento continuava a giocare con loro, mentre il sole, caldo e brillante, le sfiorava il viso e illuminava i suoi occhi.
In modo quasi automatico, un gesto abituale per lei, Veronica aveva iniziato a camminare verso casa sua. Leonardo, un passo dietro, continuava a seguirla.

Veronica aveva avuto tre case a Bergamo, tutte vicine tra di loro a parte l'ultima, perché sua madre al tempo odiava cambiare troppo le carte in gioco. In una, situata vicino alla stazione, aveva vissuto fino ai cinque anni, era un appartamento piccolo, a due piani, dai toni freddi, moderni, e l'aria elegante. Il profumo dolce di sua madre si mischiava con l'aroma frizzante dello shampoo alla menta e limone di suo padre, creando un unione di fragranze che dava all'intero appartamento una parvenza di calore, quei profumi sembravano colorare le pareti grigie di qualche tinta allegra, dando origine ad uno dei posti in cui lei era stata felice, poi, un bel giorno di quando aveva quattro anni era arrivata sua sorella, Alice, e da quel momento non era stato più possibile vivere in quella casa.
Si erano trasferiti in un altro appartamento, uno a un piano solo, le pareti della cucina, ora divisa dal salotto, erano di un rosso bordeaux accesso, e, a differenza dall'altra, sembrava attirare le persone ai fornelli e convincerli a cucinare sempre cose nuove (in quella stanza lei e suo padre avevano combinato tanti di quei disastri che nemmeno ore di pulizie erano riuscite a pulire tutto), i mobili erano bianchi, sempre pieni, e il tavolo era di vetro, che era sempre stato utilizzato per fare i compiti o spandere cibo; il salotto era bianco, il mobile-libreria di legno si ergeva ad arrivare fin quasi al soffitto e prendeva una delle quattro pareti della stanza, in un altra c'era la collezione di fiori di sua madre, una era inutilizzabile perché portava alla terrazzata tramite delle porte di vetro, e la terza era occupata da uno dei due divani e la porta per entrare nel corridoio delle camere; quell'appartamento ne aveva ben quattro, e in una di queste (con più precisione, la camera dei suoi genitori) c'era anche un bagno, in più, aveva un parco giochi vicino.
Erano stati bene lì, anche se suo padre aveva cambiato lo shampoo e non c'era più il solito profumo dolce-frizzante ad accoglierla quando tornava da scuola, anche se sua madre era diventata più gelida e il profumo dolce era stato sostituito da uno che sapeva di eucalipto e sandalo. Poi, quando aveva dodici anni, dopo un'infanzia alla contrassegna della felicità, era avvenuto quello che i giornali locali avevano definito "la tragedia della famiglia Lisi".

Veronica stava leggendo quel pomeriggio di dicembre, come faceva ogni giovedì e, in realtà, quasi tutti i giorni. Finito i compiti entro le cinque, le restava più di metà pomeriggio libero per dedicarsi a ciò che più le piaceva. Dall'anno prima aveva preso l'abitudine di completare i compiti subito dopo pranzo, con la mente fresca e senza la pressione del tempo. A differenza di molti dei suoi compagni, riusciva sempre a godere dei pomeriggi liberi per leggere, guardare la televisione, un anime, qualche episodio di una serie TV, o semplicemente andare all'allenamento di pallavolo senza pensare ai compiti da fare dopo. Nessuno le poteva dire nulla: i compiti erano fatti, le relazioni scritte, i temi completati, e i voti eccellenti ben visibili nel registro elettronico. Né sua madre, sempre attratta dalla perfezione, né suo padre potevano rimproverarla per la sua dedizione.

