Per un pugno di spighe
Prova scritta per il Winter Writing Contest del WritinwithyouProject
Traccia: Ed eccolo lì, a un passo da te, ciò che ti porterà al coronamento dei tuoi sogni; dopo tanta fatica finalmente ci sei. C'è qualcosa che non va, però, e una volta che hai il tuo sogno finalmente tra le mani, questo si trasforma nel tuo peggior incubo.
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Ho ventisei anni, quattro mesi e dieci giorni.
Mia madre si chiama Abelke.
Mia sorella si chiama Sanne.
Da molto tempo, ormai, ogni singola notte prima di cedere al richiamo del sonno ripeto a me stessa queste informazioni, come fossero un mantra. È più un'abitudine che una reale necessità: alla fine in questo luogo l'età - per dirne una - è un concetto relativo; quello che davvero conta è ciò che sei in grado di fare, quali abilità ti caratterizano, quali sono i tuoi punti di forza o gli assi nella tua manica. Nonostante ne sia consapevole, per qualche strana ragione non riesco a impedirmi di perseverare nel ripetermelo, troppo atterrita dal timore che il trauma e tutta quella roba psicologica mi facciano dimenticare ogni cosa: continuo ad avvertire, dentro di me, la sensazione che sia un elemento importante, uno di quelli che aiuta a non perdersi. Mi scorre nelle vene, vischiosa come resina, e mi lascia in balìa dell'inquietudine finché non le do ascolto.
Forse è perché, in compenso, per quanto possa sembrare assurdo non ho più memoria del mio, di nome: l'ho scordato, perso nel vento, per il semplice fatto che a nessuno interessa più. Nessuno ha un motivo per voler attirare la mia attenzione, scambiare quattro chiacchiere, sentire la mia opinione su questo o quello. Credevo non ci fosse bisogno di ripeterlo insieme alle altre informazioni - d'altronde il nome è una parte importante di se stessi, una di quelle fondamentali, come fai a scordartene? - , eppure... Forse la colpa è dello stress o della stanchezza, fatto sta che ricordo solo che ha qualcosa a che fare con il grano: mia madre diceva che sembrava fatto apposta per me e per i miei lunghi capelli biondi.
Il grano, già. Sono anni che non vedo il grano, che non sento sotto i polpastrelli la sensazione della carezza ruvida eppure delicata delle spighe dorate, appena smosse dalla brezza primaverile di una tiepida giornata di aprile.
Sopporta. Stringi i denti. Concentrati.
Cerco di mantenere ben salda sia l'attenzione che la presa sul fucile, mentre mi nascondo meglio dietro il cumulo di macerie e attendo che i rumori della sparatoria che impestano l'aria cessino. È proprio per questo - per cose senza prezzo come il grano, le foreste, la libertà: il mio sogno, in due parole - che sto lottando ogni singolo giorno da circa un anno.
Avevo venticinque anni, sei mesi e ventidue giorni.
Vivevo in una casa modesta, ma accogliente e confortevole, a nord di Berlino. Mio padre se l'era portato via la lunga guerra anni prima - pace all'anima sua - ed eravamo rimaste solo in tre: io, mia sorella e mia madre. Mamma per mantenersi faceva la sarta: per lo più riparava le divise dei soldati e nel tempo libero confezionava abiti semplici, robusti e comodi, da lavoro, che poi rivendeva agli abitanti del villaggio; noi aiutavamo come potevamo. Non avevamo una vita agiata, ma nemmeno morivamo di fame: tanto ci bastava per considerarci felici e fortunate.
Fino a quel giorno.
Acquattati. Non perdere la presa. Affina l'udito.
Era un pomeriggio in cui il caldo torrido si infilava tra i secondi, allungando la pausa tra l'uno e l'altro, tanto da far pensare che qualcuno li stesse lasciando andare col contagocce; l'aria era talmente ferma che sembrava che qualcuno avesse premuto il pulsante di stop, come quando guardavamo un film sulla vecchia tv. In una giornata del genere sarebbe stato possibile captare persino il più flebile suono, figurarsi il rumore prodotto dalle pale dell'enorme aereo che si avvicinava sempre di più. Eravamo tutti usciti dalle nostre case, poco alla volta, vinti dalla curiosità, e ci eravamo raccolti nei pressi del luogo in cui quella specie di appartamento volante pareva aver intenzione di atterrare.