Alice, invece, era un'altra storia. Con i suoi otto anni, la chioma bionda sempre perfetta e gli occhi azzurri, sembrava l'immagine dell'innocenza. Ma il suo sorriso furbo tradiva un'altra realtà: quello di chi sapeva come mentire e imbrogliare. Alice iniziava i compiti solo quando Veronica li aveva finiti e, se tutto andava bene, li completava prima delle nove di sera. I suoi voti erano lontani dall'eccelenza, e la sua concentrazione era tanto labile quanto la sua attenzione, distraeva da ogni cosa. Era fissata con il tablet e il personaggio di Ludmilla di Violetta, che considerava una sorta di guida nella vita.

Caratterialmente, erano opposte: Veronica aveva ereditato la parte logica dei genitori, quella orientata al lavoro e alla determinazione. Era capace di adattarsi a ogni situazione e non si lasciava scoraggiare facilmente. Alice, al contrario, sembrava incarnare la parte più irrazionale e capricciosa: quella che esplodeva durante le discussioni telefoniche di papà, quella indecisa e testarda, che non ammetteva mai di avere torto. Litigavano continuamente, tranne quando Alice era a danza, il che accadeva proprio il giovedì e il martedì.
Quella sera, Veronica aveva staccato gli occhi dal libro e sbuffato, i capelli scuri ondeggiando mentre cercava l'orologio alla parete. Erano già le otto e nessuno era ancora tornato. Affamata, si era alzata e si era diretta in cucina. Dal frigo aveva preso del pane, affettato e verdura, e dal freezer, bastoncini di pesce e olive ascolane. Aveva sistemato tutto sulla teglia e impostato il forno, poi, con lo stomaco che brontolava, si era preparata un panino e si era seduta di nuovo a leggere.
Non era insolito che sua madre tornasse tardi; lavorava in un'agenzia di pubblicità e spesso rimaneva a finire il lavoro, ma quel giovedì era strano che anche suo padre e Alice non fossero ancora a casa. Veronica aveva provato a chiamare suo padre, ma non aveva risposto. Forse Alice era rimasta più a lungo agli allenamenti? O si era dimenticata di avvisarla? Era possibile, visto che ogni tanto, mentre faceva i compiti, si distratta e dimenticava di alcune cose.
Aveva fatto spallucce ed era tornata a leggere. Poi il telefono era squillato. Veronica aveva guardato lo schermo con diffidenza, ma quando aveva visto che era suo padre a chiamare aveva risposto. Non aveva sentito nulla, solo il suo nome e poi uno schianto violento che le aveva fatto sobbalzare il cuore e infuso terrore. Si era premuta il telefono contro l'orecchio, provando a capire, ma dopo un paio minuti di rumori inquietanti e cigolii, la chiamata era terminata. Veronica si era accorta solo in quel momento, guardando fuori dalla finestra, che diluviava.

Il cuore le esplodeva nel petto e il nodo alla gola le bloccava la voce. Quando la porta di casa si era aperta e poi chiusa, e i suoni soliti di sua madre erano stati udibili, avrebbe dovuto sentirsi sollevata. Anche il suono dei tacchi sul pavimento e il profumo di sua madre avrebbero dovuto rassicurarla, ma nulla di tutto questo le dava conforto. Quando sua madre aveva pronunciato il suo nome, Veronica non l'aveva nemmeno sentito.
Si sentiva come se fosse stata esposta al sole di luglio per giorni. Le orecchie le pulsavano e le dava fastidio stare seduta; sembrava che qualcosa cercasse di trattenerla dal fare quello che desiderava. Un dolore crescente si dimenava dentro di lei, e poi, come un fulmine a ciel sereno, le lacrime erano esplose senza controllo. Non sapeva se erano passati minuti o ore, ma quando il telefono di sua madre aveva squillato con la melodia di una delle poche canzoni che le piacevano, Veronica si era sentita ancora più impotente. Le sembrava di essere strangolata da mani invisibili. Il respiro si faceva sempre più pesante e incontrollato, la stanza girava come un'attrazione di Gardaland e una nausea intensa l'aveva colpita, facendole pensare che avrebbe vomitato in soggiorno.

Mille domande si affollavano nella sua mente, ma nessuna delle risposte sembrava razionale. Sapeva che erano andati in ospedale, sapeva di aver parlato con una donna, sapeva di essere stata portata in una stanza a parte, ma poi, il buio e le frasi sussurrate dalle infermiere erano stati solo il preludio alla verità: erano morti, entrambi.

Pochi giorni dopo quell'avvenimento, avevano cambiato un'altra volta casa; la terza era una casa di simili dimensioni alla prima, forse leggermente più grande; la cucina aveva i muri bianchi e i mobili in legno di ciliegio, il salotto, rosa salmone, all'inizio era stato vuoto per un bel po' di tempo, sua madre aveva buttato via tutti i mobili che avevano utilizzato nelle altre case, e non era rimasto nulla, nemmeno gli elettrodomestici; Veronica era riuscita a nascondere e salvare  qualche fotografia, ma tutto, dal suo letto ai peluche era stato buttato via. La sua camera era stata rifatta da zero, ed avevano anche fatto buttare giù un muro perché, se l'avessero lasciata così come era, più Veronica sarebbe diventata grande più quella stanza sarebbe somigliata allo stanzino dove dormiva Harry Potter, quindi, oltre alla stretta porta di vetro che conduceva alla terrazza, Veronica aveva avuto un altro paio di vetrate scorrevoli, che rendevano la sua stanza quella più illuminata di tutte, l'aveva anche fatta dipingere di verde pastello, perché il bianco su molte pareti era stato sostituito da un grigio dovuto alla polvere. Aveva vissuto bene anche lì, le mura erano state spettatrici di pianti, di urla, di liti e di pensieri confusi, ma nonostante quello, e soprattutto per quello, era un posto chiamato casa, un posto dove lei poteva tornare e sentirsi in pace con sé stessa, era un posto dove era libera di fare quel che voleva e dove aveva condiviso momenti importanti con persone importanti, quello era diventato il suo posto sicuro, la sua tana; i colori caldi, soffici, le davano sempre un senso di sicurezza ogni volta che entrava, ed era proprio così che si era sentita anche quella volta.

Veronica aveva camminato in silenzio, attraversando senza esitazione attraverso le vie che la separavano da casa sua. Ogni angolo, ogni biforcazione le era familiare, eppure tutto le sembrava incredibilmente distante. Il cuore le batteva più forte mentre si avvicinavano, come se ogni passo la riportasse indietro nel tempo, a una vita che sembrava quasi sfocata. Una parte di lei era ansiosa di rivedere quei luoghi, di riavere fra le mani almeno un frammento di ciò che aveva lasciato. Eppure, un'altra parte si contraeva in uno strano senso di vuoto, quasi sapesse che tornare lì significava affrontare un'assenza che non avrebbe mai potuto colmare.
Leonardo la seguiva e lo sguardo distratto vagava tra gli edifici e le insegne. Non aveva detto nulla, ma aveva osservato la tensione nei gesti di Veronica: il modo in cui le sue mani si stringevano nel tentativo di trattenere un'emozione troppo grande per essere messa da parte. Passando davanti ad uno dei tanti cancelli, lei si era fermata, come se quell'ingresso avesse il potere di risucchiarla in una realtà che aveva cercato di lasciare alle spalle.
La chiave era stata girata nella serratura con un suono secco, una volta entrati, il silenzio della casa li aveva avvolti, aprendosi su un corridoio vuoto e freddo. Leonardo si era guardato intorno, sorpreso dal modo in cui ogni cosa sembrava priva di vita. I mobili erano coperti da teli bianchi che avevano ondeggiavano lievemente al passaggio dell'aria, come fantasmi che vegliavano su un passato che qualcuno aveva tentato di cancellare. Le pareti, un tempo colorate e piene di foto, ne vedeva i contorni più chiari, sembravano ora spoglie e impersonali. Non c'era traccia di vita in quel luogo, solo un'eco distante di ciò che una volta era stato.