Poco dopo che il pesante veicolo era piombato sul terreno riarso con un tonfo sordo e il vento impetuoso prodotto dalle pale aveva cessato di imperversare, il portellone si era aperto e un uomo calvo e interamente vestito di nero - con una camicia chiusa fino all'ultimo bottone, che risultava nascosto da uno strato del suo triplo mento - era sceso dalla cosa volante e aveva iniziato ad avvicinarsi a noi.
«Forse...» aveva iniziato a dire, boccheggiando per il caldo che gli aveva seccato le parole in bocca dopo nemmeno un secondo. Aveva tirato fuori dalla tasca un grosso fazzoletto bianco con cui aveva asciugato il sudore che, copioso, gli imperlava la fronte, mentre un uomo gli consegnava una bottiglietta d'acqua.
«Forse non mi conoscete, no, decisamente no» aveva proseguito, dopo aver tracannato una generosa quantità d'acqua. «Ma insomma, io sono il Ministro della difesa, eh, insomma.»
Ci guardammo tutti con aria diffidente, non riuscendo a capire cosa potesse volere il Ministro della Difesa in persona dal nostro piccolo villaggio; cos'altro volesse prendersi, di grazia, dopo che aveva già preso i nostri padri, i nostri fratelli, i nostri mariti, i nostri figli; dopo che aveva già trafugato impietosamente la spensieratezza dei bambini, la serenità degli anziani, l'amore degli adolescenti e delle famiglie?
«Mi trovo qui perché siete stati selezionati per un progetto sperimentale - eh, che fortuna, vedete? Che gran fortuna, dico io - : dovrete solo seguirmi tutti sull'Aeromobile e vi spiegherò ogni cosa, ogni singola cosa, badate bene, ogni cosa, sì!» Altro sorso d'acqua. «Potete lasciare qui tutto ciò che possedete, vi verrà dato tutto il necessario - non vi potete proprio lamentare, oh no - avanti, iniziate a salire, forza! Si parte subito.»
Forse fu per la determinazione che ci lesse addosso, quella scintilla che solo la forza della disperazione riesce a far illuminare negli occhi, alimentando il coraggio; forse fu per il fatto che non muovemmo nemmeno un muscolo o forse per il dito medio che il figlio della farmacista del paese gli dedicò, fatto sta che aggiunse: «Superfluo dire che chiunque non verrà con noi sarà punito con la morte - eh sì, duro ma necessario, qui abbiamo bisogno di soldati per il paese, eh. - »
Sporgiti appena, solo per controllare. Poi rintanati. Più veloce. Aspetta il silenzio.
Inutile dire che lo seguimmo, tutti tranne Klaus, il mugnaio: lui preferì prendersi un proiettile in testa, piuttosto che cedere al ricatto dell'uomo in nero.
Una volta in volo, quando ci fummo ormai tutti accomodati su confortevoli sedili in pelle, l'uomo ci spiegò che il nostro, insieme a un'altra ventina di villaggi dislocati qua e là in tutta la nazione, era stato scelto per prendere parte a un progetto il cui scopo principale era la selezione dei migliori soldati dell'intera Germania. Saremmo stati addormentati farmacologicamente e tenuti in vita attraverso una macchina che avrebbe anche costantemente monitorato i nostri parametri vitali, al fine di essere catapultati in una realtà virtuale, una specie di videogioco estremamente realistico. Ci avrebbero divisi in gruppi randomizzati: ci saremmo risvegliati direttamente nei vari Campi - come li chiamava lui - insieme a gente per lo più sconosciuta. Nel Campo avremmo dovuto fare di tutto per sopravvivere, sfoggiando le nostre migliori qualità in fatto di istinto di sopravvivenza, intuito, forza, coraggio e... sangue freddo. Solo tre di noi sarebbero stati selezionati e per ogni Campo saremmo stati circa in duecento: inutile dire che avremmo dovuto sterminare gli altri centonovantasette "ostacoli" sul nostro cammino.
I fortunati soldati sarebbero poi stati inviati sul fronte per una manciata di mesi, quindi rimandati a casa, liberi di vivere la propria vita; i familiari dei suddetti valorosi combattenti avrebbero ricevuto una cospicua somma di denaro e sarebbero tornati al villaggio insieme a tutte le altre persone non selezionate.
Semplice. Cristallino, oserei dire, talmente tanto da riuscire a vedere perfettamente attraverso la il vetro delle sue parole taglienti la nostra impotenza, fumosa e scura come una nube carica di pioggia.
Non avevamo scelta.
Al nostro arrivo nella sede del ministero, ci avevano fatti distendere su delle barelle e ci avevano iniettato un liquido traslucido che bruciava come l'inferno: avevo creduto che le vene mi sarebbero letteralmente andate a fuoco e avevo lasciato la mano di mia madre, che fino a quel momento avevo stretto in maniera convulsa senza proferire parola, per paura di scottarla, tale era la combustione che mi accendeva le viscere.
Poi, semplicemente, mi ero addormentata.
Un'imprecisata quantità di tempo dopo, mi ero risvegliata al Campo, una vasta piana che pareva essere stata progettata come una città presa a pugni dalle mani pesanti della guerra: ovunque erano presenti vecchi edifici e loro resti; la vegetazione sembrava aver preso il sopravvento e le radici degli alberi, grosse come braccia, serpeggiavano libere di crescere per tutta l'area, sollevando macerie e resti di marciapiedi e spaccando l'asfalto. L'unico elemento che non aveva risentito della distruzione era un edificio dalla pianta quadrata presente a Est del Campo, che veniva costantemente rifornito di armi.
Quella, da quel momento in poi, sarebbe stata la nostra casa: lì avremmo dovuto vivere, dormire, mangiare e sterminarci.
Una passeggiata.
Avevo ucciso la prima persona qualche giorno dopo: aveva provato ad accoltellarmi nel sonno, ma io avevo sentito i suoi passi lievi, attutiti dalla vegetazione, ed ero riuscita a strozzarlo fino a che non avevo sentito che ogni fibra del suo corpo si era rilassata, cedendo al dolce richiamo della morte. Credevo che uccidere qualcuno fatto di pixel sarebbe stato meno intenso, meno crudo, meno reale, ma così non era stato: avevo avvertito ogni singulto strozzato, ogni spasmo della pelle, ogni spinta della cartilagine della trachea che provava a opporsi alle mie mani.
Era biondo, con un volto rubicondo e un paio di enormi occhi azzurri, contornati da ciglia lunghissime e chiarissime, quasi eteree.
Aveva su per giù otto anni.
Sapevo che era inutile, in fondo era una realtà virtuale, ma avevo deposto il cadavere all'ombra di un albero; il giorno dopo era sparito, inghiottito dai meandri del gioco.
Avevo cercato di non farmi muovere dalla compassione - tanto era tutto finto, maledettamente finto - e pensare solo ad arrivare fino in fondo; piano piano la sensazione d'impotenza era svanita, soppiantata dalla voglia di vincere, stringere tra le mani il mio sogno: contava solo essere fra i fortunati tre, regalare alla mia famiglia una vita agiata, ritrovare la libertà, la felicità, la mia vita prima del Campo.
Non ho mai stretto alleanze, con nessuno, pur di non essere costretta a sacrificare nessuno, seppure per finta, e ho iniziato a uccidere senza sosta, diventando sempre più silenziosa, sempre più capace, sempre più letale; persino il mio fisico è cambiato, asciugandosi e definendosi: sono ormai un fascio di muscoli tesi e scattanti. A giudicare dal fatto che siamo in pochissimi - si vede sempre meno gente, in giro, e i miei sonni sono sempre più indisturbati - , devo essere sempre più vicina al mio obiettivo.