Veronica aveva fatto qualche passo lentamente, i passi ovattati dal silenzio che sembrava amplificare ogni battito del suo cuore. Il respiro era diventato più affannoso, come se l'aria stessa fosse densa di ricordi che premevano per riaffiorare. Ogni stanza la chiamava a sé, eppure ogni porta chiusa sembrava un monito: "Non entrare, non risvegliare ciò che hai lasciato qui." Quando aveva attraversato il soggiorno aveva fatto caso alla sagoma familiare del divano coperta da un lenzuolo; si era fermata un attimo, sfiorandolo con le dita. La stoffa ruvida le ricordava quanto il tempo avrebbe potuto trasformare tutto ciò che aveva significato "casa" in qualcosa di estraneo.Era entrata in una stanza, azionando la corrente, così avrebbero potuto accendere le luci.

Leonardo, che aveva seguito ogni suo movimento, non aveva potuto fare a meno di notare quanto quel posto sembrasse quasi un museo di emozioni sospese. Non c'era nulla che parlasse davvero di Veronica, nulla che lasciasse intravedere chi fosse o che lei fosse sul serio vissuta lì. C'erano solo oggetti congelati in un limbo, privi di identità, come se fossero stati messi in pausa. Anche lui, che di solito non si lasciava coinvolgere dalle emozioni degli altri, aveva avertito una strana inquietudine. Era difficile immaginare che quella fosse stata una casa piena di vita. Appariva solo come una scatola vuota, un riflesso sbiadito di qualcosa che non esisteva più.

Veronica aveva respirato profondamente, cercando di mantenere il controllo. Sentiva il peso degli occhi di Leonardo su di lei, e sapeva che probabilmente lui non capiva, non poteva capire cosa significasse essere di nuovo lì, tra quelle mura che un tempo erano state testimoni di ogni suo sogno, di ogni sua paura. Era rimasta in silenzio per qualche istante, lasciando che quella sensazione la attraversasse. Poi, con passo deciso, si era diretta verso la sua camera, come se rompere il filo invisibile che la legava ai ricordi fosse l'unico modo per andare avanti.

Leonardo l'aveva seguita, senza una parola, le mani nelle tasche dei pantaloni dopo aver appoggiato lo zaiono che si era portato dietro in salotto, e l'aveva vista aprire la porta con un misto di esitazione e determinazione. Quello che aveva trovato dentro era solo un'altra stanza fredda, con i mobili coperti e le finestre chiuse. Ma per lei, quel luogo racchiudeva molto più di ciò che si poteva vedere.

Il pavimento aveva scricchiolato sotto i suoi passi, come a ricordarle che il tempo si era fermato sul serio lì. Si era chinata leggermente per sollevare un angolo del telo che copriva il letto. Sotto il tessuto impolverato, le lenzuola colorate erano rimaste esattamente come le aveva lasciate. Era strano come tutto fosse rimasto congelato in quell'istante in cui era uscita di casa più di un mese prima, mentre la sua vita fuori aveva continuato a correre.

Leonardo, che era appoggiato allo stipite della porta, osservava senza dire nulla. Aveva smesso di cercare di capire cosa Veronica provasse; si limitava a registrare ogni minimo cambiamento nel suo comportamento. Anche se non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, una parte di lui sentiva una leggera punta di disagio. Quel posto aveva qualcosa di inquietante, un'assenza palpabile che sembrava impregnare l'aria. Non capiva perché Veronica si ostinasse a esplorare ogni angolo, come se cercasse qualcosa che non avrebbe mai trovato.

Lei, nel frattempo, si era spostata verso la scrivania. Aveva sollevato il telo che la copriva, insieme alle mensole sopra di essa, e notato ancora i libri impilati, i quaderni aperti, una penna lasciata in bilico sul bordo. Come se qualcuno fosse uscito di corsa, convinto di poter tornare a finire ciò che aveva interrotto. Ma quel ritorno non era mai avvenuto, e ora ogni cosa sembrava appartenere a un'altra persona, a una versione di sé che non esisteva più.