Buona parte dei miei desideri era occupata anche dal fatto che mamma e Sanne non ce la facessero, che non arrivassero alla fine del gioco: mia madre è troppo anziana e debole per andare in guerra e mia sorella troppo giovane. Ci avrei pensato io, io a fornire loro soldi e agi e a proteggere le loro spalle.
Ho le spalle larghe, sono brava.
Ci penso io.
In un attimo mi rendo conto che una calma innaturale pervade l'aria, un silenzio denso, di melassa, imputridito dal puzzo della paura ed elettrizzato dall'indecisione e dall'attesa. Mi sollevo appena dal mio nascondiglio, cercando di scorgere qualcosa: non vedo altro che un paio corpi accasciati a terra, apparentemente senza vita - ma fidarsi non è opportuno, c'è chi è bravo a fingere - .
Non appena mi metto in piedi, un'ombra spunta da un tronco: con un movimento repentino imbraccio il fucile, miro, colpisco e mi riacquatto al sicuro, dietro il cumulo; l'eco dello sparo non si è ancora allontanata, che sento un rumore sordo, un tonfo.
Un cadavere è crollato a terra.
L'ombra è morta.
Avanti il prossimo.
In pochi secondi, una voce gracchiante si diffonde nell'aria: «Fermi tutti - eh, fermi! Fermi, di grazia, siete in tre - bravi eh, ci avete messo un sacco rispetto agli altri villaggi, però: gli altri sono già partiti, intanto abbiamo richiamato altre persone; e dire che vi abbiamo dato anche più armi, eppure... ma ora non conta, ecco, insomma, ora ci siete.»
La felicità mi prende in pieno petto come un pugno - non credo alle mie orecchie - , mi toglie tutto il fiato e ogni singola briciola di forza dal corpo, facendomi crollare come una bambola di pezza e arrivare carponi per terra. Le ginocchia picchiano forte sul suolo e il sangue che si affaccia dalle ferite si mescola al terriccio, mentre il torace mi si alza e abbassa in maniera convulsa, seguendo il ritmo frenetico del mio respiro imbizzarito, reso celere dall'emozione. Gli occhi mi si bagnano di lacrime di gioia che non riesco a controllare: mi scendono sulle guance, creando un sentiero lucido che spacca la sporcizia incrostata sulla pelle; inizio a ridere, a ridere forte, senza riuscire a fermarmi.
Ce l'ho fatta, mamma, ce l'ho fatta! Ora ci penso io a te, a noi, a tutto.
Ce l'ho fatta, ti ho reso orgogliosa di me.
Non vedo l'ora di vedere la tua espressione, quando scoprirai che tua figlia è una dei tre, che ho saputo rendere onore alla famiglia. Potrai parlare di me a tutti, mamma, dire che sono stata forte, coraggiosa. Dire che ce l'ho fatta, per te.
Hai visto, papà? Hai visto anche tu?
«Venite tutti qua, su forza; coraggio, insomma!»
Sento la voce dell'uomo in nero farsi sempre più vicina, quindi mi rimetto in piedi e cerco di scorgere l'inconfondibile pelata tra le fronde degli alberi. Guidata dall'istinto e dalla sua voce, percorro i pochi metri che mi separano da lui e uno dopo l'altro, gli altri due soldati rimasti riemergono dai meandri del Campo: sono un ragazzo sui vent'anni e la moglie del sindaco del mio paese. Le sorrido rassicurante, felice di vedere una faccia conosciuta.
«Complimenti a tutti, eh, complimenti vivissimi! Sentiti! Siete stati meravigliosi. Non posso far altro che c-»
«Quando ci svegliate? Quando potremo tornare alla realtà?» È la donna a interrompere il ministro. Continua a torturarsi le mani con apprensione, mentre sembra non resistere più dalla gioia al solo pensiero di riabbracciare suo marito e sua figlia, una bambina di cinque anni dagli occhi azzurri come il cielo. La capisco, la capisco bene.
Sto arrivando, mamma, tieniti forte!