Leonardo si era mosso, avvicinandosi al centro della stanza. Con un gesto distratto aveva sfiorato la sedia, trovandosi poi le fita leggermente impolverate.

«È tutto così vuoto»

Le sue parole si erano perse nell'aria fredda, rimbalzando contro pareti che una volta avevano ascoltato risate, pianti, confidenze. Veronica lo aveva ignorato, concentrandosi invece su un piccolo cassetto della scrivania. Lo aveva aperto lentamente, e subito l'odore della carta stantia e della polvere le aveva riempito le narici. Dentro c'erano foto, vecchi appunti e lettere. Le sue mani tremavano leggermente.

Leonardo non riusciva a capire il perché di tutta quella tensione, quel rimuginare su cose morte e sepolte. Per lui, quelle stanze non avevano altro che la freddezza tipica di un luogo dimenticato. Per Veronica erano un confine tra ciò che era stata e ciò che avrebbe potuto diventare, un confine che non sapeva se voleva davvero attraversare.

Alla fine, aveva richiuso il cassetto e si era voltata verso di lui. I loro sguardi si erano incrociati per un attimo: lei cercava forse una qualche forma di comprensione, ma nei suoi occhi chiari c'era solo una sorta di distacco, una distanza che le aveva fatto capire che lui non avrebbe mai potuto vedere quel luogo con i suoi stessi occhi. Non si aspettava molto di più, ma in quel momento le era parso ancora più evidente quanto fosse sola in quel viaggio nel passato.

«Prendo le mie cose e ce ne andiamo» aveva detto infine, con la voce un po' roca.

Veronica si era avvicinata all'armadio ad angolo e aveva aperto l'anta cigolante. Dentro, una fila di vestiti pendeva stanca dalle grucce, mentre in basso, negli scaffali, erano ancora impilati i completi da pallavolo. Aveva esitato un attimo, lo sguardo perso su quelle maglie che aveva indossato per anni. I colori sgargianti sembravano aver perso un po' di vivacità, soffocati dall'odore di chiuso. Aveva afferrato con un movimento deciso le maglie, le ginocchiere e due paia di scarpe da pallavolo. Le aveva posate sul letto, accanto al borsone che si era portata. Mentre ripiegava con cura i completi, sentiva una leggera stretta allo stomaco. La pallavolo era stata il suo rifugio, la costante che le dava forza quando tutto il resto vacillava.

Nel frattempo, Leonardo si era avvicinato alle mensole sopra la scrivania, incuriosito dalle copertine impolverate e dall'ordine meticoloso con cui erano disposti i volumi. Con la mano aveva sfiorato il dorso di alcuni libri. Si era soffermato su alcuni titoli: romanzi fantasy, saggi di psicologia e testi di filosofia, vecchi classici dalle pagine ingiallite. Non l'avrebbe mai detto, ma qualcosa in quella selezione lo aveva colpito, come se quegli scaffali rivelassero una parte di Veronica che non conosceva. Nella sua stanza aveva visto solo fantasy, oltre i libri che le aveva consigliato lui. Però erano libri intonsi, dalle pagine bianche, senza nessuna sbavatura, trattati con i guanti e il massimo rispetto. I libri che Veronica aveva lì erano diversi: ingialliti, pieni di post-it, apparentemente maltrattati dalla lattura, e, come aveva notato poi, scritti dentro a penna. Non era solo la ragazza tutta ordine e determinazione che lui vedeva di solito: in quei libri c'era una profondità che lo incuriosiva.

«Non sapevo ti piacesse questo genere» aveva detto, tirando fuori un volume con una copertina leggermente logora. Il titolo e il nome autore non si leggevano più.

Veronica aveva alzato lo sguardo, sorpresa. Per un attimo si era chiesta se quella fosse una sua tattica per distrarsi o se fosse davvero interessato, dopo che non le aveva parlato per tutta la mattinata. Lo aveva osservato mentre sfogliava le pagine con attenzione, come se stesse cercando di carpire qualcosa di lei tra le righe. Era ovvio che l'unico motivo per cui mai Leonardo avrebbe dovuto parlarle ancora erano i libri. Sembravano amarli nello stesso modo.

«Sì... sono sempre stati una sorta di fuga.» 

Aveva risposto con un tono più morbido rispetto al solito, quasi pensierosa. Era un'ammissione che non faceva spesso. Quel libro, in particolare, era stato uno dei suoi preferiti, un rifugio nelle giornate in cui il mondo sembrava troppo ostile. Leonardo lo teneva in mano con una cura che lei non si sarebbe aspettata, visto l'umore. Tuttavia era sicura capisse comunque.

Lui aveva continuato a sfogliare il testp, soffermandosi su alcune frasi sottolineate. Tutti i classici e i saggi erano appuntati e avevano parecchi post it.

«Interessante. Hai segnato parecchio» aveva commentato, accennando un sorriso appena visibile. Più al libro che alla ragazza.

C'era una sorta di comprensione silenziosa in quel gesto, un riconoscimento del fatto che quelle parole, un tempo, dovevano aver avuto un peso significativo per lei.

Veronica aveva distolto lo sguardo e si era concentrata di nuovo sui suoi vestiti. C'era qualcosa di stranamente intimo in quel momento: lui che leggeva un frammento di lei, mentre lei cercava di non rivelare troppo di ciò che la toccava davvero. Non si trattava più del muro di ostilità o della freddezza. Era una tregua sottile, fatta di sguardi e gesti leggeri, come le pagine di un libro.

Leonardo aveva riposto il libro con delicatezza, quasi come se temesse di alterare l'equilibrio di quel piccolo spazio che si era creato tra loro. 

«Magari me lo presti, un giorno» aveva detto, con un tono volutamente casuale, ma che nascondeva una curiosità sincera. Non sapeva bene perché lo avesse detto, forse solo per mantenere quel filo sottile di connessione.

Veronica aveva cominciato tirando fuori alcuni completi da pallavolo e un paio di scarpe da una cassettiera, concentrata nel fare le cose con ordine, come per non pensare troppo al fatto che fosse di nuovo lì, in quella casa che non sentiva più sua. Leonardo si era avvicinato alla libreria, passando con lo sguardo su una fila di titoli: Nietzsche, Kierkegaard, Spinoza, ma anche testi più recenti come Sartre e Simone de Beauvoir. Un titolo aveva attirato la sua attenzione in particolare: Critica della ragion pura di Kant, una vecchia edizione con le pagine ingiallite.

«Kant? -aveva commentato, con un misto di curiosità e sorpresa.- Non ti immaginavo a leggere roba del genere. Non ci siamo nemmeno arrivati a scuola»

Veronica aveva alzato lo sguardo dai suoi vestiti e lo aveva osservato per un istante, valutando il tono nella sua voce. Se l'aspettava, Leonardo apparentemente apprezzava molto la materia.

«Perché? Ti sembro il tipo da letture più leggere?»

Leonardo aveva sollevato un angolo della bocca, sfiorando il dorso del libro con le dita. «Ti ripeto che sono convinto che da qualche parte hai l'intera collezione dei libri di Nicolas Sparks -Veronica lo aveva fulminato con lo sguardo, e il ragazzo aveva alzato le mani, in segno di resa- in classe non dai mai l'impressione di appassionarti a queste cose. Sei sempre così pratica. In camera non hai libri del genere. Non così»

Veronica si era stupita del fatto che lui avesse memorizzato tutti quei particolari. Lo aveva guardato piegando la testa di lato, incuriosita.

«Forse perché il modo in cui ci viene insegnata filosofia mi sembra poco pratico. Come possiamo capire davvero una cosa se non la mettiamo in discussione con la nostra vita?»

«Quindi preferisci un approccio più... esistenziale? Mettere alla prova le idee piuttosto che impararle a memoria?»