Il ministro tira fuori dalla tasca un fazzoletto bianco - curioso, sembra lo stesso della prima volta: chissà se ne ha un intero corredo, tutti uguali - e si asciuga la fronte. Il sudore è talmente copioso che gli cola negli occhi, facendoglieli strizzare, eppure qui mica fa caldo come a casa - casa! - . Deve avere qualche problema di salute.
«Oh ma, eh beh» inizia a balbettare «ecco, c'è una cosa, in effetti, non saprei come dire... ma tante volte non c'è un modo delicato, nevvero? Basta dirlo. E quindi lo dico: voi siete già svegli, sissignore.»
Cosa?
«Impossibile» esordisce ancora la moglie del sindaco. «Ricordo bene il liquido maledetto con cui mi avete addormentata, prima di calarmi sugli occhi la maschera della realtà virtuale.»
«E non se l'è mica sognato, no, quello no, ma era un banale sonnifero, ecco, sì, solo un banale sonnifero. La maschera della realtà virtuale invece solo una recita, temo.»
No.
«Speravamo di sviluppare... nel tempo forse, ma insomma, ecco, gli ingegneri non sono stati granché bravi, nevvero? Oh no, era un sonnifero, siete svegli, è tutto vero.»
No. No, no, no, NO!
«Desolato per l'inconveniente, ma insomma - oh su, cosa sono quelle facce, su! Animo, animo! - Siete pronti a combattere per la patria, eh, non siete felici di essere i migliori? Vi abbiamo reso creature letali, macchine da guerra, eh, capaci di sopportare intemperie e asperità, eccome, questa prova era necessaria per questo. Ma ora potrete dominare il mondo!»
Il dolore mi colpisce nell'esatto punto in cui la felicità aveva mirato, poco fa. Mi investe all'improvviso, si insinua sotto pelle e mi strappa via tutti gli organi, tutti, alla rinfusa, come una bestia infernale che lacera ogni cosa che le si para davanti. Mi chino in avanti in preda a un crampo violentissimo, incapace di trattenere un conato di vomito e di espellere poi tutto il poco che ho in corpo. Il sangue inizia a sgorgare copioso da ogni singola ferita dell'anima e lentamente sento defluire ogni sentimento, ognuno, finché di me non rimane altro che una crisalide, una carcassa, un involucro tumefatto e rotto in più punti.
Mamma...
Sanne...
Gli occhi mi si riempiono di lacrime mentre un fiotto di bile acida mi riempie la bocca e, lentamente, le immagini di mia madre e mia sorella iniziano a scorrere davanti ai miei occhi come in un film.
Le volte in cui io e Sanne aiutavamo mamma a cucire, fino a farci venire gli occhi rossi e i calli alle dita per lo sforzo di intessere un punto dietro l'altro.
Quella volta in cui per sbaglio ho bruciato la cena e abbiamo mangiato fagioli carbonizzati per due sere di fila, ché solo quello ci potevamo permettere.
Le peonie che ogni mattina andavamo a raccogliere e mettevamo in un vaso, all'ingresso, per iniziare la giornata con un sorriso.
I vecchi filmati del matrimonio di mamma e papà che almeno una volta al mese guardavamo insieme, abbracciate strette sul divano.
Le volte in cui mamma mi intrecciava i capelli con cura, prendendosene cura.
«Weike» mi diceva, «mia dolce Weike. Mio tesoro più prezioso, figlia del grano, figlia dell'oro. Abbi sempre cura del tuo dono, lascia sempre che i tuoi capelli e la tua anima rilucano, catturando la luce del sole.»
Weike*.
Ecco, come.
Mi chiamo Weike, ho ventisei anni, quattro mesi e dieci giorni.
Mia madre si chiamava Abelke.
Mia sorella si chiamava Sanne.
Fino a ieri non avevo niente e in un solo giorno ho ritrovato il colore del grano e l'odore acre dell'impotenza.
Mi permea le narici, scendendo fino in gola e stuzzicandomi l'epiglottide fino a generare nuovi conati di vomito, mentre prendo coscienza del fatto che non avrei potuto fare nulla per sottrare me o loro dal mio destino, niente avrebbe potuto cambiare le cose, qualcuno aveva già deciso per me, derubandomi persino della possibilità di scegliere se vivere o morire, sapendo come stavano le cose.