«Esatto. Kant è interessante, ma tutto il suo idealismo mi sembra un po' astratto. L'idea che la realtà sia strutturata dalle nostre categorie mentali ha senso, ma rischia di farci perdere di vista l'esperienza concreta. Non credo che l'essenza della vita sia solo un gioco di rappresentazioni.»

Il ragazzo si era appoggiato alla scrivania, studiandola con maggiore interesse. «E cosa ne pensi di Schopenhauer, allora? Vedo Il mondo come volontà e rappresentazione. Non è proprio il massimo della concretezza.»

Veronica aveva lasciato sfuggire una risata sottile. «Non riesco a digerirlo. Crogiolarsi nel dolore mi sembra l'atteggiamento più inutile che ci sia. La vita ha le sue difficoltà, ma accettare passivamente che tutto sia sofferenza e disperazione mi sembra una scusa.»

Possibile che avesse avuto una lettura così sbagliata di lei? La sua immagine di Veronica era stata così monopolizata dai pregiudizi?

«Davvero?»

«Penso che arrendersi alla sofferenza sia uno dei modi peggiori di vivere. Capisco che molte persone si riconoscano nel suo pessimismo, ma io credo che sia una trappola. Se ti convinci che tutto è inevitabilmente negativo, allora non provi nemmeno a migliorare le cose. È un circolo vizioso. Forse è proprio per questo che Schopenhauer mi irrita: vede solo il lato negativo della volontà, ma non considera il potere che possiamo avere come individui.»

Per un attimo, Leonardo era rimasto in silenzio, riflettendo su ciò che aveva appena sentito. Era abituato a considerare Schopenhauer come una verità scomoda, ma onesta. Tuttavia, non poteva ignorare la logica dietro il ragionamento di Veronica.

«Sono queste cose a cui pensi sempre? Il motivo per cui ti perdi in momenti solo tuoi?»

Veronica era arrossita, aveva sentito le orecchie andarle a fuoco, e aveva puntato i propri occhi dritti nei suoi, come se lo stesse sfidando a prenderla in giro. 

«Spesso sì. Tendo a sovraanalizzate tutto ciò che mi sta intorno, per questo la filosofia»

«Forse non sei un cliché come pensavo.»

Veronica avev riso «Forse perché dovresti smettere di giudicare le persone dalla prima impressione.»

Il ragazzo non aveva risposto subito, perché lei aveva colpito esattamente nel segno. Si era limitato a restituirle un'occhiata che sembrava dire: Touché.

Leonardo aveva osservato la stanza, come se cercasse di scoprire qualcosa che non aveva notato prima. Veronica si era messa a riporre i vestiti nella borsa. Dopo quello avrebbero potuto lasciare le loro cose lì e andare a pranzo.

«Non è semplice trovare qualcuno così interessanto a filosofia»

«Se ti va... -Veronica era diventata rossa, sentiva il volto andarle a fuoco- Se vuoi possiamo discuterne di più, se ti va. Puoi prendere dei libri, se vuoi»

Leonardo l'aveva guardata come se fosse confuso, mentre lei si rialzava e si metteva dal lato opposto della scrivania rispetto al suo.

«Non avrei mai pensato che fossi disposta a condividere i tuoi libri.»

«Quelli sì -Veronica lo aveva detto con un leggero sorriso.- La filosofia è interessante, ma parlarne... decisamente di più»

«Penso sarebbe interessante leggere le tue annotazioni.»

Leonardo aveva preso uno dei libri che sembravano essere stati letti con più minuzia. Sfogliandolo, si era accorto che quel libro era pieno di scritte, sia ai margini delle pagine sia tra le righe del testo, e Leonardo era sinceramente curioso di sapere cosa aveva scritto.

«Il senso delle cose che si amano si perde sempre un po' quando non si ha nessuno con cui condividerle»

Leonardo si era preso un momento, poi aveva annuito lentamente. «Sì, potrebbe essere vero.»

Magari quella giornata, alla fine, non sarebbe andata così male.

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