Mi hanno fatto lottare per la mia stessa distruzione, ogni giorno, per quasi un anno, come fossi una marionetta tenuta su da fili intessuti d'inganno.
Sollevo gli occhi e incontro quelli dell'uomo in nero, ormai trincerato dietro una decina di guardie armate fino ai denti, incontro il suo sguardo impaurito e prendo l'unica decisione che in questo momento mi sembra possibile, l'unica che mi lasci ancora un certo grado di capacità decisionale, in questo miscuglio di lutto, bugie e realtà indigeste che mi hanno costretto a mandare giù per tutto questo tempo.
Chiuderò a doppia mandata il mio dolore dentro di me,
imprigionandolo tra le coste,
sederò i mostri che vorranno dilaniarmi l'anima ogni istante,
cullandoli con nenie dal retrogusto amaro,
e abbraccerò il buio che mi osserva a fauci spalancate,
armandomi della consapevolezza che
finché il grano manterrà ancora il suo colore
e l'ultimo alito di vita mi albergherà nelle vene,
agendo come la macchina da guerra che loro stessi hanno creato
io li ucciderò.
*Grano, in tedesco, si dice "weizen". Giusto per chiarire la faccenda del "il mio nome ricorda il grano". (:
Diciamo un paio di cose e contestualizziamo un secondo?
Siamo in Germania, nel pieno di un futuro distopico, in un anno non ben identificato. Tutto quello che sappiamo è che da anni è in corso un conflitto mondiale, che, a causa della sua durata, sta svuotando gli eserciti, rendendo necessario reclutare nuove leve.
Il ministero della difesa ben pensa, dunque, di prelevare "campioni" del suo popolo, per così dire, e buttarli letteralmente in una riproduzione in scala 1:80 della guerra che nel frattempo imperversa da qualche parte nel mondo: la teoria alla base di questa brutale "formazione" starebbe nel fatto che nessuna scuola è meglio della realtà.
Questo, naturalmente, fa perdere molto in termini di tempo (nel lasso temporale in cui un Campo potrebbe concludersi - un anno, in questo caso - per quanto loro ne sanno potrebbe anche risolversi il conflitto), ma si scontra col fatto che, secondo loro, meglio mandare allo sbaraglio tre soldati di qualità domani che duecento inesperti tra donne e bambini oggi; consideriamo anche che nulla vieta al ministro di, in condizioni di reale necessità, prelevarli tutti da un giorno all'altro e mandarli al fronte. C'è da considerare anche che il Campo è una sorta di intrattenimento per i grandi capi, che scommettono su questo o quel soldato come fossero cavalli: uniscono l'utile al dilettevole, per così dire.
Tutto questo per dire che ci sono delle falle nella mia storia, ne sono consapevole: in parte sono dovute al fatto che in una OS non potessi mettermi a raccontare tutti i retroscena, in parte al fatto che è il mio primo imbarazzante esperimento con i futuri distopici (mannaggia alle mie idee), in parte al fatto che ho avuto poco tempo per scriverla, nonostante me ne sia preso un'infinità rispetto al limite del concorso.
Purtroppo questo è un periodo caldo per me - tra lavoro, studio, concorso e tutta un'altra serie di impicci - ma nonostante io odi consegnare le cose fuori tempo massimo, forse odio ancora di più gettare la spugna.
Quindi non so ancora se ho fatto troppo tardi e spero non sia così (tra l'altro spero di non essere andata un pelo fuori traccia, avendola interpretata a modo mio), ma almeno sento di aver messo un punto a questa storia che mi frullava in testa sin dal primo momento che ho letto la traccia. Per renderla reale e plausibile (nonostante i limiti del futuro distopico mia abbiano lasciato una mano piuttosto libera) ho impiegato un po' più tempo, ma alla fine nel complesso non mi dispiace. Mi auguro sia così anche per voi.
Baci a spruzzo,
Giulia.
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